Anteprime: MARNERO – LA MALORA

DB28_MARNERO_LAMALORA_Gatefold.indd

“All’alba di un giorno qualsiasi, una nave entra nel Porto di una città stretta fra mare e foresta.”

La Malora è il terzo e quarto capitolo della Trilogia del fallimento (i precedenti capitoli erano Naufragio universale e Il sopravvissuto). Esce il primo gennaio e si ordina qui. Assieme al disco lo stesso giorno uscirà un romanzo, stesso titolo, scritto da J.D. Raudo ed edito da BéBert. Disco e libro sono divisi in capitoli, ognuno con protagonista un personaggio o una situazione diversa. Vi offriamo in anteprima lo streaming di L’Ubriaco e il Cieco, e i due capitoli del libro corrispondenti. Buona lettura, e buon ascolto.

 

________________________________

IV

L’UBRIACO

La rotta indicata dalla bussola è un’ipotesi.
Possiede una lunghezza ma non uno spessore,
non può essere vista né percepita.
Non fa altro che mantenere il natante in rotta,
attraverso una serie di errori.
(J. Raban)

L’Ubriaco ha lo sguardo perso nel vuoto. Al collo porta una collana lunga, con un pendaglio a spirale dagli angoli squadrati. Alle orecchie, anelli dorati che tintinnano ad ogni movimento.

L’UBRIACO – È successo qualcosa ieri sera… Un disastro, un naufragio, cosa è successo? Non ricordo più un bel niente…

L’uomo parla da solo, guardando in giro spaesato. Il suo sguardo è confuso. E anche quello degli altri intorno a lui.

LA DONNA – Che ti è successo?

L’UBRIACO – Non lo so. Ero qua dentro, ieri notte. Qualcuno mi ha offerto da bere… Era un operaio in divisa, con un cane nero al guinzaglio. Anzi no, era l’operaio ad essere al guinzaglio del cane. Poi, ad un certo punto, ero fuori, continuava a piovere, ero sbronzo, vagavo da solo per la città. Mi sentivo solo, non sapevo dove andare. Per le strade c’era un funerale, io l’ho spiato da dietro un albero… Alcune persone piangevano, altre no. Portavano via un sacco nero.

L’Ubriaco è sporco di fango e sembra davvero il capo degli imbecilli. Continua a biascicare sproloqui.

L’UBRIACO – Poi ecco ancora quell’uomo in uniforme e il cane nero, mi seguivano, volevano qualcosa… Ti voglio proteggere, mi dice. Ma che cazzo vuoi. Io lo guardo negli occhi, capito, e lui evita il mio sguardo. Mi prende per pazzo. Sì, Sì. Ah! Tu hai una divisa perché non vuoi prenderti la responsabilità delle tue azioni, gli ho detto, tu dentro quell’uniforme sei solo una marionetta senza cuore, e quindi solo in uniforme puoi agire senza una coscienza! Bravo! In uniforme non devi scegliere, scelgono gli altri per te! Pupazzo. Questo gli ho detto! Gli ho detto che se volevano mettermi un coso di ferro alla gamba e farmi scavare quella cazzo di Fossa gigante, che se lo potevano scordare perché… se devo passare la mia vita in mezzo ai morti preferisco uccidermi qui e ora, mangiandomi da solo. Si! Evviva l’auto-cannibalismo! Comincio a mangiarmi una mano, un piede, poi le gambe le braccia il torso e poi mi ingoio la testa da solo, piuttosto!

L’uomo gesticola nell’aria e guarda un punto a caso.

L’UBRIACO – Quel bastardo… Sento ancora le sue risate mentre slega il cane! Sono dovuto fuggire verso il Porto, è lì che sono caduto, mentre fuggivo dal cane nero. Al Porto c’erano delle navi che stavano per salpare. Ricordo un brigantino… In un alone indistinto che il chiaro di luna rendeva visibile. Poi la mia gamba si è piegata e sono caduto. Devo aver perso conoscenza. Non ricordo molto altro… Quando mi sono svegliato, ero in catene, al centro di una stanza quadrata. A un certo punto c’era un letto da una parte, il mare dall’altra, il muro era un pavimento di legno. Io ero disperato, in piedi su una clessidra, con una benda rossa. Ma chi siete voi? Io vi conosco. Io vi ho già visto…

La clessidra è li davanti, minuscola, sul tavolo.

