Per i tre che magari non lo sanno: la notte tra venerdì e sabato Blu ha iniziato a far sparire tutti i muri che ha fatto a Bologna nel corso di una ventina d’anni, aiutato da gente del Crash e dell’XM. Ha pubblicato una frase laconica sul suo blog, che linkava un post sul sito di Wu Ming che spiega, a grandi linee, le motivazioni della cancellazione.
Non è la prima volta che Blu cancella una sua opera. C’è il caso di Berlino, qualche mese fa, le foto di due muri ingrigiti che giravano per i social con messaggi di indignazione allegati. Dopo qualche giorno si seppe che era stato lui, in risposta a speculazioni edilizie nel quartiere intorno a quei muri: le polemiche sono rientrate, non era affar nostro, si è passati oltre. L’intervento di questo fine settimana, invece, ci ha punto nel vivo.
“L’esigenza è provare a utilizzare il dibattito di oggi per fare un passo in avanti e non due indietro. Bologna è, e può continuare ad essere, sede di un dibattito artistico di valore mondiale. Penso che l’arte urbana, in quanto tale, debba essere pubblica, popolare, di tutti. Allo stesso tempo penso che si debba rispettare la libertà degli artisti di accettare o meno una vetrina più grande di quella da loro scelta inizialmente. Da sindaco di Bologna mi impegnerò per garantire il rispetto e la tutela degl spazi pubblici da mettere a disposizione degli street artist, perché l’arte urbana aiuta le città a crescere. Quindi spero che Blu, in futuro, possa di nuovo dipingere per Bologna avendo la garanzia che le sue opere non saranno mai usate con fini commerciali. Allo stesso tempo vorrei che gli street artist siano liberi di decidere cosa fare delle loro opere senza che questo porti a perdite collettive come quelle di oggi.”
Le parole sopra sono di Virginio Merola, sindaco di Bologna dal 2011. Il quale si rende conto, ovviamente, di aver perso un pezzo importantissimo di una sottocultura su cui la città sta almeno in minima parte investendo. Riguardo allo sgombero di Atlantide, ordinato nemmeno sei mesi fa, Merola dichiarava che “non c’è nessuno come me che si è esposto per i diritti dei gay. Ma se questo deve diventare che ogni lobby del mondo gay deve avere una corsia privilegiata al di là delle regole, non ci sto”. Ora, per esempio io non sono mai andato a Bologna a guardare le opere di street art, ma sono stato a vedere qualche concerto ad Atlantide. E in ogni caso parliamo di due controculture che dialogano l’una con l’altra, si sviluppano negli stessi luoghi, agiscono spesso assieme e quasi sempre contro la cultura di regime, che si muove attivamente per scarnificarle isolarle e cancellarle dallo spazio fisico. E occupano spazi. Con che faccia uno nella posizione di Merola si può permettere di manganellare una delle due mentre rimpiange l’altra? Non potrebbe limitarsi a fare da megafono ad un’amministrazione che tutti sanno repressiva e poco disposta al dialogo? L’influenza della mostra curata da Genus Bononiae è così determinante?
La stessa rimozione dei graffiti di Blu per la mostra che inaugura il 18 marzo sembra avere poco a che vedere con il concetto di curatela/conservazione, e molto di più con il concetto di sequestro. Lo scontro delle ultime settimane ha fornito parecchio materiale agghiacciante. Prendete questa intervista a Christian Omodeo, uno dei curatori della mostra di Palazzo Pepoli: “Rispetto al diritto d’autore, non me ne frega niente. Se espongo un’opera, perché considero che serva a portare avanti un discorso o a generare un dibattito lo faccio, esattamente come un dj che sceglie un sample per creare un pezzo totalmente nuovo. Mi aspetto di essere giudicato per quello che ho creato e non per come ho trattato i sample selezionati. Se poi uno o più artisti sentiranno il bisogno di fare ricorso a un quadro giuridico sclerotizzato come il diritto d’autore, valuterò il da farsi, ma la mia posizione non cambierà: un artista che rifiuta che la sua opera possa essere usata, trasformata, distrutta/conservata o deturpata è e sarà sempre ai miei occhi come una multinazionale che tutela i propri prodotti.”
