Mio fratello usciva dal lavoro e passava dall’edicola a prendere qualcosa da leggere. Gli piacevano i fumetti stile Lanciostory o Skorpio, le riviste giovanilistiche patinate con le VIP nude in copertina (tipo King o Max) e le riviste di musica. La sua rivista preferita in generale si chiamava Rumore: delle altre comprava qualche numero qua e là, di Rumore non perdeva un numero. Ho iniziato così, prendendo in mano una di quelle riviste che parlavano per la maggior parte di roba che non conoscevo. Potrebbe essere anche una trama alla Sliding Doors: due realtà possibili che partono dal momento in cui decido di sfogliare, o non sfogliare, la rivista sul lettino di mio fratello. Scena uno: la rivista rimane sul letto. Carrellata su quel che succede da lì in poi: mi immergo nella lettura di qualche Dylan Dog, ricomincio a disegnare, torno a guardare i cartoni animati o i telefilm in TV, provo a studiare algebra. Continuo ad ascoltare la musica di cui parlano i miei amici, compro il biglietto per entrare a vedere il ttottsco a Rimini (7 agosto 1993), i miei voti a scuola migliorano, mi iscrivo ad una facoltà seria, divento architetto. Abbandono le velleità artistiche, apro uno studio nel cesenate assieme a qualche amico, mi specializzo in ristrutturazioni e condoni edilizi, sposo una ragazza del mio paese natale, spendo 100mila euro per ristrutturare casa dei miei, mi ricavo un appartamento indipendente, genero due figli, assisto impotente e costernato al montare della crisi del cinepanettone, partecipo al torneo di marafone tutti i mercoledì sera. Una bella vita. Scena due: prendo la rivista in mano e inizio a sfogliarla.
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C’è un punto di PJ20, il documentario di Cameron Crowe sui Pearl Jam, in cui viene mostrata la cittadina del Montana in cui è cresciuto Jeff Ament. Il bassista ne parla in maniera dolceamara, un posto tranquillo in cui va bene crescere e gli stimoli culturali sono pressoché assenti. Il rock, in questi posti, s’impara di straforo: i dischi di Santana dello zio, qualche disco punk su cui riesce a mettere le mani e le riviste musicali tipo Rolling Stone. Parlando di Rolling Stone gli scappa detto “man you’d STUDY that stuff”. Quando gliel’ho sentito dire ho fatto un balzo, e calcola pure che Ed Vedder una volta sul palco con Rolling Stone ci si pulì il culo. Io sono cresciuto in un posto abbastanza simile a quello dov’è cresciuto Jeff Ament, una frazione di Cesena circondata dai campi di pesche, un migliaio sgaffo di abitanti. Un posto tranquillo in cui va bene crescere e gli stimoli culturali sono pressoché assenti: c’era una specie di biblioteca di quartiere aperta il sabato, e c’era un’edicola. C’è ancora. È il 50% di un negozio che nell’altra metà è il frutta e verdura del paese, e sopravvive alla crisi dell’editoria in un paese già colpito dalla crisi agricola. Certe cose viene naturale di rispettarle. Chi è cresciuto a Bologna o Roma non dà modo di avere gli strumenti concettuali per capire questa cosa: sono posti in cui dal punto di vista dei consumi di musica/cinema/libri/fumetti, da ragazzini, era possibile scegliere. Nei posti come il mio paese la scelta era limitata da una serie di incontri fortuiti, dagli amici/coetanei che ti erano toccati in sorte, e dalla poca roba su cui riuscivi a mettere le mani di straforo. E quella roba lì la studiavi.