IL VECCHIO – Datti una calmata, uomo. Sei solo un bel po’ sbronzo. Ora stai meglio?

L’UBRIACO – Non lo so, non lo so… Ho paura… Quel cane… Voglio morire.

Uno degli uomini, vestito di grigio, lo squadra sospettoso. Lo crede un impostore.

L’UBRIACO – Ecco! Ritornano frammenti di ricordi. Rivedo un’immagine: il mio volto dentro una pozza di liquido, su un pavimento grande come l’oceano che rifletteva il mio viso, lo distorceva… avevo paura.

LA DONNA – Perché non vai a casa, ora?

L’UBRIACO – Quale casa?

Fa una lunga pausa. Nessuno prende la parola, aspettano un racconto. La sua versione.

L’UBRIACO – C’erano voci nella mia testa. Un fischio nell’orecchio. La pioggia… Tutto era suono di violino, pianto di violino. Mi riflettevo in quella pozza, era il mio sangue, lo avevo perso tutto, o almeno questo è quello che pensai. E se fosse stato solo sudore? Avevo fatto fatica. E se fosse stato solo vino? Ma ero talmente disperato. E se fossero state solo lacrime? E se…

Si mette una mano fra i capelli, si tocca la testa. La mano si colora di rosso. Ha una ferita sulla nuca che sanguina parecchio, anche se il taglio non è molto profondo. Aggrotta le sopracciglia alla vista della propria mano insanguinata, poi il dolore lo zittisce, sembra distaccarsi. A quanto pare, il dolore è sopraggiunto solo dopo la visione della ferita. Prima non c’era.

Passa un po’ di tempo. L’Ubriaco si calma un poco. Trova in tasca un foglio e una matita. Sul tavolo scrive, incerto, strani simboli e lettere con una calligrafia tremante e devastata. Poi disegna delle spirali concentriche. L’uomo alto si è messo a mescolare il mazzo di carte. Tutti gli altri, a parte l’uomo grigio vestito da funzionario e il Vecchio, lo ignorano e bevono il vino dai bicchieri opachi. In fin dei conti è solo un Ubriaco.

Lo sguardo smarrito dell’Ubriaco vaga per la stanza. Viene attratto dalla valigia abbandonata nell’angolo ai piedi della scala. La riconosce subito: è in effetti la sua valigia, probabilmente la valigia di un lungo viaggio. Si alza di scatto per rovistare. Non c’è niente, cerca dentro, poi cerca fuori. Poi di nuovo dentro. È vuota.

I suoi occhi inorridiscono alla vista del fondo della valigia, come se ci fosse uno specchio. Sembra che qualcosa sia sparito, ma forse è sparito solo dentro di lui. O forse aveva riempito la valigia con tantissime cose proprio per non vedere mai più ciò che realmente si nascondeva sul fondo: niente. Terrorizzato, la ribalta e alla fine riesce a far cadere un oggetto: una piccola agenda, rilegata in tela marrone nella costa e negli angoli, con una mappa disegnata sulla copertina e fogli sparsi all’interno.

L’Ubriaco tira un sospiro di sollievo. Qualcosa è rimasto. Forse si tratta del suo diario, un diario di bordo. Una storia di oceani, di naufragi e di battaglie di cui è, secondo la sua versione, l’unico superstite.

Sfoglia le prime pagine: sono solo lunghi elenchi di cose fatte, barrati da linee che ne segnano la realizzazione. Pagine e pagine con liste di cose barrate, doveri compiuti. L’impossibile reso possibile, e quindi ucciso. E un sacco di vortici disegnati male.

L’UBRIACO – Ecco. Per anni ho vissuto così. Facevo liste. Cose da fare, che mi mettevano in movimento e mi davano uno scopo. Ah! – ride – Quando finivo la lista, era come se finisse anche la terra sotto i miei piedi. Vedevo quel buco… E, tra una lista e l’altra, bevevo.