Questo testo non vuol essere, in senso stretto, la dichiarazione di un curatore fascista cosciente di essere spalleggiato dai poteri forti nei suoi espropri, ma un serio e motivato discorso sull’arte e sull’avvenuto tramonto del concetto di diritto d’autore. L’espressione “diritto d’autore” oggi identifica non tanto i diritti di un autore in merito alla sua opera, quanto piuttosto una somma di denaro che viene versata all’autore perchè non eserciti il proprio diritto morale sull’opera stessa. Il fatto che abbiano preso piede alcune forme alternative di gestione del diritto d’autore (ad esempio le licenze creative commons, o il famigerato copyleft del collettivo Wu Ming) ha portato le teste pensanti di certe istituzioni a concludere che gli autori abbiano rinunciato ai diritti morali sulla propria opera. Negli ultimi anni va abbastanza di moda ripensare l’arte di strada in senso istituzionale, una cosa che qualcuno chiama public painting. Ci sono bandi pubblici per riqualificare aree, dipingere muri e tutto il resto. Un artista può decidere se sfruttare o non sfruttare l’occasione, ci sono buone ragioni in entrambi i casi, sta ad ognuno. Quando Blu cancella le sue opere, qualcuno si chiede se l’intervento non sia destinato ad aumentare le sue quotazioni nel mercato della street art. Quando Blu viene criticato o osteggiato dalle istituzioni, altri si curano di sbattere in faccia al pubblico la sua inclusione tra i cinque-dieci-cinquanta street artist più importanti al mondo. Quando Blu prende una decisione drastica e brutale, sono le istituzioni stesse a sbattergli in faccia il suo prestigio (vedere la dichiarazione di un consigliere PD: “Il suo punto di vista è comprensibile, anche se da tempo ha abbandonato la filosofia della street art se si va a guardare il cachet chiesto alla Tate Modern per una sua opera”). Sono tre orientamenti politici opposti della stessa cecità: al confronto, meglio la chiusura totale di un Daverio che sarà pure antipatico ma almeno si mette in gioco in prima persona, scorreggia sulla street art italiana e invita i collezionisti a continuare a comprare acquerelli.
Leonardo scrive un post a commento della vicenda, che si conclude con questa frase: “a questo punto si passa alla fase più delicata, quella in cui l’antipotere si trasforma in potere e si arroga non solo il diritto di creare, ma anche quello di distruggere, secondo leggi che almeno io non ho capito bene.” Quello di Leonardo è un discorso politico e si riallaccia abbastanza da vicino a quello di Wu Ming, pur affrontandolo dal verso opposto. Nel senso, è una questione di gestione dei rapporti di potere, Max Weber all’amatriciana, in cui comunque un discorso come questo può essere rimesso ad una dialettica abbastanza classica e ben conosciuta da tutte le parti in gioco. L’arte di strada non ha bisogno di sobbarcarsi questa cappa ideologica, esiste in uno spazio più mutevole. Quali sono i diritti di Blu sulle proprie opere? Quasi nessuno. Avete notato che quando le opere vengono cancellate dai muri quelli che gridano al fascismo e alla censura non sono mai gli artisti? Certo che l’avete notato. La street art è effimera per sua natura, vive il cambiamento -è il suo bello, dice il saggio. Qualche mese fa arrivò Invader a Ravenna e fece qualche intervento: un paio di giorni dopo qualcuno aveva già trafugato due mosaici che aveva installato in zona San Vitale. L’artista non ha fatto girare un comunicato stampa in cui si dichiara deluso del fatto che l’amministrazione non abbia posto una telecamera di fronte a due edifici. Probabilmente qualcuno le ha grattate e se l’è rivendute in nero a qualche collezionista, e ci ha fatto pure qualche migliaio di euro. Credo succeda con una certa regolarità. Sempre a Ravenna c’è uno street artist piuttosto bravo, si chiama Dissenso Cognitivo, che fa interventi in giro per i muri e i cartelli arrugginiti per le affissioni. Sul cavalcavia vicino al mausoleo di Teodorico c’è un suo disegno devastato da qualche cazzaro che ci ha tirato sopra dei ghirigori con una bomboletta. A quanto ne so non si è mai lamentato di questa cosa: non è nemmeno una questione di etichetta, è proprio logica. Se dipingi su un muro, non hai diritti su quell’opera. Il diritto di distruggere esercitato da Blu, in questo senso, è lo stesso diritto che avrebbe potuto esercitare qualunque pensionato infastidito dagli stessi disegni o qualunque Massi che ama Betty e lo vuole scrivere proprio in corrispondenza del cranio dello storpio al guinzaglio -e tra i vari paradossi della vicenda di questi giorni, è difficile pensarne uno più emblematico del fatto che alcuni ragazzi del Crash siano stati denunciati per aver aiutato Blu a cancellare i suoi graffiti.
È una cosa abbastanza vicina all’evoluzione del concetto di sciopero. Ho più di 35 anni e sono stato -credo- tra gli ultimi ad aver conosciuto l’idea di sciopero classico: i lavoratori incrociano le braccia e creano disservizi, la gente si rende conto di cosa si tratta, prende una posizione. Oggi non è più così: la creazione di un disservizio è sempre e solo vista come tale e tende ad allontanare tra loro le classi lavoratrici. Si bestemmia contro benzinai, impiegati comunali, postini, sbirri, insegnanti e via andare: non si pensa quasi mai che uno loro siano noi. Quanto è stupido ridurre la reazione al gesto di Blu ad un dibattito sulla bellezza, come se la sua roba non fosse violentissima ed ultra-conflittuale? A che serve riportare le dichiarazioni di un Daniele Ara per cui è di vitale importanza puntualizzare che “ora al posto di quell’opera arriveranno le solite scritte idiote”? Che obbligo dovrebbe avere Blu, uno che agisce perlopiù in contrasto con i luoghi che si sono trovati loro malgrado ad ospitarlo, nei confronti della popolazione del luogo? Dove cazzo era tutta questa gente bisognosa di BELLEZZA quando erano in corso i processi agli street artisti? (OK, fortunatamente a Bologna parliamo del passato remoto).