Questa settimana è uscito un articolo di Mattioli sul Tascabile che riassume a grandi linee il percorso della critica rock anglosassone. Alla fine dell’articolo Valerio parla brevemente dei corrispettivi italiani e conclude che, al di là di qualche caso sparuto, “la sensazione è che l’Italia non abbia mai davvero conosciuto quell’alternarsi di approcci, sguardi, ispirazioni e finanche ambizioni (letterarie, sociologiche, politiche) che negli anni hanno fatto del rock criticism anglofono un territorio forse contraddittorio ma se non altro patria di esperimenti e sincera riflessione sui linguaggi della contemporaneità.”. Dal suo punto di vista credo sia giusto, ma Valerio è cresciuto in una città con tremila anni di storia e due milioni di abitanti e può permettersi un’oggettività “artistica” che a me non è concessa. Così Rumore diventò la mia rivista preferita: la nuova generazione punk, i residui del grunge e dell’indie, gli Oasis e il britpop, il metal estremo, il rap. Non sapevo quasi nulla di quel che si parlava, ma c’era qualcosa che mi ci teneva incollato. Era come potevano essere Frigidaire o Metal Hurlant in altre epoche e in altri luoghi: una finestra su mondi a me sconosciuti, ad uso e consumo degli appassionati. Forse era l’ennesima finestra sullo stesso mondo illuminato anche dalle altre riviste, ma la gente che scriveva su Rumore aveva un certo tipo di sobrietà asciutta che mi lasciava a bocca aperta: teneva insieme il discorso generale, si scioglieva in accorate recensioni dal sapore brutalmente visivo, esplodeva in saltuarie stroncature cariche di insulti che sembravano quasi roba personale. Rispetto alle altre riviste che leggevo c’era un abisso: pochissime aspirazioni “giornalistiche” alla Mucchio Selvaggio, pochissimi scimmiottamenti gore stile rivista metal per quindicenni. Oddio, questi aspetti erano presenti, ma il cuore pulsante di Rumore erano le tirate di Sorge per certo metal estremo, la partigianeria di Nazzaro nella sezione cinema, la carica sovversiva di Frazzi, i pipponi di Marco De Dominicis/Cusano dell’Agave, l’emotività di Lo Mele, Emanuele Sacchi, le eccezionali scorribande dei The Groovers. E poi Blatto, Compagnoni, Ruggeri, Pomini, Bonadonna, Segale, Messina, Baroni, Pecorari, Prevignano, Negri, Morelli, Ferriero. È una banalità, ma è su Rumore che ho imparato a considerare la firma in fondo agli articoli: erano personalità forti, definite e a volte anche in antitesi. A volte con mio fratello ci chiedevamo che tipi potessero essere questi qua nella vita reale, lui era ossessionato dal sapere che faccia aveva Luca Frazzi, s’immaginava un obeso inguardabile con gli occhiali spessi come un culo di bottiglia, i capelli solo ai lati eccetera. Sai no, i cliché.
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Prima dell’avvento di internet la principale arma a favore dei critici era l’accesso. I giornalisti di una testata riconosciuta ricevevano gratis i dischi prima che uscissero sul mercato; il loro lavoro era informare il pubblico su cosa sarebbe uscito un certo mese, dare un parere prima degli altri, eccetera. Gran parte della reputazione dei critici non era legata all’autorevolezza dei loro pareri, ma a certi privilegi che erano loro accordati ex-ante. Internet ha sostanzialmente azzerato questi privilegi: tutti ascoltano tutto a costo zero, e più o meno nello stesso momento. I giornalisti musicali oggi sono costretti a scrivere di dischi importanti che arrivano loro in streaming blindato a poche ore dalla deadline e la necessità di prendersi dei rischi legati all’impossibilità di far sedimentare l’ascolto. A volte le disastrose conseguenze di quest’evoluzione sono sotto gli occhi di tutti, la didascalica freddezza con cui vengono affrontati certi dischi-evento usciti a sorpresa, certi strafalcioni come la recensione di Anti uscita su Yahoo Music prima che il disco fosse finito, o le recensioni dei fake a metà anni duemila (in Italia il principale scivolone fu proprio di Rumore, che mise disco del mese un fake dei Death Cab For Cutie).
Parlare oggi di quel che c’era sul piatto quando abbiamo iniziato noi ad ascoltare la musica è un esercizio un po’ sterile che si macchia troppo spesso di un romanticismo senza senso. La scena musicale negli anni novanta era un ambiente insalubre: ai concerti rock –a tutti i concerti rock- la gente si menava fortissimo; i locali vendevano birra di merda da hard discount; i proprietari dei negozi di dischi erano genuinamente infastiditi dal vederti entrare, come in Tono metallico standard. La permanenza nel giro-musica era subordinata alla capacità degli ascoltatori di entrare in una rete di scambio, o di crearne una ex-novo. Per rimanerci, di solito, dovevi assumere un ruolo attivo, per quanto marginale: musicista, barista, dj, fonico, organizzatore. A un certo punto i tuoi amici d’infanzia perdono interesse nella cosa, e spesso le persone con cui decidi di passare la vita non ne hanno mai avuto. Così la musica diventa una specie di percorso personale. Quando internet arrivò a casa mia avevo 23 anni: presi il respiro e iniziai a scaricare. Avevo già iniziato a scrivere da diversi anni.