UN UOMO CON LA PIPA – E mi sa che hai bevuto un po’ troppo.

L’uomo che ha parlato ha una pipa in bocca ed è in disparte nell’angolo sotto la finestra. Sorride.

L’UBRIACO – A una certa età ti compare accanto un buco che risucchia tutto, un gorgo che ti afferra il braccio ogni giorno – mostra il foglio: ha disegnato di nuovo una specie di mulinello, un vortice concentrico. – E ci devi convivere. Come si fa? Solo due cose possono darti la forza di accettare quel fardello sulle spalle: le promesse di un Dio, o il vino.

IL VECCHIO – Suppongo che gli Dei siano latitanti.

L’Ubriaco gira pagina: le liste, ora, sono terminate e sull’agenda inizia il diario di bordo. Comincia con una frase, che l’Ubriaco legge a voce alta: “Un secondo di libertà non ti ripagherà di una vita intera di schiavitù”.

Quelli che sfogliano quel diario confuso e scarabocchiato non sono più gli occhi di un Ubriaco. È un uomo lucido che racconta agli altri di star prendendo coscienza di alcuni fatti: la notte era nera e senza luna; lui è entrato nella Taverna per bere, e non per dimenticare, ma per ricordare; sospetta di avere perso qualcosa: le certezze o l’amore o la casa, il suo paese natale o la speranza o la voglia di vivere, o tutto questo tutto insieme. Fa gesti circolari con le mani. Guarda in alto le corde che pendono. Adesso gli torna in mente un tentativo di impiccarsi alle travi del soffitto. Ma lo ha fatto di fretta, dice, senza i giusti tempi, è scivolato e il tentativo è fallito. Ci vogliono i giusti tempi, e un manuale, anche per ammazzarsi.

Dalle pagine che l’Ubriaco sta rileggendo sono scivolati fuori alcuni foglietti, o quello che ne resta, con altri mille vortici scarabocchiati e scritte sbavate di inchiostro bagnato. Il Vecchio li sbircia: sono tentativi incompleti di lasciare messaggi da parte di un aspirante suicida. Niente di comprensibile, almeno agli occhi del Vecchio. Li scorre rapidamente durante un momento di distrazione dell’uomo. Può leggere con chiarezza solo una quantità di pronomi alla prima persona. Il resto è roba palesemente ottusa.

Quello continua a gesticolare e a parlare, da solo, ascoltato, o forse no, dagli altri, in un misto di spaesamento e strana familiarità. Non gli è molto chiaro se le storie che ricorda siano effettivamente memoria o allucinazione.

Per quell’uomo ubriaco, a quanto pare, non esiste il futuro. Il passato prossimo e il presente immaginario sono gli unici due lati del suo perimetro incompleto. Beve, dice, per ribadire le sue inutili gesta, per ripetere ad altri i particolari dei suoi fallimenti, ma sono storie che non interessano a nessuno. È stato un ottimo navigatore e pescatore, racconta, bravissimo a fare cose che adesso non fa più.

Legge ad alta voce alcune pagine del diario agli altri avventori. Racconta un viaggio a cui è Sopravvissuto, e mentre lo racconta guarda in basso, verso la pozza di liquido. Si specchia nella pozza e racconta la sua storia. Poi guarda di fronte a sé, si specchia nello Specchio rotto che frammenta la sua apparenza in cento immagini asimmetriche. Narra ancora la sua storia, o quella di mille altri marinai, poi sembra in qualche modo riconoscersi in quelle immagini, ma forse finge.

Non tutti pensano che quella storia sia vera. Alcuni non la ascoltano, alcuni la ascoltano ma non la credono vera, altri la credono vera ma non credono che ne sia davvero lui il protagonista.

L’Ubriaco è turbato.

L’UBRIACO – Non mi credete? E allora? In verità non mi importa un fico di quello che un gruppo di sconosciuti pensa di me. E comunque, voi a me non piacete mica tanto. Anche se… mi sembra di avervi già visto da qualche parte. O no?

Se ne sta lì, guardando gli altri, come a chiedersi perché nessuno gli crede.

