Come un concerto di Vasco ma un po’ meno (Calcutta @ Bronson, Ravenna, 16 aprile 2016)

Foto: Chiara Donati

Forse qualche volta ho urlato anche io prima che il gruppo arrivasse, magari al primo concerto dei Litfiba –non lo ricordo ma ecco, potrei averlo fatto. L’urlo quando si spengono le luci e poi l’urlo sull’urlo quando iniziano a salire sul palco il batterista e il bassista e sgolarsi quando il cantante arriva al centro del palco. Credo che in una certa fase sia quasi obbligatorio, è una cosa legata al seguire la corrente e non voler essere diversi dagli altri –essere uguali a tutti gli altri, da adolescenti, è una cosa molto importante. Probabilmente la prima volta che ho volato ho anche fatto l’applauso. Davvero, non ricordo.

Poi sono cresciuto e non è detto che sia andato tutto per il meglio, però diciamo che quando mi trovo in mezzo a ventimila persone che urlano per l’arrivo di un tizio su un palco –che sia Grillo o Vasco Rossi- a me viene in mente la crocefissione e i farisei che girano tra il pubblico a vendere i gelati dentro al Giostyle e sobillare la folla perché salvi Barabba al posto di Gesù. Verso i 23 ho deciso che questa cosa dello stadio è l’esatto contrario di quello che mi piace: se ci pensate il rito orgiastico collettivo, con la gente presa benissimo che urla a squarciagola, è una diretta conseguenza del concerto di merda, del parcheggio a sei chilometri di distanza e della fila per andare a pisciare nei cessi chimici e tutte quelle cose. È la stessa cosa che succede alle elezioni: vieni trattato di merda per cinque anni e a un certo punto ti infilano dentro una cabina elettorale con una matita e ti dicono “ok, esprimiti”, e questo è il motivo per cui la roba alla Berlusconi/Grillo/Vasco/Jova/Salvini funziona così tanto nella politica contemporanea. E naturalmente, se dovessero decidere quelli che seguo su twitter, limiterebbero il diritto di voto a quelli che erano a vedere i National in Piazza Castello –per dire quanto cazzo ne capisce di politica la gente che seguo su twitter.

Anche ad ascoltare musica diciamo indie mi sono trovato in situazioni paradossali da stadio. Una volta ho visto i Sonic Youth a Bologna: la gente si spella le mani quando parte Teen Age Riot, mentre quando Moore e Ranaldo improvvisavano con le chitarre ai limiti dell’inascoltabile se ne stavano fermi in vistoso imbarazzo e senza manco applaudire cortesemente alla fine dei due minuti di feedback che seguivano. La più clamorosa fu la volta che vidi gli Explosions In The Sky, sempre a Bologna. L’Estragon era pieno sì e no per metà, ma la gente aveva una tale fotta che si sentivano I CORI tipo Seven Nation Army allo stadio, presente?, ecco, la gente faceva I CORI sulle melodie dei pezzi dal disco figo, e partiva un boato ogni volta che la canzone cambiava ritmo. Con i gruppi stronzi che piacciono a me, quelli che riempiono i locali di gente con la puzza sotto al naso, non succede mai. Tipo Shellac o The Ex (ogni tanto si vedono video dei The Ex con i fiati e qualche fricchettone che sale sul palco a ballare ma penso non sia la stessa cosa e comunque a me non è mai successo) o Melvins, ecco, i Melvins hanno così tanti dischi che ognuno ha dieci pezzi del cuore diversi da quelli degli altri e quando fanno Boris la gente la riconosce a malapena. Però credo che autolimitarsi quando si va a vedere un concerto sia importante a prescindere: ci sono sere in cui anche io voglio SPACCARMI AMMERDA e sentirmi come alle medie, ma cerco di non farla pagare alla ragazza di fianco a me. Io per dire ho il difetto di voler parlare con i miei amici e scambiare opinioni in tempo reale, urlo qualcosa nell’orecchio a Diego durante il singolone e magari lui preferirebbe stare a sentire la musica. È il mio punto debole.

Insomma, Calcutta è uno di quelli che la gente urla. Verso agosto si può dire che Calcutta non esistesse nemmeno, se non come un concetto lontanissimo appartenente ad una certa romanità, e quindi potenzialmente pericolosissimo

-la romanità, diciamocelo, è una delle principali piaghe dell’indiepop, nel senso che di tanto in tanto salta fuori un artista che viene sostenuto per questioni di campanilismo tipo che so, BSBE o Angelini o I Cani o i Thegiornalisti (i Thegiornalisti non li ho mai ascoltati per via di quel diss che misero in piedi, mi dicono che nel frattempo sono diventati il più importante gruppo italiano in attività); non voglio dire che siano brutti gruppi, ma c’è quella componente di romanità per cui tutti danno per scontato che io possa comprendere la loro poetica e non è così-

secondo cui arrivava qualcuno e continuava a raccontarti estasiato quanto fossero eccezionali i suoi concerti, come se fosse il Daniel Johnston italiano con lo scrauso al posto della malattia mentale (“suona a merda”, “si sdraia per terra”, “son tutti in fotta”). Oggi ti capita di andare a vederlo il sabato in una cittadina di provincia e trovi mille persone che fanno il coro per chiamarlo sul palco. Per cui mi piacerebbe essere uno di quelli che lo conoscevano anche da prima e riferirmi a lui come al mio amico Edoardo, ma non è così. Ho ascoltato un paio di robe sul tubo quando me l’ha raccontato un mio amico, qualche mese prima che uscisse Mainstream, e ho pensato che fosse fichissimo, ma questo è più o meno quanto. L’overdose di Calcutta me la sono fatta quando se la son fatta tutti gli altri.

