La scorsa settimana andava abbastanza di moda un articolo scritto da Dan Ozzi su Noisey che annunciava urbi et orbi (per la settantesima o ottantesima volta) la morte del formato-recensione. Come ogni altro articolo musicale che annuncia la morte di qualcosa, si basava su un paio di premesse supponenti e stronze e si sviluppava tirando quanto possibile sui concetti, una cosa che Dan Ozzi fa abbastanza spesso (è una specie di Lester Bangs contemporaneo)
NOTA
Lester Bangs è uno spauracchio di lungo corso dello scrivere di musica. Secondo un’interpretazione molto classica e molto in voga, Lester Bangs è stato il miglior critico musicale di ogni tempo. Incidentalmente era un critico musicale molto stronzo e quindi molto onesto, o molto onesto e quindi molto stronzo. Intendiamoci, non è che Lester Bangs non fosse bravo, ma bisogna anche accettare l’idea che ci sia stata altra gente valida che non somigliava a Lester Bangs ed è stata migliore di lui per molti aspetti. Lester Bangs aveva due grandissimi pregi: riuscì a vedere e denunciare certe implicazioni negative del modo in cui il rock si stava sviluppando negli anni settanta, prima che il danno fosse fatto (il che ha reso la sua opera una specie di premessa critica alla venuta del punk, un medioevo ideologico che a dispetto dell’evidenza empirica non è ancora passato di moda) e seppe dare più di quasi tutti gli altri una legittimità all’ascoltatore come figura influente nella dialettica musicale. Che da una parte è ovvio e dall’altra parte è tra le più importanti conquiste della critica rock. Detto questo, quando qualcuno dice che tizio “si crede il nuovo Lester Bangs”, di solito intende “si crede bravo a scrivere di musica” o “crede che le cose che scrive sui gruppi abbiano la benché minima importanza per la cultura contemporanea” o “pensa che insultare i musicisti sia grande giornalismo”. Quando dico che Dan Ozzi è una specie di Lester Bangs contemporaneo intendo un’altra cosa, cioè che utilizza lo stesso tipo di scrittura –volutamente ombelicale e approssimativa, quasi costantemente sul punto di perdere il filo e nonostante ciò efficace- a formati di lettura contemporanei. Scusate il pippone, ma siete al secondo capoverso e ho paura che il pezzo di stavolta sarà lungo.
Dicevo, la morte della recensione. Non è la prima volta e non è nemmeno la decima che si parla seriamente della morte del concetto di “recensione” nello scrivere di musica. La contemporaneità ci insegna che se non inseriamo qualche concetto nuovo, o qualche parola nuova per concetti esistenti, la comunicazione non si sta evolvendo. E non c’è niente di peggio di una comunicazione che non si evolve, è come continuare a frequentare un locale che andava di moda cinque anni fa. Così, insomma, oggi funziona il longform, qualunque cosa sia, e la recensione è diventata l’agnello sacrificale di un vecchio mondo fatto di riviste che non s’adattano ad esistere oggi.
INCISO CHE NON C’ENTRA (1)
L’unica data dello Zufest che sono riuscito a vedere va senz’altro annoverata tra i migliori concerti a cui ho assistito in vita mia. Era una serata al TPO di Bologna, quando ancora era nella sede vecchia di cui non ricordo manco la via. Iniziava Mats Gustafsson in solitaria, su un piccolo palco rialzato da terra una trentina di centimetri che non avevo mai visto al TPO e quindi ho pensato se lo fossero portato dietro gli Zu. mi sembra di ricordare che ci si potesse sedere tutto intorno. Gustafsson scotennava il sassofono, era rosso in viso e incazzatissimo, suonava queste scale velocissime da quindici secondi e tra un fraseggio e l’altro urlava, giuro su dio ho pensato che sarebbe morto lì sopra. Dopo una ventina di minuti di delirio così a caso scese e salirono gli Zu, che erano ancora in formazione con Battaglia e dicevano ancora un sacco di cazzate in romano tra un pezzo e l’altro. Forse erano i tempi di Radiale, che per me è ancora il loro miglior disco. Il concerto andò avanti per un po’ con quei pezzi aggro sincopati, poi Gustafsson risalì sul palco assieme agli altri tre e il concerto si spostò verso territori un po’ più freejazz ma sempre a volumi altissimi e con un incazzo quasi ingestibile. Poi smisero e vuotarono il palco, e una decina di metri più a sinistra c’erano già i Lightning Bolt, seduti per terra sotto il muro di amplificatori. Fu l’unico concerto dei Lightning Bolt che vidi, e diversi amici miei lo ricordano ancora tra le cose più leggendarie a cui hanno assistito. Io stavo tra i venti e i trenta e tutto sommato dalla vita volevo solo cose del genere. Credo sia ragionevole pensare che se vedessi lo stesso concerto a 38 anni lo giudicherei un’arzigogolatissima sega mentale per punk e metallari bolognesi con la puzza sotto al naso, e nella maggior parte dei casi chi scrive di musica non è mai disposto ad accettare il sopraggiungere dell’età come una categoria critica. A pensarci bene, però, anche se quella sera avessi avuto i cazzi miei (un problema al lavoro, un litigio con una ragazza, un etilometro impietoso, quel che vuoi) probabilmente non me lo sarei goduto come ho fatto.