L’UBRIACO – Forse questa è tutta una messa in scena e voi mi state prendendo in giro. O mi state studiando. Eh? Ammettetelo.

LA DONNA – “Voi”? Ma in che senso “Noi”? “Noi” chi?

Nessuno di loro è in grado di rispondere.

IL VECCHIO – Questa è la tua versione dei fatti?

L’UOMO VESTITO DA FUNZIONARIO – È questa la tua versione dei fatti?

L’UBRIACO – Oh! Non so chi voi siate, forse vi conosco o forse no. In ogni caso, per tutte le sbornie, io sono responsabile solamente di quello che dico, e non di quello che capite voialtri!

L’uomo con la pipa, seduto vicino alla scala, ha una mano di legno. Si versa da bere con l’altra mano e prende la parola.

L’UOMO CON LA PIPA – È tutto vero, gente. Io lo so, io sono il Testimone che il suo non è un delirio, o una menzogna.

LA DONNA – Come lo sai?

L’UOMO VESTITO DA FUNZIONARIO – Come lo sai?

Quattro domande e nessuna risposta.

L’UBRIACO – Da quanto tempo siamo qui? Mi sembra di essere in questa Taverna da almeno due giorni. E voi quando siete arrivati? Ieri?

L’UOMO VESTITO DA FUNZIONARIO – Siamo qui da pochi minuti, – batte il dito indice sul tavolo.

IL TESTIMONE – Forse hai sprecato troppi pensieri sulla morte e hai perso la percezione del tempo. Il Pendolo ha suonato due volte da quando siamo qui.

L’UBRIACO – Forse è il Pendolo che è rotto, – i suoi occhi sono rossi, iniettati di sangue.

Un soffio gelido penetra a singhiozzi ripetuti dal vetro spaccato, e il suo sibilo quasi prende voce, come una lingua primordiale. Intanto il vino è finito e la bottiglia è totalmente vuota.

L’Ubriaco è improvvisamente di nuovo in preda al delirio. Strappa dal diario di bordo alcune pagine di cui sembra non sopportare la vista e le appoggia sul tavolo. Il Vecchio, che gli siede accanto, prende i fogli, li arrotola, li infila all’interno della bottiglia e la mette da parte. Fa spazio sul tavolo, asciuga il vino versato col suo fazzoletto ed agguanta le carte che gli ha servito l’uomo alto alla sua destra.

Quell’uomo ha mescolato il mazzo e sta servendo cinque carte vicino a ciascuno. Gli altri non possono vederlo nel riflesso dello Specchio, perché in quel punto manca un pezzo. Si era seduto in modo da non potersi riflettere, a circa un metro dalla parete, ma adesso, improvvisamente, lo schienale della sua sedia è totalmente appoggiato al muro. Lui non si è spostato. È la parete che si è avvicinata di circa un metro, ma nessuno se ne è accorto.

Mentre il Pendolo suona un numero di rintocchi dispari, cominciano a giocare a carte, in silenzio.

V

IL CIECO

Dal Sud, dall’Est, dall’Ovest, dal Nord,
convergono i cammini che mi hanno portato
nel mio segreto centro. Quei cammini furono echi e passi,
donne, uomini, agonie, resurrezioni, giorni e notti, (…)
e tante cose. Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra, alla mia chiave, al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

(J.L. Borges)

Hanno appena finito la prima mano, che ha vinto l’uomo alto che ha servito le carte, quando la porta della Taverna si apre, con fatica. Un improvviso raggio di luce di una lanterna, che penetra dall’uscio della stanza oscura, li acceca tutti per un attimo. La porta si chiude pesantemente. Quando le loro pupille tornano ad abituarsi al buio della Taverna scorgono, sulla soglia, la sagoma di un mendicante col bastone.

Il mendicante si avvicina al grande tavolo e trova una sedia libera, su cui si siede con sicurezza. Gli altri lo osservano. Si è posizionato sotto lo scaffale con le bottiglie e ha le palpebre chiuse. Ecco perché non si lamenta della pochissima luce: è Cieco.

Così, adesso, non ci sono più sedie vuote.