Quello che molti non sembrano afferrare, nel dibattito di cui sto leggendo, è che Blu non ha agito in difesa di un principio intellettuale di massima: il problema non è “la street art che esce dalle strade e entra nei musei”. È un falso problema, uno specchietto nelle allodole, la scintilla di un dibattito che sta spolpando le ossa di una questione tutto sommato poco rilevante, e rischia di mettere sullo sfondo un sistema che è fatto di persone, comportamenti e minacce. Invece Blu ha il coraggio di prendersela specificamente con una mostra, un ente organizzatore, qualcuno che tira i fili, un’amministrazione che fa spallucce. Le armi che usa sono le uniche a sua disposizione: la sua opera e il credito di cui gode. Dal comunicato di Wu Ming: “Non importa se le opere staccate a Bologna sono due o cinquanta; se i muri che le ospitavano erano nascosti dentro fabbriche in demolizione oppure in bella vista nella periferia Nord. Non importa nemmeno indagare il grottesco paradosso rappresentato dall’arte di strada dentro un museo. La mostra Street Art. Banksy & Co. è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi.”
La parola che più mi sta sulle palle in questi giorni è “provocazione”. È una parola che associo ai video softporno di qualche popstar di ultima generazione che in mancanza di meglio spinge sul proibito da operetta. La reazione di Blu, invece, è violentissima. È violenta nei confronti delle istituzioni, è violenta nei confronti della città di Bologna, è violenta nei confronti dei numerosi amanti della sua roba, è violenta nei confronti di chi stava portando avanti il dibattito sulla mostra. Direi che è anche, involontariamente, violenta nei confronti delle reazioni meno violente delle sue: l’immagine di Ericailcane che aveva fatto il giro dei social una settimana fa, oggi di riflesso sembra quasi il capriccio di un bambino viziato. La violenza più grossa, tuttavia, Blu la fa a se stesso: il costo emotivo e personale della cancellazione di così tanto lavoro, e di un pezzo di vita personale così grande, in una città come Bologna, è semplicemente incalcolabile. Di questo la gente non sta parlando a sufficienza: del dolore e del sacrificio che comportano un gesto del genere e del fatto che siano quel dolore e quel sacrificio, così in bella vista, a rendere il gesto così poderoso. Altro che performance.
La quotidianità di internet si fonda su un ragionevole ammontare di episodi del genere, che accadono ad intervalli di tempo sempre più ridotti e generano assuefazione. Quando siamo online la nostra vita quotidiana si fonda sul bisogno di commentare a caldo. È un tragedy-freakshow basato su meccanismi simili a quelli che regolano le tossicodipendenze, ci si accontenta di tutto quello che passa sotto gli occhi e genera una ragionevole confluenza di pareri a cui potersi attaccare. A lungo andare diventa un anestetico: ci armiamo per il dibattito e non siamo più in grado di distinguere una cosa di portata gigantesca da una menata attira-click. Non capita tutti i giorni di assistere ad un gesto violento cazzuto e importante come quello di Blu, un gesto che ha un suo senso nell’ispirare le persone. Che andasse a finire nel dimenticatoio dei dibattiti che ricominciano ogni volta dall’inizio ed in cui ognuno è sempre di destra o di sinistra o post-ideologico e nessuno parla mai di niente di specifico e nessuno parla mai davvero con nessun altro. Allora ha un suo senso preciso che di tutta l’opera di Blu a Bologna, dopo questo weekend di metà marzo, rimanga oggi un fazzolettino di muro, fuori dall’XM, che raffigura il Cassero di Porta Santo Stefano, dove aveva sede Atlantide prima dello sgombero. Purtroppo non è sufficiente a riscrivere la storia, ma la racconta come non è riuscito a fare quasi nessun altro.
Per cui, se dipendesse da me, invece di discutere delle ragioni e delle conseguenze, preferirei che la cosa fatta da Blu ci ispirasse in qualche modo, e che riuscissimo a tenerla a mente anche domani, o quando succederà la prossima cosa che finirà per convogliare il dibattito. Che questa cosa ci permettesse di vedere nel nostro piccolo in quale altro modo possiamo gestire la nostra creatività, in che modo possiamo vivere la città in cui viviamo, o magari porci il problema di chi si sta prendendo cosa. Mica sempre: una volta ogni tanto basterebbe. E magari fissare una data sul calendario: 12 marzo 2016. A Bologna un tizio si mise in mezzo e sacrificò tutta la sua opera per denunciare un abuso.
Uno dei pochissimi articoli in questi giorni che si è sforzato di articolare e approfondire la questione e che ha centrato il punto (la lotta politica e il significato del gesto), evitando, come dite, i “falsi problemi” e le assurde semplificazioni che hanno finito per coprire il senso di quanto accaduto. E pensare che sono giunto qui proprio grazie a uno di quegli articoli beceri, quello di Wired, che evidentemente a qualcosa è servito.