______
I quattro principali fatti a sostegno della teoria secondo cui la recensione stia morendo sono elencati sotto. Per ognuno mi sono permesso di dire perché non funziona.
Le persone che leggono le recensioni non hanno più bisogno di qualcuno che dica loro come suona un disco, possono sentirselo su spotify e decidere per i cazzi loro.
La gente legge ancora di musica, nonostante possa ascoltarla. Forse qualcuno non legge più di musica, ma qualcun altro legge e legge tutto quello che c’è. A volte mi capita di scrivere di certi dischi, no, e magari cerco di usare una chiave che per me è poco utilizzata, e cerco di fare un buon lavoro e tirar fuori un articolo che mi soddisfi e dia un punto di vista abbastanza originale, magari scritto con un briciolo di criterio, questa cosa qua. Poi arriva un tizio qua sotto o su Facebook e mi fa notare che “sì, ho letto tutto il pippone ma non ho neanche capito cosa ne pensi”. Ma perché qualcuno dovrebbe leggere la roba che scrivo per sapere cosa ne penso dei dischi? Chi cazzo sono io? Non possono ascoltare i dischi per conto loro? Evidentemente no, o forse hanno bisogno di parteggiare con qualcuno o magari dire a qualcun altro che non capisce un cazzo di musica ed è un represso del cazzo.
All’apice del formato recensione, le recensioni dello stesso disco su un mercato come quello italiano erano al massimo 4-5, scritte da PROFESSIONISTI ULTRACOMPETENTI (ndr uso lo stampatello per sottolineare che qualcuno pensa davvero questa cosa). Oggi il giorno dopo l’uscita del disco dei Tre Allegri Ragazzi Morti ti trovi settantacinque recensioni online, la maggior parte delle quali scritte in italiano scemo da qualche incapace che ha scoperto gli Husker Du dieci giorni prima dai torrent.
Se non avete la mente da appassionato di riviste musicali, questo potrebbe essere un punto difficile da comprendere. Nel senso che l’estinzione di solito avviene per altri motivi: ad esempio i panda si stanno estinguendo perché sono pochi e non scopano tra di loro. Giusto? Invece secondo questa interpretazione le recensioni si stanno estinguendo perché sono troppe e ogni giorno che passa sono sempre di più. Questo dal punto di vista numerico. Se volete usare Darwin anche per il discorso sulla qualità, viene fuori che le recensioni stanno estinguendosi perché la popolazione di recensioni sta sempre più riempiendosi di esemplari spurii e difettosi. Il quale, come concetto, è giusto un po’ nazista. Ma insomma, meglio che altro.
Nessuno legge più le recensioni, a parte i gruppi e chi le ha scritte.
Anche questo punto mi piace molto. L’assunto di base è che sono quelli che parlano di morte delle recensioni a non leggerne più. E secondo me nemmeno loro. Voi avete smesso di leggere recensioni? Io no. È verissimo che non leggo tutte le recensioni nelle riviste che compro, ed è verissimo che non leggo tutte le recensioni che trovo di un disco che mi interessa. Di un disco che mi interessa ne leggo tre o quattro, cioè più o meno quelle che leggevo nel ’97, forse anche di più. E magari le leggo rapidamente e mi riservo di pensare che il tizio che l’ha scritta non capisca un cazzo di musica, ma le leggo comunque. Qualcuno probabilmente non legge le recensioni, ma dubito che stia leggendo questo post e –per giunta- sia arrivato fino a qui.