UNA VOCE – Benvenuto! – dice qualcuno. Forse è una voce che rimbomba al di là della porta chiusa. – Cosa ti porta in questa Taverna?

IL CIECO – Buonasera a voi. Non sono qua per chiedere soldi. Ma poi, vi chiedo: in questa locanda i soldi li usate? – parla rivolto allo Specchio.

Il Bambino trotterella a caso, intorno. Non sta fermo, si agita, non riesce a concentrarsi. Salta impaziente da una cosa all’altra distraendosi di continuo. Sembra più grande di prima.

IL BAMBINO – Dammi quello! – dice al Testimone con la pipa, indicando il modellino del veliero.

IL TESTIMONE – Aspetta, bimbo, – non toglie gli occhi dal mendicante.

Il Bambino non riesce ad attendere neanche pochi secondi. Anche una breve attesa è un tortura per lui.

IL CIECO – Sono arrivato in questo Porto stamani, con una nave. C’è qualcosa da bere?

Alla sua sinistra, un uomo dalla pelle scura, vestito di stracci, si rivolge a lui con uno strano accento.

L’UOMO VESTITO DI STRACCI – Come hai trovato la Taverna? Io ne ho dovute passare di tutti i colori per arrivare fino a qui.

IL CIECO – Io i colori non li posso vedere. Sono capitato per caso.

IL VECCHIO – Anche voi avete incontrato quella strana figura qua fuori che voleva impedirvi in tutti i modi di entrare in questa Taverna?

Gli altri continuano a giocare a carte. Il Cieco appoggia il suo bastone allo scaffale e mette le mani sul tavolo di legno.

IL CIECO – Sapete, questa città è piena di strane figure. Persone invisibili, persone che non vedono, cani neri e malati che ringhiano, – mentre parla sputa. – Anche io ho dovuto attraversare il Labirinto. E non crediate che con gli occhi sia più facile. Molti procedono a tentoni nel buio, ammanettati alla morte, senza vedere a un palmo dal naso, credendo di vedere. Alcuni vedono ma non vorrebbero vedere. Altri vedono altro.

Parla in un modo strano, quasi da indovino. Lo fissano tutti mentre il suoi occhi chiusi continuano ad essere direzionati verso lo Specchio. Le sue mani sono ben appoggiate sul tavolo. Mani sudate con profondi tagli. Mani scure, irregolari, con calli, segni e nove dita.

L’UBRIACO – Perché sei qua? Cosa sei venuto a fare?

IL CIECO – Perché? Lo ignoro. Devo dire, non ho chiesto la strada a nessuno. Ho seguito passi ed echi. Ho seguito un Suono intenso che mi ha guidato, e sono finito qua. Questo era semplicemente un luogo possibile.

Di scatto apre le palpebre, che fino ad adesso erano chiuse, come se fossero cucite.

IL BAMBINO – Non hai gli occhi!

Il Cieco tiene gli occhi aperti. Nel bianco della sua iride malata c’è quel vuoto che non dice niente, come quello che si fissa nel volto di un morto. Non un vuoto pieno, ma il nulla.

Il Bambino non è per niente spaventato.

IL BAMBINO – Come ti chiami, signore?

IL CIECO – Non ho più nome.

L’UBRIACO – E ne hai mai avuto uno?

LA DONNA – Qual è il vero motivo del tuo viaggio, mendicante?

IL CIECO – Come vi ho già detto, non chiedo elemosina, non voglio niente, state tranquilli. E non c’è un motivo, né una meta, ho iniziato a mendicare proprio per liberarmi di ogni cosa. Non ho visto, né previsto niente, e non sono previsto, lo so bene. Ma non c’è nessun approdo a cui io voglia arrivare.

L’uomo vestito da funzionario gli porge un bicchiere, il Cieco non lo nota.

L’UOMO CHE Dà LE CARTE – Sei cieco dalla nascita?