Capita spesso che qualcuno rimanga folgorato dai Metallica e decida di metter su un gruppo, o almeno le storie che raccontano i musicisti sono tutte di questo tipo. Io lessi degli articoli sulla musica, e invece della chitarra ho comprato carta e penna.
Paradossalmente non ho mai amato il giornalismo musicale. Il bisogno di riportare le notizie, il bisogno di cercare le conferme, la ricerca di un parere quanto più definitivo possibile riassumibile in un voto numerico da uno a dieci: sono obiettivi scemi. La musica ha un modo di diffondersi che ha solo in minima parte a che fare col giornalismo, e i dischi cambiano di valore a seconda di come si evolve il mondo attorno a loro. La letteratura musicale, invece, è tutto un altro paio di maniche. Parlando personalmente, la musica è semplicemente uno dei miei argomenti preferiti. Mi piace leggere cose che parlano di musica, omicidi, sesso, intrighi politici, arte e storia contemporanea. Nella mia interpretazione la musica è l’argomento prediletto di un lunghissimo romanzo di formazione con protagonista me stesso in quanto ascoltatore ed essere umano. È la stessa impostazione che usciva fuori dalle pagine di Rumore. Frazzi una volta scrisse il report di un concerto dei Cows, epoca Whorn. Aveva visto il gruppo, era tornato a casa, si era beccato in TV uno speciale di Videomusic sul nuovo rock italiano: raccontò tutto e chiuse dicendo qualcosa tipo “liberiamoci di tutta questa merda prima che sia troppo tardi. Se il concetto non è chiaro, un concerto dei Cows potrebbe aprirvi gli occhi”. La musica, lo scrivere di musica, per me è quella cosa lì.
Quelli che scrivono di musica di solito si dividono in due categorie di persone. I primi sono degli scoppiati che se la credono un casino, vivono il loro hobby come una missione di vita e credono di offrire un contributo prezioso alla cultura contemporanea. I secondi sono gente rilassata che lo fa per hobby e ha coscienza del reale impatto culturale delle cose che scrivono (nessuno). Io credo di appartenere ai primi: i secondi di solito smettono dopo qualche mese e passano a qualcosa di più importante. A mia parziale giustificazione, ho imparato a tenere a bada il mio bisogno di farmi leggere da coloro che non sono interessati all’argomento. Persino a mio fratello, l’unica persona reale che condivideva la mia esaltazione per le riviste, non ho mai pensato di mandare un articolo scritto da me.
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Su twitter la mia biografia recita “In realtà è solo un nazi mancato che ha letto i risvolti di copertina dell’opera omnia di Nietzsche, capendone a malapena il prezzo.” La fonte della citazione è un articolo mitico uscito su Rumore, numero 72, gennaio ’98. Si chiama La corazzata Potiomkin: una dozzina di intoccabili del rock stroncati dalle firme di Rumore dell’epoca. È il più bell’articolo di musica che sia mai stato scritto, parere personale. A testimonianza del fatto che tutta questa storia mi è cucita addosso, il n.72 di Rumore ha in copertina gli Shellac. La frase sopra l’hanno scritta i Groovers, nel pezzo che massacra Henry Rollins.
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A Cesena nei duemila c’era questo negozio di dischi eccezionale che si chiamava Rev Up ma tutti chiamavano “da Oscar”. Da Oscar ho comprato tanti di quei dischi da far fuori il conto in banca, ma la cosa più bella che ci ho comprato non è un disco. Lui aveva questa cosa metodica, riorganizzava gli scaffali ogni sei mesi in cassette divise per generi o nazioni o sa solo dio cos’altro. Aveva un sacco di vecchie riviste di musica buttate in dei cassettoni in basso, e a un certo punto sono comparsi dei tomi rilegati nell’angolo a destra dove prima teneva gli usati. Sembravano volumi dell’enciclopedia Mondadori, copertine nere di pelle con la stampa a caldo color oro, una roba pazzesca. Li aveva fatti rilegare Oscar: erano i suoi archivi personali, le raccolte annuali delle riviste che comprava. C’erano anche i primi quattro anni di Rumore, dal ’92 al ’95. Pensavo avessero un prezzo inavvicinabile, ma Oscar me li vendette tutti e quattro a 50 euro e li regalai a mio fratello per il suo 43esimo compleanno.