Positive o negative che siano, non hanno alcuna influenza reale sul successo o sull’insuccesso di un disco.
Questo è vero, o comunque è molto più vero oggi di quanto non sia mai stato. Ma francamente, ha importanza? O meglio: come “giornalisti musicali”, vi sentireste a vostro agio sapendo che un disco venderebbe mille copie in meno dopo la vostra stroncatura? Io, personalmente, no. E francamente, se una mia recensione esaltata fosse determinante per vendere migliaia di dischi, mi sentirei un po’ un coglione a non beccarmi una parte degli utili. Così, insomma, la sostanziale non-influenza delle recensioni nell’anno 2016 ci metterebbe nella condizione ideale per scrivere quel che cazzo ci pare –e magari migliorare la nostra scrittura, e se solo ci prendessimo il disturbo di farlo, le recensioni potrebbero ri-diventare divertenti come le ricordiamo dagli anni novanta.
INCISO CHE NON C’ENTRA (2)
Dicevo, a un certo punto tocca crescere e raggiungere la propria età anagrafica. Così da qualche parte dopo i trenta ho messo su casa, e non ho più così tanta voglia di uscirne per vedermi un concerto di musica pesa o spaccarmi di vino al ristorante il venerdì sera, figurarsi prendere l’auto e andare a Bologna a vedere un concerto in quei cazzo di locali che iniziano a quegli orari bolognesi assurdi.
NOTA
Io ai concerti sono uno di quelli che arrivano per primi. Mi piacerebbe dire che arrivo per primo perché ho perso il giro, ma non è così: arrivo per primo perché ho paura di perdermi anche solo una nota del gruppo spalla, e a volte mi trovo ad arrivare trafelato in biglietteria con il tizio alla cassa che mi guarda con quell’aria sconvolta tipo “a che ora ti sei svegliato per arrivare qui così puntuale?”. Una volta, sempre in quel periodo lì, sono andato al TPO a vedere i Pan Sonic. Era un sabato sera: io e il mio amico abbiam preso l’auto con calma e siamo arrivati verso le dieci e mezza. Il posto era completamente deserto: non deserto nel senso di cinquanta persone sparse, deserto nel senso che se quel cazzo di dj avesse smesso di suonare si sarebbero sentiti gli ululati dei coyote. Così rimaniamo lì a cazzeggiare io e il mio amico, seduti sul palco di questo locale grande quanto un campo da basket, e dopo un po’ inizia ad arrivare qualche sparuto povero cristo. Intorno alle undici e mezzo siamo lì a parlare con qualche altro scoppiato, forse gente del giro Bologna che conosco o semplici sconosciuti, e tutt’a un tratto s’avvicina uno degli organizzatori e mi dice “sentite, è il caso che vi smuovete da qui davanti e andate a bere, perché finché non abbiam tirato su i soldi del cachet non li facciamo iniziare”. Così su due piedi non so dirvi perché non ci siamo messi in macchina in quel momento esatto, forse per l’ammortamento della benza. Oh, i Pan Sonic fecero un concertone -e alla fine si presentò davvero un centinaio di anime nel locale- ma tornammo a casa verso le 5.
