Appunti casuali su Stranger Things

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Stranger Things è una serie prodotta da Netflix: otto puntate di quaranta minuti, la storia della sparizione di un bambino in un paese della provincia americana nel bel mezzo degli anni ottanta. Esteticamente Stranger Things è la riproposizione pedissequa di un’estetica mai dimenticata, che di tanto in tanto torna a far sentir parlare di sé (Super 8 un esempio recente, ma anche certe cose nella prima stagione di Masters of Horror ad esempio). Una cosa della Amblin con main theme alla Carpenter, ambientazioni di provincia, bambini che salvano il mondo, madri coraggio e adulti che non vedono l’evidenza. Sei e mezzo/sette: una serie molto divertente, di quelle che tengono col fiato sospeso e si chiudono in maniera un po’ stronza, così se va bene mettiamo in cantiere la stagione 2. Stranger Things però è diventata un blockbuster: milioni di persone l’hanno accolta come il prodotto televisivo/cinematografico dell’anno, la cosa più bella ed esaltante dell’estate in corso. Qualcuno ha persino parlato del più riuscito connubio di sempre tra Spielberg e Stephen King, cioè -in sostanza- la soluzione ad un irrisolto vecchio di trent’anni circa, che fino a un paio di settimane fa nessuno sapeva di avere.

 

È un meccanismo che ormai si ripropone sempre più di frequente, sempre identico a se stesso. Le serie Netflix vengono messe in streaming con tutte le puntate assieme, così –potenzialmente- chiunque può essersi guardato la stagione intera di Stranger Things otto ore dopo la messa online. Moltissimi lo fanno, un po’ in modalità FOMO un po’ perché effettivamente la serie è bella tesa e scorre da dio. Il giorno successivo così arrivano i primi commenti esaltati, ed entro due giorni è un plebiscito. Poi la pluralità dei giudizi su internet fa sì che le cose si sgonfino un pochetto, e di solito si arriva a una situazione di normalità dopo tre o quattro settimane. Un lasso di tempo in cui chiunque appartenga al pubblico potenziale di Stranger Things si è adoperato per vederla: non è tanto la foga di spararsela, ma dopo tre o quattro giorni sui social network è impossibile schivare gli spoiler (io per dire ne ho beccato uno di Stephen King, superfan della serie dei fratelli Duffer). Succede tutto a caldo: la guardi insieme agli altri e ti fai trascinare dall’entusiasmo. Una cosa abbastanza simile succede anche al cinema, soprattutto per quanto riguarda i franchise -esempio clamoroso all’ultimo seguito di Guerre Stellari, per il quale nell’immediato un giudizio tiepidino poteva bastare a farti bollare come hater (ora penso siano tutti d’accordo sul fatto che sia un film medio).

Quello che mi fa strano è che la serie sia apprezzata soprattutto da gente come me, un pubblico con la mia età anagrafica e interessato alle cose che piacciono a me. Io personalmente mi sento rappresentato da quell’estetica solo in parte: ha fatto parte di me, era quello che guardavamo quando eravamo bambini (il mio primo film al cinema in assoluto è stato ET), ma poi mi ci sono distanziato. L’ha fatto il mondo intero, in una qualche misura: è uscita roba finchè aveva senso che uscisse, e poi ciao.

Una volta lessi il Castoro su Spielberg, e non so se avete presente la collana ma all’inizio raccolgono dichiarazioni significative dei registi. Nel suo caso ce n’era una in cui –lo lessi credo a metà anni novanta- parlava esaltato del futuro e della possibilità di raggiungere tutte le sale con un unico segnale televisivo, o qualcosa del genere, invece che essere costretti a usare la distribuzione classica. Il discorso di Spielberg era senz’altro generato da un genuino entusiasmo filo-tecnologico, ma per me erano anni di paranoia anticapitalista e lì per lì mi era sembrata una tirata totalitarista come poche. Se quello era il futuro era senz’altro una distopia: la possibilità di trasmettere a costo quasi-zero lo stesso contenuto ovunque, pensavo, si risolverà necessariamente nell’unificazione del contenuto e nella battaglia per il monopolio dei trasmettitori. Ad andare bene bene, saremmo andati al cinema per vedere le tipe che sculettavano su Canale 5 contro gli scioperi. Qualche anno dopo lessi una tesi abbastanza affine, scritta da Giona A. Nazzaro, che parlava di Minority Report. Era una riflessione su altre cose: in pratica, come si può giustificare la sostenibilità dei budget spielberghiani se non pianificando un’invasione militare delle sale cinematografiche? Ai tempi sembrava una riflessione un po’ paranoica, affascinante e tutto ma paranoica. Poi d’improvviso sono arrivate la crisi del cinema di commercio, i budget ipertrofici, la polarizzazione del contenuto, lo strapotere delle serie e la fine del cinema americano propriamente detto. Magari è solo roba che è successa nella mia testa. Ma ormai godersi prodotti di cinema strettamente hollywoodiano al di là appunto dei franchise (che tra l’altro nel loro impeto seriale sono stati costretti a ridursi e diventare dei pestaggi senza trama lunghi due ore e mezzo, tipo Civil War o X-Men Apocalypse) è diventata un’impresa che inizia a costare tempo e fatica. Per cui l’alternativa è guardarsi roba piccolissima che sfugge al pettine delle distribuzioni major polarizzate, magari frequentare i festival. Oppure farsi uno schermo in HD e accontentarsi delle serie -che comunque, a leggere la critica, sono pronte a sostituire il cinema da almeno dieci anni.