I giorni scorsi ho letto un articolo di Annamaria Testa su Internazionale, e l’ho trovato orribile. Parla del fatto che l’aumento dell’importanza dei social network per la società occidentale sta portando a livelli di disumanizzazione del sè. Leggo questo genere di articoli da quando leggo riviste, ogni tanto ne esce uno. La tesi di fondo è che l’evoluzione sociale e tecnologica viaggia più veloce dell’evoluzione umana; l’umanità, dal canto suo, se ne è sempre battuta bellamente il cazzo ed ha accettato ogni cambiamento con relativo entusiasmo. Questo genere di narrazione è il principale responsabile della deriva nostalgica del nostro immaginario e ci giustifica nella nostra tentazione di smettere di relazionarci al mondo. È tutta roba che ho provato negli anni novanta, e a volte mi manca quel genere di odio feroce nei confronti di tutto, così come mi manca l’idea di non riuscire a trovare il disco dei Butter 08 per anni e poi trovarmelo davanti per caso a due lire in un banchetto. Ma d’altra parte sono storie di cui è giusto non freghi a nessuno, e se metto ttte le cose nella bilancia preferisco accendere il computer e scaricarmi il disco dei Butter 08 da Soulseek perchè non ho voglia di cercarlo di sotto tra gli scaffali. Voglio dire, quanta energia abbiamo sprecato per arricchirci culturalmente? Perché dobbiamo sentirci depredati all’idea che i nostri figli o i nostri fratelli minori facciano così poca fatica a reperire i dischi? Cosa c’è di distopico o disumano, nella foto di un’ecografia postata da un tuo compagno delle elementari? Chi è stato ad inculcarci questo costante senso di inadeguatezza al presente? Come possiamo liberarcene?
Non ho vere e proprie risposte a queste domande. Credo che una certa leziosità da bei tempi andati sia impossibile da sradicare dall’animo umano, e questa cosa per la musica pop funziona a meraviglia: è dal ’65 che il rock funziona su una solida linea narrativa secondo cui la musica di dieci anni prima era meglio. Adesso, se mai, manca qualcuno che metta a tacere i vecchi una volta per tutte. Nonostante la tendenza a lamentarmi, però, sono assolutamente convinto che oggi sia meglio, sia la vita in generale che la gente che scrive di musica. Certo tocca affidarsi a internet più che alle riviste di carta, le quali in generale non sono più così attraenti per il pubblico di neofiti e in particolare non riescono mai a superare il menu intervista/recensione/rubrica etc che le anima da decenni a questa parte. Ci arriveranno, voglio dire, che alternativa c’è?
Nel 2013 Rumore è passata di mano, da Claudio Sorge a Rossano Lo Mele: nuovo editore e tutto. Sulla carta credo fosse un progetto suicida: comprare una rivista per farla sopravvivere in un mercato editoriale alla frutta.Tre anni e mezzo dopo, la rivista esce ancora. All’epoca del cambio di editore mi arrivò una mail: Rossano, nell’atto di rifondare la redazione dopo il passaggio, mi invitò a collaborare. Spiegare cos’abbia significato, per me, non è semplice: ci sono in mezzo 25 anni di vita, tante scelte personali perlopiù sbagliate, il carattere che ho e il fatto che alla fine di tutti i bilanci è giusto e sacrosanto che di queste cose (musica, riviste, riviste di musica) non freghi più niente a nessuno. L’unico a cui sarebbe fregato era mio fratello, immagino: continuava a comprare saltuariamente una copia di Rumore, o si limitava a fregarsi le mie quando veniva a trovarmi a casa. Così glielo dissi via SMS, e dopo due minuti mi richiamò un po’ commosso. “Ma ci pensi che te l’ho fatta leggere io”.
Magari aveva un piano fin dall’inizio.
Le soddisfazioni di chi scrive di musica non sono poi tante. Scriviamo la sera, perlopiù gratis, e per un pubblico tutto sommato modesto. Le soddisfazioni sono tante o poche, a seconda di cosa ti aspetti. Una delle più grandi, per me, è di essere entrato in quel mondo lì. Sapete una cosa pazzesca? Ho conosciuto Luca Frazzi. L’altro mese eravamo a Cremona a parlare di stampa musicale ad un festival sull’editoria indipendente. È più magro di me, si veste bene, non porta gli occhiali: è una persona normale che nella vita avrebbe potuto essere chiunque, e invece ha scelto di guardare dei concerti e di scrivere degli articoli sulla musica. Ha fondato una fanzine indipendente venduta su web e stampata su carta, si chiama Sottoterra, spacca il culo. Il suo identikit è lo stesso di tutti quelli che continuano a scrivere di musica sulle riviste cartacee: un amore smisurato che ti tiene sveglio la sera, ti fa perdere un mare di soldi e ti mette in una posizione di svantaggio sul resto del mondo. Se devo avere delle aspirazioni nella vita, vorrei che un giorno qualcuno guardasse a quel che ho fatto come come io guardo a quel che hanno fatto loro. Se aprite Rumore oggi, intanto, trovate nelle pagine di Maurizio Blatto o Marco Pecorari la stessa visione della musica che stava allora nei proclami di Frazzi. In questo, se non altro, lo spirito continua (e del resto Marco Mathieu è stato firma di Rumore per molti anni).