INCISO CHE NON C’ENTRA (2) (REPRISE)
E niente, insomma, con l’invecchiamento tendo a valutare le mie frequentazioni musicali e ridurle al minimo indispensabile; a volte mi carico per eventi a quattro mesi di distanza e il giorno stesso ci ho messo così tanta fotta che preferisco stare a casa a riguardare gli episodi di Newsroom per non sentirmi deluso. Gli stessi membri degli Zu e dei Lightning Bolt e dei Mats Gustafsson sono cresiuti: nei primissimi duemila sarebbe stato idiota pensare che un giorno non lontano Brian Chippendale avrebbe suonato con Bjork. Gustafsson si barcamena tra una carriera da jazzista di pregio e la passione per la musica scranna, mette mano regolarmente a dischi incredibili (il mio preferito è quello dei The Thing: assieme a Neneh Cherry). Gli Zu sono sopravvissuti all’addio di Jacopo Battaglia, hanno fatto di necessità virtù e si sono messi a suonare col batterista dei Locust. Pupillo si è trasferito in Amazzonia, immagino oggi si incontrino per fare concerti e registrare cose. L’ultima volta che li ho visti suonare avevano mollato quasi del tutto le sincopi e sembravano più interessati a quel discorso di vibrazione che prende un po’ da certe concezioni classico-contemporanee, un po’ da certo canto armonico, un po’ dallo sludge metal più scuoiato. È un discorso coraggioso per un gruppo del quale il pubblico aveva apprezzato soprattutto la perizia tecnica, e dal vivo acquista perfino un suo senso preciso. Non ho amato il loro ultimo disco, ma forse è semplicemente passata la stagione tra me e loro. Il punto è che quasi tutti, in qualche modo, vanno avanti. A guardarci da lontano dovremmo essere contenti di poter celebrare quel poco di tempo che ci resta da passare assieme, e magari ringraziare educatamente per i dischi buoni che ci arrivano. Uno dei più buoni è uscito recentissimamente, in sordina, verso il 20 di gennaio. L’etichetta è Trost (una label eccezionale se vi piace la roba che sta al confine tra avant rock e freejazz), il disco è a nome di Pupillo/Chippendale/Gustafsson, è composto da tre session per un totale di 90 minuti di musica e si chiama Melt. Fosse successo nel 2007, probabilmente mi sarei fatto raccontare questa cosa con mesi di anticipo, passati perlopiù a dormire male nell’attesa di un capolavoro assoluto che poi avrei ascoltato una mezza dozzina di volte in tutto farneticando di poterli vedere live.
__________
PIPPONE
Non è ragionevole pensare che le recensioni siano *il futuro* dello scrivere di musica, ok, ma è molto più irragionevole pensare che in quel futuro nessuno ne scriverà più. È ragionevole pensare che chi scrive continuerà ad orientarsi, ancora per qualche anno, verso una situazione in cui ognuno sceglie di investire moltissima energia su un singolo articolo e riservare a tutto il resto una trattazione sbrigativa, imprecisa e non-troppo-documentata. Paradossalmente, il longform funziona meglio quando non rivela niente, quando tutti sanno di cosa si sta parlando, quando sotto le unghie di chi scrive ci sono il Bowie o il Cobain di turno. Ventimila battute su Brian Chippendale (magari impaginate da un professionista e con un illustratore cazzuto) sono troppe per tutti quelli che non sono già fan, è un progetto fallimentare, non porta conoscenza, non porta accessi e non porta soldi, quindi non c’è tempo e non c’è budget e non c’è un punto vero e proprio. Figurarsi gli onesti mestieranti e i gruppi nuovi e quelli senza ufficio stampa e i dischi che non fanno notizia. Niente da fare. Per questa roba, triste a dirsi, ci sono le recensioni. E ci sono i siti pieni di gente che se crede d’esse Lester Bengse e ha ancora voglia di sbobinarsi l’intervista a qualche sconosciuto, magari brutta, e ci sono quelli che aprono ancora il preascolto su soundcloud con quel briciolo d’eccitazione di chi sta per scoprire qualcosa di nuovo. Non è detto che serva a qualcosa, ma è comunque una cosa onesta, molto più onesta di un ideale processo mentale per cui gli artisti vengono valutati sulla base di quanto possano servire alla causa della lettura e della scrittura. A un certo punto anche il longform avrà rotto il cazzo (tra due anni al massimo), e il funerale sarà celebrato dagli stessi che oggi stanno ufficiando quello della recensione (o comunque dai loro degni eredi).