Il concerto è una roba da stadio, però in un club. Il sold-out viene annunciato il giorno prima; la gente è nervosa prima dell’uscita poi si spengono le luci e si sente l’urlo e arrivano prima i musicisti e poi lui, e le urla sono progressive. Per due o tre pezzi è un concerto eccezionale: lui è timido e inizia (se non ricordo male) con Milano, e la gente è già in botta persa. Non si capisce quasi nulla di quel che dice tra un pezzo e l’altro. E poi attacca canzoni tipo Frosinone e tutti cantano in coro, urlano ogni parola del testo, ma sul serio, mica così per approssimazione. E in quel momento ti ci ritrovi, ti prendi bene, ti senti uno di loro. Quando dice che mangia la pizza ed è il solo sveglio in tutta la città ti ci ritrovi, in qualche modo. Calcutta e il suo gruppo sono scrausi di quello scrauso ostentato e ben suonato, con l’impianto perfetto e i volumi perfetti e nessuna sbavatura rispetto a un canovaccio tenuto asciutto a viva forza. Inizio a sentirmi come se fossi in mezzo a qualcosa di importante, come quando mi segnavo il testo di November Rain in prima liceo e cercavo di tradurlo armato soltanto del poco di inglese che conoscevo. È bello sapere che la musica può ancora avere un effetto sulle persone.

La magia si interrompe un pochetto quando Calcutta suona le cose più intime o meno conosciute. Mi guardo intorno e inizio ad andare leggermente in panico: è metà aprile e il Bronson si sta seriamente scaldando e le persone iniziano a fare un po’ di viavai da una parte all’altra (i sold-out del Bronson sono sold-out onesti: ho visto concerti in posti dove ti toccava stare in piedi nel posto che avevi conquistato a fatica a inizio concerto, con l’onda della gente che rischiava di farti cadere; qui si ha lo spazio per respirare e andare al bagno o uscire a fumare una sigaretta, e comunque al concerto di Calcutta non c’è il pogo). E poi butto l’occhio a guardare le facce di quelli che cantano. E come sempre sono gente che ha più o meno la mia età, ha le pance e le stempiature e il trucco raffinato e i tatuaggi artsy fartsy e i vestiti costosi, i maschi portano barboni uguali al mio e tutta quella roba lì. Fino a quel momento non me ne sono accorto, e questa è una magia della musica o un incanto di classe Cenerentola, poi suona la campana e tutti quanti tornano trentacinquenni. E i trentacinquenni sono un popolo un po’ duro da affrontare ai concerti: bevono meno e non comprano la maglietta, e una volta finito il concerto hanno già un piede nella porta con la sigaretta in mano che la mattina dopo c’è da alzarsi a tagliar l’erba in giardino. E ad un tratto, mentre l’incantesimo dell’eterna gioventù si spezza, Calcutta diventa più che altro un buon compromesso per chi vuol farsi un concerto di Vasco senza doversi ciucciare tutti i turn-off del concerto di Vasco (il traffico, le code all’ingresso, i cessi chimici, le piadine finte, la birra di merda, il sole a picco, i vicini con la maglietta di Vasco, i sei chilometri dallo stadio alla macchina, tornare a casa a un orario schifoso, la puzza di cane bagnato che riesci a sentire solo quando hai varcato la soglia di casa e sei troppo stanco per fare una doccia). Ho visto Le Luci della Centrale Elettrica quando era popolare come Calcutta è popolare ora, e non era per niente così. Era tutto più oscuro e depresso e forse era una cosa più diciamo indiecult ipertrofica. Questa potrebbe essere indifferentemente una delle poche scuse per uscire o l’anticamera del nuovo Baglioni, e spero genuinamente per Edoardo che sia la seconda. O forse la gente preferisce disegnare svastiche in centro a Bologna piuttosto che bere dalle pozzanghere. In un caso o nell’altro Calcutta sembra già in un vicolo cieco, nel senso di aggregatore culturale casuale il cui successo lo costringe a limitare al minimo gli sbrocchi e concentrarsi sul disco uscito. Per cui alla fine di un concerto che già di suo è corto, torna sul palco e suona due pezzi che aveva già suonato (Frosinone e Cosa mi manchi a fare), riarrangiati per sola chitarra acustica. Ed è un po’ il momento più bello del concerto, quello in cui si mette più a nudo e fa venir fuori il suo concetto per come l’avevo iniziato a conoscere. Ma è comunque sempre un compromesso, e la gente ha già un piede sull’uscio che domattina c’è da rasare il prato e da postare su FB le ragioni per non andare a votare.

(la foto è di Chiara Donati)

2 thoughts on “Come un concerto di Vasco ma un po’ meno (Calcutta @ Bronson, Ravenna, 16 aprile 2016)”

  1. io sono andato in una situazione simile, che ti devo dire, come quando è venuto qua Dente, insomma, è sul romanesco di quelli simpatici, ha tre pezzi che hanno scatenato il singalong uguale uguale, però il problema era tutta quell’aria da romanticismo Erasmus che m’ha fatto pensare che alla fine non fosse roba per me, forse alla fine è meglio Cervino, ecco, per un’incollatura, ma meglio

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