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Qualche giorno fa in edicola è uscito il numero 300 di Rumore. Intorno a casa mia, e nei 50 km che percorro in macchina per andare in ufficio, tutte le edicole hanno chiuso. Sono andato a trovare mia mamma nel mio paese natale e ne ho trovato una copia nell’edicola dove mio fratello comprò la prima copia che ho letto. I sei euro li ho pagati a una ragazza, credo la nipote di quella che me li vendeva a quell’epoca. Nel numero 300 c’è uno speciale, una specie di gioco, che contiene le 300 canzoni più “rumorose” della storia. Ho partecipato anche io, ma è tutta un’esca e uno specchio per le allodole. La storia grossa dietro a quel “300” stampato enorme in copertina per me è un’altra.
Che leccata. Di Rumore ami più di tutto l’articolo che critica l’incriticabile e non riesci a scrivere mezza critica sensata a Rumore stesso – che ne ha e ne ha avuti di difetti, di penne sottratte ai campi e quant’altro. Questa roba metterebbe 10 centimetri di pelle d’oca addosso scritta ovunque. Ne mette 20 qui sopra. Avessi avuto almeno il buon gusto della proprietà di sintesi. Pure il pippone. E perdio piantala di scrivere post come se stessi morendo da un momento all’altro.
Non so cosa ha letto Franco ma cazzo quanto è bello questo articolo.
Mi piace tantissimo il commento di Franco! Però anche io la penso come Jean. Due cose al volo: Frazzi teneva la rubrica DemoCrazia e stroncava quasi tutti i demo , in particolare ce l’aveva con quelli velleitari e pretenziosi, li faceva a pezzi e faceva morire dal ridere. Morivo dalla voglia di farmi stroncare un demo, ma non suonavo in nessun gruppo. In quel periodo ereditai una vecchia Bontempi, che mi divertivo a suonare a caso, dopo averla aperta infilando delle forcine per capelli fra i contatti: ne uscivano dei suoini assurdi. Ho registrato un “demo” su cassetta inserendo un cavo per chitarra nello stereo, roba assurda rumoristica e al limite dell’inascoltabile (ma c’era anche una cover di di I wanna be your dog con il tempo mazurca). Ho scritto una bio pomposissima e piena di cazzate (“ottimo piazzamento al concorso Bollate estate musica e risate”) e mi son fatto un culo così per fare una copertina collage perché non avevo ancora il pc.
Ho spedito il tutto. Il giorno dopo, sul nuovo numero di Rumore Frazzi diceva che dal mese dopo non avrebbe più tenuto la rubrica.
L’ho conosciuto di persona solo due anni fa, al Lo-Fi (altro caduto del 2016) durante la presentazione di due libri di quel matto di Pierpaolo DeIulis.Ovviamente non si ricordava di striscio di quella cassetta.
Frazzi è pure quello che ha messo in piedi Bassa Fedeltà, che assieme a Rumore ho letto religiosamente (più volte).
Infine (poi te mollo) la Corazzata me lo ricordo benissimo, mi ha fatto capire tante cose quell’articolo.
Conservo ancora tutti i numeri di Rumore dal ’94 al 2004, poi boh credo sia successo internet.
Il numero con Shellac in copertina fu il mio primo numero [“Questa è un’intervista con Scellac, non con la band di Steve Albini!”]. E anch’io metto La Corazzata nella top 3 di tutti i tempi.
Provo a ricordare chi erano i massacrati senza aiutarmi:
Rollo [the groovers]
Smiths
Doors
Sonic Youth
CSI [Frazzi, tabula rasa mercificata]
Prodigy [Sorge, poco coraggioso…]
Zappa [Alberto Campo, controbbatte un Messina incazzatissimo sul numero successivo]
Ramones [Fabio De Luca]
Sex pistols [Lo Mele?]