Suppongo che questo genere di letteratura abbia un proprio senso oggi, intendo socialmente. Qualche anno fa era d’obbligo essere post, oggi sembra iniziare ad avere senso il bisogno di essere pre, di esistere oggi come condizione necessaria di una profezia autoavverantesi (spesso a cazzo). Molto del suono à la page che si ascolta oggi, ad esempio, è prerivoluzionario: ha trovato un modo di esistere in certi termini sia nell’underground che in assetti corporate, senza porsi troppo il problema se esistere in certi termini corrisponda o meno ad esistere alle proprie condizioni –o almeno a me un sacco della roba che leggo e ascolto fa questo effetto un po’ da salto della quaglia. Forse c’è un motivo anche per questa cosa: l’accettazione dell’effimero come categoria espressiva di riferimento, innanzitutto. L’idea che con buona pace dello screenshot sia quasi impossibile ritracciare una buona conversazione avuta due settimane fa via social –e che in qualche modo questo debba avere un corrispondente letterario, che il leggere stia diventando più volatile e lo scrivere debba adattarcisi. Francamente qualche anno fa ero eccitato all’idea di poter esistere all’interno di un flusso (quello diciamo del blogging orizzontale, dell’epoca dei feed ad ogni costo) dove niente era scritto nella pietra e i buoni spunti arrivavano da ogni direzione; oggi cerco disperatamente di barcamenarmi nel tentativo di spendere meno tempo possibile a tracciare le fonti che abbia senso consultare. E poi comunque c’è un problema di decostruzione del tessuto sociale, che potrebbe essere il motivo di quel fastidio che provo quando sono nei posti a vedere cose, come se una delle premesse di una società ostentatamente interconnessa sia la sua modularizzazione più radicale -l’esistenza di ognuno all’interno di un singolo blocco le cui interazioni con gli altri blocchi sono permesse solo sulla base di certe connessioni prestabilite. Quando ho iniziato a scrivere su internet avevo ventidue anni e la domanda che mi ponevo più spesso era se, fuori dalle statistiche, ci fosse qualcuno a leggere dall’altra parte dello schermo. L’avvento dell’era dei network non ha necessariamente fornito una risposta a questa domanda, ha solo ampliato un po’ le dimensioni dello schermo. Forse qualcuno di quelli che conosco scrive ancora per un “pubblico”, ma la maggior parte di noi scrive e pubblica ancora ad uso e consumo degli amici, di un sistema chiuso che ci permetta di spararle senza doverci interfaccia troppo con l’esterno. In questo senso il blogging, come la recensione, non è morto, anzi si è potenziato, ha invaso la quotidianità del pubblicare e ne detta il ritmo (e poi quasi tutto quel che viene pubblicato oggigiorno è pubblicato a mezzo CMS, no? E perchè anche in riferimento alle cose che leggiamo la parola post ha perso il suo appeal? Non è meraviglioso che ora si parli di scrivere “pezzi”, come sottolinea anche Enzo Baruffaldi nell’articolo a commento di quello di Ozzi?). Il consumo di un certo tipo di cultura continua ad essere precluso a chiunque non si ponga il problema di cosa fare per diventare il membro identificabile di una cerchia (come i tizi che ti bloccano se sei fan di una certa pagina FB, e tu manco ti ricordi perchè).
La sensazione è che non durerà in eterno, che ci sia un modo nuovo dietro l’angolo e che sia, per la prima volta da ormai decenni, un modo di comunicare pensato per resistere alle sollecitazioni del lungo periodo. Ovviamente ci vorranno anni prima di iniziare a vedere davvero di cosa si tratta. Oggi siamo ancora a cianciare di problemi tutto sommato provvisori facendoci bastare quel che ci viene lanciato sull’uscio di casa, dischi gezz o articoli di approfondimento che siano. Credo sia un problema che riguarda un po’ tutti, e in questo –come dicevo- la recensione è un termine contrattuale molto democratico tra ascoltatori e musicisti, un momento di condivisione di intenti che magari può provare a scavalcare le premesse linguistiche e sociali delle cose di cui non frega un cazzo a nessuno. Ecco, questo un po’ mi rattrista perché mi sento all’ultimo giro di giostra e devo accettare che quando il mondo avrà trovato la quadratura del cerchio tra presente e pre-essente (e inizierà a porsi problemi ancora più stupidi) io mi sarò cagato il cazzo e passerò il tempo a leggere Clancy o a fare quelle cose che fanno i quarantenni. Nel frattempo, di scrivere la recensione del disco di Pupillo/Chippendale/Gustafsson non ho voglia. Non è che sia colpa del disco, cioè, il disco è davvero bello, in certi punti fa cagar sotto dalla paura e a me di cagarmi sotto dalla paura per un disco non è che succeda più tanto spesso. Però i giorni scorsi ho preso qualche appunto di cose che avrei voluto scrivere, i testi e come sono organizzate le suite e certe influenze e il concetto di imbastardimento e il senso che ha oggi questo genere di musica rispetto a quanto ne aveva dieci o quindici anni fa –mi ero lanciato persino in questo pippone allucinato su quanto detesto la black music, una cosa complicata che dopo un po’ ho perso la voglia di articolare. Perché alla fine le cose poi non quagliano, o non quagliano più come un tempo, e non ho più voglia di buttarci tutto quel tempo per scrivere sempre la stessa cosa e una volta che l’hai finita è solo zavorra e merda di cui lì fuori non ha bisogno nessuno.