IL CIECO – No. Quando ero bambino i miei occhi erano sani. Diciamo così. Ma poi, un’estate, caddi da un albero dove mi nascondevo per tirare pietre agli altri bambini. Battei la testa. Fu un brutto trauma. Mio padre si accorse che qualcosa non andava: non leggevo più l’orologio. Ma quando mi visitavano fingevo che tutto fosse a posto. Non fui mai curato, perché riuscivo sempre a ingannare i dottori. Ad esempio, quando giocavo con gli altri bambini alla caccia al tesoro, non trovavo niente perché ero lento e vedevo le cose fuori asse e poco a fuoco. Poi però, per invidia, rubavo agli altri. Non vedevo bene, ma ero molto furbo. Mi scoprirono una volta sola, quando trafugai un anello d’oro, ma io fui talmente bravo a negare l’evidenza, per anni, che alla fine mi credettero.

L’UOMO CHE Dà LE CARTE – Negare per sempre. Col tempo diventa la verità.

IL CIECO – Credo che questa sia la prima volta che confesso di aver rubato. Comunque li odiavo, gli altri bambini. Molto presto mi esclusero da tutti i giochi. Ricordo che non mi feci vedere per mesi. Poi mi presentai di nuovo assieme ad un bambino più grande, conosciuto e temuto perché picchiava tutti. E, ricordo, avevo con me anche una bellissima fionda intagliata in un ramo di ulivo. D’improvviso mi volevano tutti bene e tutti volevano usare la mia fionda. Ma guarda un po’. E io non la prestavo a nessuno, la tenevo sempre per me, assaporando la vendetta.

Osservandolo, sembra impossibile che quel mite e anziano mendicante sia stato il bambino che racconta. Sempre che dica la verità.

Si fruga in tasca e estrae una piccola pietra focaia, lavorata a forma di sfera. La appoggia sul tavolo. La donna, vestita da Sciamana, la prende in mano.

L’UBRIACO – Hai rubato anche questa?

IL CIECO – La porto con me da quando ero ragazzo.

L’UOMO VESTITO DI STRACCI – È un oggetto che può fare comodo a un viandante.

Il Testimone annuisce accendendosi la pipa.

LA SCIAMANA – E può far scomparire le cose.

IL TESTIMONE – Vai avanti.

IL CIECO – La vista peggiorava gradualmente e da ragazzo non potevo più far finta di niente. Così, se prima negavo la mia malattia, adesso la esageravo, usandola come alibi per le mie truffe. Come potevo essere io quello che fregava la gente se a malapena vedevo il mio naso? Facevo leva sulla compassione degli altri per ottenere ciò che volevo.

IL BAMBINO – Tu sei un ladro, signore?

Il Cieco muove la mano nel vuoto e accarezza la testa del bimbo, che si ritrae e scappa.

L’UBRIACO – Tanto qua non c’è un bel niente da rubare, ah-ah.

IL CIECO – Quando iniziai a studiare, la malattia peggiorò sempre di più. Vedevo male anche con gli occhiali, ma non mi rassegnavo. Poi un dottore mi visitò, e invece di una cura mi dette una speranza. Talvolta, il male regredisce se per un po’ si lascia libero lo sguardo verso uno spazio aperto. Così lasciai gli studi e mi imbarcai.

Il Cieco si avvicina al tavolo, tastando con cautela ciò che gli sta intorno, poi trova facilmente il bicchiere e la bottiglia, si versa da bere e si schiarisce la voce.

IL CIECO – Mi imbarcai su un cargo. Data la mia condizione sociale potevo entrare come ufficiale, ma scelsi di essere un marinaio semplice. Rimasi su quella nave per tre anni, seguivo la disciplina, eseguivo gli ordini. Ma la vista continuava a peggiorare.

LA SCIAMANA – Nonostante le tue speranze.