Aiutatemi se ho dimenticato qualcosa.
@Ruf
c’erano anche Elvis Presley, Brian Eno, Clash e Nick Cave (ho il numero sottomano). CSI e Rollins di gran lunga i miei preferiti.
ps: disco del mese in quel numero FOUR GREAT POINTS.
@Franco
grazie per aver letto, confermo di essere in salute per ora.
@Jacopo
ho una venerazione autentica per quella rubrica, la quale a un certo punto contiene anche la dichiarazione programmatica definitiva nel recensire qualsiasi gruppi italiano composto da gente che non conosco, cito a memoria:
“ci siamo. arrivano le prime lettere in redazione in cui mi danno del musicista fallito e della testa di cazzo. Sì, sono un musicista fallito e una testa di cazzo. E voi siete liberissimi di mandarmi i vostri nastri.”
Post comprensibile ma poco condivisibile. Molto romanzato. Fermo al Mesozoico. Lacunoso e accomodante. Volontariamente dimentico di persone e situazioni quanto meno discutibili: 3000 parole e non uno sfottò per Morelli o Tomasino? Difficile! Che Rumore hai avuto tra le mani in questi anni? Quel “Ho partecipato anche io” giustifica tutto. Il che è abbastanza triste e anche un po’ patetico ma vabbé… il tutto è molto in linea con lo stile Amarcord di Bastonate recente.
Santo dio, i Butter 08! Un amico mi passò il cd all’epoca in cui uscì, me lo registrai su una TDK che poi consumai a forza di ascolti finchè la persi, tra rimpianti e bestemmie. Per anni il cd era introvabile, poi l’anno scorso l’ho trovato usato su Amazon a tipo 1 centesimo.
Per il resto, ho letto il pezzo tutto d’un fiato con un grosso groppo in gola. Sono cresciuto in un paesello paragonabile al tuo ed ho letto Rumore per anni come fosse una luce nell’oscurità. A differenza tua oggi non scrivo su Rumore come te, diciamo che la mia vita nonostante tutto ha preso più la piega da “what if” che ipotizzavi poco sopra. Però ggi abito a circa un km dall’edicola/frutta e verdura che citi ed ho capito perfettamente quello che intendi.
Per quanto mi riguarda, puoi tranquillamente continuare a scrivere come se dovessi morire domani (intendo tu, non io). Ti riesce bene, d’altra parte.
L’articolo fa tenerezza e mi ci ritrovo alla grande, sia sotto l’aspetto generazionale che socio-demografico. Io pero’ ne concludo che, col senno di poi di cui il pezzo intriso, forse potevo spendere un po’ meno tempo e energie dietro a dischi e riviste e buttarli in qualcos’altro, ai tempi come piu’ recentemente (leggere i classici russi, imparare meglio la chitarra o darci un po piu’ dentro col basket per esempio, ma ciascuno ha i suoi di rimpianti presumo). quando ho visto Rumore con in 300 grande all’edicola del mio paese – adesso vivo all’estero, che rende il tutto ancora piu’ cinematografico – l’ho aperto e ho scoperto con un filo di tristezza che la seconda canzone piu’ rumorosa di sempre e’ waiting room (e perche’ nn la prima, se veramente voglaimo essere generazionali poi?!) e l’ho rimesso sullo scaffale. A un certo punto bisogna smetterla con ste robe, e sto punto l’abbiam passato
Condivido con te l’aspetto edicola paesino fonti di approvvigionamento culturale ridotte al lumicino amici che insomma ti ci ritrovi volente o nolente. Rumore è stato un’autentica scoperta e rivoluzione, poi sì, anni dopo, forse internet lo ha ucciso, scoprire che siamo arrivati a 300 mette un po’ di nostalgia, che tanto i 20 anni non ce li restituisce indietro l’edicolante.
Giusto la scorsa settimana reduce da un trasloco stavo ordinando i cd delle due decadi Rumorose, insieme a qualche decina di DVD, non ho avuto il coraggio di fare la conta di quanto abbia dilapidato. Mi sono anche chiesto che senso avesse conservarli, poi leggo il tuo articolo e riesco a darci un senso, grazie.
“A un certo punto i tuoi amici d’infanzia perdono interesse nella cosa, e spesso le persone con cui decidi di passare la vita non ne hanno mai avuto. Così la musica diventa una specie di percorso personale”, quanta amarezza soprattutto perchè potrei fare questo discorso con tante passioni (cinema, libri, fumetti etc).
bellissimo. ciao fra’