___________
Bibliografia
IS THE ALBUM REVIEW DEAD? (noisey)
molto bene
E’ talmente vecchio st’argomento che mi sono abbioccato leggendo solo PIPPONE – la parola. Scrive Carlo Bordone sul numero 214 di Blow Up: “A questo punto dovrebbe arrivare la parte mortifera, quella del ‘critico musicale’ che fa il suo sporco – e oramai pateticamente superfluo – lavoro. Scomporre, dissezionare, analizzare al microscopio, apporre la targhetta con la definizione in latinorum e mettere sotto vetro ogni singola canzone del disco. Che rottura di palle. Ve la risparmio”. (Poche altre parole, ugualmente argomentate). Non ho letto tutto il pezzo (e non credo lo farò) ma penso che Bordone in 5 righe abbia detto tutto quello che te e Noisey avete esposto in 42.652 caratteri. E poi dici che uno fatica a smettere di comprare il cartaceo – anche se è morto pure quello.
ok
Bravo. Inevitabilmente ti sei un po’ perso ma il senso di tutta la faccenda forse è proprio questo: perdersi; anzi lasciarsi perdere.
(Ma davvero c’è vita nelle terre tra ifreejazz e avantrock? Al di là di chi voglia perdersi totalmente e assolutamente, voglio dire nel senso peggiore del termine? Boh…)
d’accordo su tutta la linea, però leggerlo mi ha fatto sentire malino come quando leggo un articolo di critica letteraria in cui ci si chiede se la critica letteraria è viva o morta, mentre la letteratura le passa accanto non vista.
credo che poche cose al mondo possano allontanare di più un lettore da un formato di critica qualsiasi di un critico che si scorda che il suo mestiere è parlare dell’arte degli altri e non della propria.
“Così, insomma, la sostanziale non-influenza delle recensioni nell’anno 2016 ci metterebbe nella condizione ideale per scrivere quel che cazzo ci pare –e magari migliorare la nostra scrittura, e se solo ci prendessimo il disturbo di farlo, le recensioni potrebbero ri-diventare divertenti come le ricordiamo dagli anni novanta.”
SI. è chiaro che tu non ne hai bisogno perché scrivi, come gusto per il periodo (in senso grammaticale), meglio di qualsiasi altro in Italia.
le recensioni classiche sono diventate il compitino, un tirocinio verso scritture altre intorno alla musica perché, in qualsiasi logica in cui si offre un bene al pubblico, se la domanda cala e l’offerta deve diversificarsi. il punto è che le grandi firme ormai scrivono libri e approfondimenti e articoli come cazzo vogliono loro, quindi cosa c’è di strano che la recensione abbia perso valore se proprio quelli che le scrivevano le hanno abiurate (difendendole poi pubblicamente tirando in mezzo mille altri fattori).
è questo quello che tanti grandi e da me stimatissimi dinosauri della critica musicale non capiscono, e non ne faccio loro una colpa perché penso che anch’io a 50 anni non accetterò che il mondo abbia azzerato tutto quello che credevo bello e giusto per creare qualcosa di nuovo e necessariamente minaccioso ai miei occhi, perché espressione di un futuro che mi esclude dalle sue promesse di rinnovamento (su FB ci sono decine di esempi di nonpiùgiovani inaciditi nel mondo della musica che non accettano il loro pubblico declino da intellettuali rispetto al culto di cui godevano quando si limitavano a fare i musicisti, SU QUESTO SI CHE DOVRESTI SCRIVERE UN ARTICOLO…pensa a U.P., tanto per fare un esempio palpabile per tutti meno che per lui)
quindi, se il predominio del format della recensione nella critica musicale è finito (si, grazie a dio è finito) è anche un bene: senza una cornice rigida, è più facile capire chi è davvero bravo a scrivere di musica e chi no, chi ha una idea autonoma sulla musica di cui scrive e chi si limita al copia e incolla ideologico.
Lester Bangs è morto, le recensioni sono morte, ma tu sei vivo più che mai, se cominci a crederti morente è probabile che le persone intorno a te penseranno che morirai (“profezia che si autoavvera” in psicologia, Watzlawick)