IL CIECO – Però, mentre perdevo la vista, sviluppavo altre capacità. Stavo scoprendo una vista diversa: imparai ad adattarmi alle condizioni difficili, a conoscere le leggi del mare e la meteorologia, – beve un piccolo sorso di vino, poi continua. – I marinai stavano sempre assieme. Io divenni indispensabile per la ciurma, perché sapevo fare cose che non erano riportate in alcun manuale di navigazione. Sapevo riparare strumenti rotti, trovando per loro nuovi usi. Inventavo giochi di parole che davano un senso altro alle cose, sempre uguali, di tutti i giorni. E, soprattutto, sapevo cantare. Scandivo la navigazione con canti di mare. Ma non di quelli che si ascoltano nelle bettole nei momenti di riposo: cantavo certe canzoni ritmiche che accompagnano le manovre e aiutano i marinai a tenere il tempo durante gli alaggi. Ero diventato quello che faceva partire tutti i cori dell’equipaggio, ne inventavo di nuovi e mescolavo le vecchie leggende alle grida dei marinai, la musica degli scaricatori e degli schiavi alle canzoni dei battellieri. Forse conoscete alcuni di questi canti. Alleggeriscono il lavoro, danno il ritmo e risvegliano gli animi. Spronano allo sforzo sovrumano.

L’uomo grigio vestito da funzionario inizia a canticchiare fra sé e sé qualcosa di indecifrabile, battendo il tempo, in quarti, col dito sul tavolo.

IL VECCHIO – Alcuni di quei canti narrano leggende terribili, – il Vecchio, dall’aspetto, sembra proprio un marinaio di lunga data. – Per noi marinai, le canzoni sono uno strumento importante quanto le attrezzature. “Una canzone vale dieci uomini a virare l’argano”.

IL CIECO – Per questo motivo ero molto popolare fra i compagni e avevo il rispetto degli ufficiali. Ma ero sgradito al Capitano. Le mie canzoni spesso si prendevano gioco dei superiori, sapete, e agli occhi di quel Capitano, che non tollerava l’ilarità, quei testi intaccavano la disciplina degli uomini. Decise di sostituirmi.

L’uomo vestito da funzionario continua a battere il ritmo sul tavolo.

IL CIECO – Ho capito, col tempo, che per un Comandante è preferibile una ciurma di marinai intercambiabili l’uno con l’altro, facilmente sostituibili nel caso di sciagura in mare. L’importante non è cosa sai fare, l’importante è quanto sei bravo ad obbedire.

IL VECCHIO – In un certo senso.

L’UBRIACO – Ti hanno cacciato! Cosa hai fatto allora?

IL CIECO – Mi sentivo a terra. E a terra mi sentivo un fallito. Dovetti ricominciare tutto da capo, perché avevo imparato a vivere da Cieco di mare, ma la vita di un Cieco di terra è completamente diversa. Prima di imbarcarmi ci vedevo ancora un po’, ma adesso sono totalmente al buio. E quando vivi al buio, le tue esperienze passate non ti aiutano più a stare al mondo. Devi trovare un modo per adattarti alla nuova condizione.

IL TESTIMONE – E se un modo non c’è?

IL CIECO – E se non c’è, te lo devi creare.

LA SCIAMANA – E così hai iniziato a mendicare. Per lasciare andare. Per privarti di tutto quello che hai accumulato. Anche del rancore.

Il Cieco si alza per togliersi la giacca. L’uomo seduto alla sua destra si offre di aiutarlo ma il Cieco rifiuta gentilmente, mettendo la mano scura sulla sua spalla. Nella sua mano sinistra guizzano tagli profondi che raccontano anche loro una storia. Ma soprattutto manca un dito, il quarto, e qualcuno lo nota.

QUALCUNO – Che è successo alla tua mano?

Il Cieco si tocca la mano mutilata con l’altra.

IL CIECO – È un ricordino che mi hanno lasciato quattro balordi, coi loro coltelli. I primi tempi che vivevo sulla terraferma non riuscivo a sentirmi al sicuro. Ero vulnerabile, fragile, e tutto quello che sapevo fare in mare non mi serviva più a niente. Era come se fossi morto e tornato in vita nei panni di un altro. Non sapevo fare nulla e la cecità era un grande ostacolo. Mentre in mare non corsi mai rischi, a terra trovavo, invece, pericoli in ogni luogo. Un giorno, in un vicolo, fui assalito da quei quattro balordi pescatori tagliagole. Io non avevo niente che potevano rubarmi, e loro volevano prendermi l’anello d’oro, quello che avevo rubato io, da bambino. Ma poiché ero cresciuto con quell’anello al dito, era molto stretto e non potevo toglierlo più. Così, per fregarmelo, pensarono bene di amputarmi il dito.

