Non ho la più pallida idea di come funzioni il rap in generale, ogni tanto leggo qualche pezzo su rockit –la morale di fondo degli articoli sul rap su Rockit è sostanzialmente che non ho alcuna possibilità di capire di cosa si sta parlando e dovrei farmi i cazzi miei (una cosa che naturalmente solletica molto il mio io 17enne e desideroso di essere incluso, e sappiamo tutti che i 38 sono i nuovi 17). I Kill The Vultures non sono, strettamente parlando, un gruppo rap. Per prima cosa i loro concerti sono frequentati perlopiù da gente del giro alt-avant-post*, cioè da un pubblico che chiede alla musica una forte ideologia pop, riferimenti colti a caso, terzomondismo e sbraco da alcolizzati, cose che riescono a confluire perfettamente solo nelle visioni dei più beduini tra gli artisti che ascoltiamo (tipo Grimes o gli Sleep). E poi i loro dischi non suonano necessariamente come dovrebbe suonare un disco rap che esce nel 2016, sia questo un pregio o meno. I Kill The Vultures, almeno nei loro episodi migliori, sono più il frutto della confluenza tra il side project Anticon-oriented di due punk ventiseienni e quelle superband anarcojazz norvegesi con Mats Gustafsson in formazione, vale a dire un gruppo che pone il suo onore nel far coesistere linee di contrabbasso crudissime con beat pesi e ultra-dozzinali.
Carnelian è un disco bellissimo. Loro sono tornati alla loro incarnazione migliore (il gruppo della domenica dei soli Anatomy e Crescent Moon) e sono usciti alla chetichella con un album di canzoni pre-hop animate da questo naturalismo mistico-arabeggiante a cazzo** che se non fossero dei normalissimi alt-freak bianchi verrebbe da eleggerli come l’ultimo baluardo di un modo istintivo e cafone di fare il rap che ormai non lo trovi più neanche nei musei. O magari sono solo dei cazzari da bar con tre idee scarse in testa e una vita così scarica di prospettive da doversi ridurre a cacar fuori un Careless Flame appena appena rivisto con dieci anni di ritardo. E forse il fatto di trovare Carnelian così esaltante rende anche me un alt-freak bianco col trip dell’alt-avant-post ad ogni costo. Chi se ne frega, peraltro.
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*ne ho visti tipo cinque ed è vero che all’inizio della carriera tutto sommato attraevano qualche b-boy, ma l’aria è girata abbastanza in fretta. Non so dire se questa cosa sia uguale in tutto il mondo, ma considerata la dimensione del loro pubblico non so quanto voglio addentrarmi nella questione.
**qui mi piace sempre ricordare tra le altre cose che Crescent Moon a un certo punto aveva messo insieme un sideproject alt-folk chiamato Roma di Luna, e intervistato da Stefano Isidoro Bianchi aveva rivelato che Roma non è un riferimento all’omonima cittadina bensì il modo in cui crede che gli italiani chiamino i rom di sesso femminile.