Un paio di settimane fa parlavo con un amico di questa cosa. Era appena morto Cimino, si parlava del fatto che non lavorava da vent’anni, lui diceva una cosa abbastanza interessante sul futuro dei film. Che il cinema di genere deve necessariamente trovare una modo di esistere futuro, legandosi soltanto agli appassionati in qualche misura, e uscendo dai luoghi fisici deputati al cinema. Questa cosa che per la musica è stata la combinazione vinile-Bandcamp non ha ancora un corrispondente cinematografico, ma è necessario e auspicabile che presto o tardi qualcuno ricomincerà a pensare il cinema in un’altra scala. Questa cosa ovviamente ha un suo senso, anche se personalmente mi spaventa un po’: ci possono essere possibilità per certi grandi nomi su cose tipo Kickstarter, ma come si fa a coltivare una nuova leva di cineasti interessanti con quei mezzi?

Incidentalmente, Stranger Things è una serie molto spielberghiana. Oppure, non incidentalmente, è la tipica serie Netflix incentrata sulla stessa tematica: esistere ed eventualmente primeggiare all’interno di un sistema coercitivo (spesso istituzionale) che si muove attivamente allo scopo di schiacciare l’individuo. Orange is the New Black, House of Cards, Jessica Jones e Marvel’s Daredevil, ma anche per certi versi Unbreakable Kimmy Schmidt e Narcos hanno a che fare con questo tema (le altre cose di Netflix non le ho guardate). Il fatto che ovviamente non lo facciano apposta, e che Netflix in quanto azienda cerchi soprattutto di definire la propria esistenza/primato all’interno di un mercato selvaggio e in mutazione –possibilmente guardando ai dividendi e incamerando un po’ di grano per l’inverno, che come tutti sanno sta arrivando– in questo momento mi sembra solo l’ennesimo richiamo alla distopia spielberghiana di cui sopra. Del resto l’analisi dei dividendi è ormai una parte integrante della critica artistica: è o non è uno dei periodi cruciali della battaglia per il monopolio dei trasmettitori? Streaming contro TV, streaming contro streaming, eccetera; le analisi di mercato sono diventate parti essenziali dello storytelling generale, la gente la guarda in una soluzione unica da sei ore, e il cerchio più o meno si chiude. A vedere le cose con un paio di giorni di distanza, è un po’ come se fossimo condannati ad esistere in una dimensione parallela invisibile ai più, in cui tutta la narrativa sembra un prodotto di fantasia e invece è pura autobiografia, uno dei canovacci narrativi più utilizzati dall’estetica anni ottanta saccheggiata da Stranger Things (esempi banali: Essi Vivono, Society). E suona emblematico che mentre la serie mette in scena il ricalco di quel cinema, i nomi di molti dei responsabili della sua creazione (Dante, Carpenter, McTiernan, la lista può tranquillamente continuare per dieci righe) siano da decenni meno spendibili di quello dell’ultimo shooter o si siano ridotti a fare il nome di lusso in qualche serie. In questo, davvero, Stranger Things genera un irrisolto più che chiuderlo, e in questo davvero fa cacare addosso dalla paura.

2 thoughts on “Appunti casuali su Stranger Things”

  1. Arrivo davvero fuori tempo massimo per tirare un commento sull’ultima parte.
    Stranger Things è una roba derivativa. Per me il termine non ha mai avuto accezione negativa, ma credo che come me la vedano giusto altre sei persone worldwide. Da un lato la cosa mi fa sorridere perché questo consenso bulgaro che lo show si è ritrovato potrebbe (o dovrebbe, meglio) cambiare la relazione del mondo che comunica con la parola in questione, dall’altra mi porta a fare a pugni con, appunto, l’ultima parte del post.
    Per me il discorso è proprio lo stesso che si fa quando si parla di musica: se fai qualcosa di bello e innovativo sei un genio, ma godi di tutto il mio rispetto pure se fai qualcosa di bello rimescolamendo bene un mazzo di carte arci noto.
    E forse è per quello che i nomi che citi non sono più spendibili, perché pur avendo assemblato il mazzo ed inventato le carte, oggi potrebbero semplicemente aver esaurito le idee su come usarli. O la voglia. Non lo so, per me ci sta che se Carpenter pensa una roba come Stranger Things manco la propone, perché è lui per primo a pensare ne uscirebbe nel migliore dei casi una copia. E probabilmente avrebbe ragione, perché pur essendo tutta roba che potrebbe maneggiare bendato, a lui mancherebbe probabilmente quel guizzo di entusiasmo necessario a non cavar fuori una roba in cui il pilota automatico lo si riconosce in partenza.
    Non serve inventare sempre qualcosa di nuovo, ma se riproponi la stessa roba pedissequamente il pubblico ti sgama ed è una cosa che funziona al massimo per Ligabue, ma non va oltre.
    Non so se si capisce cosa intendo.
    Stranger Things aveva davvero tutti i numeri per venire fuori come una cazzata inutile per ex giovani e invece spacca la merda. Ed è tutta li la questione, a mio avviso.
    Poi oh, a me è piaciuta un botto pur non avendo mai apprezzato niente dei riferimenti a cui attinge (tolti i goonies), ma io son quello che reputa i primi Finch meglio dei Deftones, faccio un po’ classifica a parte.

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