L’UOMO VESTITO DI STRACCI – Cielo. E tu?

IL CIECO – E io, niente. Niente. Tutto questo l’ho scordato, non mi importa più. Non provo risentimento. La ferita va lasciata aperta. Da morti, ci ricuciranno.

L’UBRIACO – E come hai fatto a scordare il dolore?

IL CIECO – Non è nella memoria. Il dolore ce l’ho addosso, – mostra la sparizione del quarto dito – e questo dito mutilato ne è la prova. La ferita esiste da prima di me, ed esisterà dopo, e bisogna accettarla.

Stavolta nessuno dubita della sua versione. È incisa nella carne.

Il Testimone si tocca la mano di legno.

Il Cieco si siede di nuovo, poggiando le mani sul tavolo. Sotto la manica destra della palandrana spunta, sull’avambraccio, un grande tatuaggio talmente antico che l’inchiostro è diventato verde. C’è un simbolo con una scritta sotto, ormai deforme.

L’uomo vestito di stracci sembra molto stupito dalla visione del tatuaggio.

L’UOMO VESTITO DI STRACCI – Che cosa c’è scritto sul tuo braccio?

IL CIECO – Amico mio, io non ho la più pallida idea di cosa sia disegnato sul mio braccio. Non ho mai visto questo tatuaggio. Trentaquattro anni fa, in un porto lontano, feci amicizia con un tatuatore che marcava la pelle dei marinai, e un giorno gli chiesi se poteva incidere anche me. Mi chiese con quale figura, ma io risposi che non mi importava, che mi importava solo del dolore. Così il tatuatore decise l’immagine, ma non me la rivelò. Da allora non ho mai saputo cosa sia inciso su questo braccio. Questo tatuaggio non lo vedo, ma lo porto. Porto sul corpo il dolore che è stato.

L’altro dice di nuovo qualcosa. Stavolta le sue parole non sono comprese da nessuno, ad eccezione del Cieco, che sembra aver capito e risponde.

IL CIECO – Allora puoi dirmi di cosa si tratta?

L’uomo vestito di stracci, indicando il tatuaggio, comincia a parlare con il Cieco in una lingua sconosciuta che il mendicante sembra conoscere perfettamente, ma che per gli altri è un dialogo misterioso. Alla fine di un breve scambio di battute torna a parlare nella lingua conosciuta da tutti.

L’UOMO VESTITO DI STRACCI – Questo tatuaggio mi ricorda la terra da cui vengo. Fino a poco fa non sapevo molto della mia storia passata, ma quel simbolo ha come aperto uno squarcio in questa specie di amnesia. Ascoltate, vi voglio raccontare quello che ricordo. Forse, in questo modo, potrebbe tornarmi la memoria.

Il Bambino porta al tavolo una nuova bottiglia di vino e rimane in piedi, lì di fianco. Non corre più, li osserva. Guarda le persone che parlano e inizia a imitarne i gesti. Li guarda, memorizza e ripete le mosse di ognuno di loro.

L’uomo vestito da funzionario continua a battere regolarmente l’indice della mano destra sul palmo della mano sinistra, mentre ascolta il Cieco parlare. Gli altri non se ne accorgono, oppure semplicemente la cosa non li disturba. Il Cieco, raccontando il tempo che è stato, allarga i gomiti, guadagnando spazio, misurando in questo modo la grandezza del tavolo. Gli altri ascoltano tenendosi tutti stretti al tavolino, appoggiati come per sorreggersi. Tremano, perché l’umidità nella stanza è aumentata e il legno sta cominciando a scricchiolare.

Un rumore di schianto arriva da dietro lo Specchio. Un Suono sconosciuto, quasi un fischio.

Qualcuno nota che le immagini riflesse dallo Specchio adesso sono più grandi di prima. Le facce sono più visibili. La prospettiva è differente. Nessuno si è mosso, eppure sembra che lo Specchio si sia avvicinato a loro. L’uomo anziano, vestito da Marinaio, versa da bere nei bicchieri opachi, per tutti i presenti.

2 thoughts on “Anteprime: MARNERO – LA MALORA”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.