Detesto la parola edonismo, o per essere esatti detesto l’accezione che ha preso la parola edonismo dopo essere stata utilizzata per descrivere la stagione degli yuppie. E considerato il fatto che il significato della parola edonismo mi è stato spiegato nei primi anni novanta, si può dire che non ho mai avuto la possibilità di vivere in un mondo in cui la ricerca del piacere come fine ultimo dell’esistenza fosse un ideale puro, per nulla sporcato dalle implicazioni politiche e dai corsi di rettorica frequentati da quelli che poi andavano a scrivere su Filmcritica. Vabbè. Comunque quando qualcuno parla di edonismo reaganiano in genere fa riferimento ad una visione a blocchi dello spirito del tempo secondo cui gli anni ottanta li abbiamo passati a pippare coca sul culo di una modella e gli anni novanta li abbiamo passati ad odiare noi stessi per tutte le botte di coca che avevamo dato fino ad allora. Oltre a questo, il termine edonismo riferito al modello di vita yuppie sembra implicare indirettamente che nei primissimi anni novanta nella società occidentale predominasse il desiderio cosciente di rompersi il cazzo e porre fine alla propria vita. In questo senso, il clamoroso successo di Non è la Rai in quell’epoca (quattro stagioni dal ’91 al ’95) non sarebbe spiegabile.
In una di quelle riviste che mio fratello comprava di tanto in tanto (forse era King, ma potrei sbagliarmi) mi capitò di leggere un articolo sulla piega che stavano prendendo le teenager italiane. Era una cosa scritta in forma di fiction e divisa in miniracconti, uno per ogni stereotipo, con accanto la foto della musa ispiratrice di quel particolare gimmick -l’anoressica wannabe-modella, la comunista fricchettona figlia di papà, la ragazza di Non è la Rai che sculettava pimpante davanti al bidello. Di fianco a quest’ultima campeggiava la foto del viso sbarazzino di Ambra, il che sembra datare l’articolo dalle parti del ’94. Era un reportage dal Paese Reale dieci anni prima che il concetto di Paese Reale fosse plasmato: quali sono i modelli più ridicoli a cui si ispirano oggi le nuove adolescenti? Un articolo di merda, ma va bene per fissare un punto: a un certo punto l’ideologia alla base di Non è la Rai ha fatto il giro ed ha iniziato ad essere appannaggio di quelli che i giovani la droga la rivolta e l’anoressia. Il livoroso finto-paternalismo di quell’articolo era l’espressione di un sentimento reale, che però la società civile di solito riserva alle forme espressive più radicali della controcultura giovanile (squatter anarchici, rave culture, street art etc etc). Non era una cosa circoscritta a qualche articolo per riviste maschili: lo stesso inquisitorio non-biasimo occupava programmi di approfondimento, editoriali dei quotidiani buoni, tavole rotonde, omelie e saggistica. Com’era potuto accadere che la stessa sprezzante noblesse oblige da salotto buono dovesse abbassarsi a smontare un prodotto televisivo major, evidentemente stupido e di clamoroso successo? Provo a raccontarla per come l’ho vissuta io.
Comincio dal passato recente e vado indietro. A metà anni 2000 il Bronson di Ravenna aveva iniziato a mettere in calendario una festa anni ’90. Il Bronson è un locale di estrazione indie, un posto da concerti; quasi tutte le selezioni erano concentrate sui movimenti altrock degli anni novanta, britpop, crossover, d&b, gangsta e via dicendo. La migliore in consolle a queste feste è una dj che si fa chiamare Trinity: ha iniziato da subito a martellare sul repertorio italo, e c’è voluto poco a capire che la sua roba funzionava molto più del resto. Alla fine del suo set metteva sempre T’appartengo di Ambra e le prime volte che la suonava il locale ha seriamente rischiato di venire giù. Ecco, la festa anni ‘90 del Bronson è stata la prima volta che ho ascoltato T’appartengo traendone un piacere reale ed immediato. La canzone è contenuta in un album con lo stesso titolo uscito alla fine del ’94 e rimane la testimonianza discografica di maggior rilievo uscita fuori da Non è la Rai. Quando passava quotidianamente per radio pensavo che fosse la peggior canzone mai incisa. A formare l’opinione hanno contribuito in maniera determinante alcuni fattori non strettamente dipendenti dalla qualità della canzone, ad esempio la mossa del cuore performance in playback nel corso del programma e l’odio per il programma stesso.
Il programma è iniziato nel tardo ’91. Gianni Boncompagni a quell’epoca viene da anni di militanza in Rai, gli ultimi dei quali passati a riconcepire il formato di Domenica In per una nuova generazione di telespettatori –intrattenimento a randa, giochetti low budget, un sacco di ragazze in studio. È già l’ossatura su cui andrà a concepire il programma che sta pensando per Fininvest, in onda dal settembre del ‘91. Il programma si chiama Non è la Rai, dichiarando in maniera piuttosto smargiassa la sua natura di auto-scopiazzatura (è a tutti gli effetti Domenica In con un altro logo sullo schermo), con Enrica Bonaccorti a condurre l’ombra di Boncompagni ben più che intuibile e una legione di ragazze carine a far da pubblico. Ad alcune di loro è affidata la conduzione di alcuni momenti del programma, e l’idea si evolverà nelle edizioni successive fino alla sparizione dei conduttori professionisti dalla trasmissione nella stagione 3. È in questa fase che Non è la Rai diventa a tutti gli effetti Non è la Rai, una cosa che occupa militarmente due ore di palinsesto nei pomeriggi feriali di Italia 1, condotto da una ragazza di 16 anni che viene imbeccata dal regista tramite un auricolare. Persino il nome del programma sembra cambiare significato: non è più un riferimento autobiografico del regista e ideatore quanto una dichiarazione d’intenti in merito al contenuto: qui dentro c’è roba che nella TV nazionale non potreste mai vedere. E alla fine è diventato IL programma di Boncompagni, il suo testamento spirituale, quello a cui pensi se ti dicono il suo nome.
L’impatto di Non è la Rai sulla società italiana di quegli anni, in barba a Kurt Cobain e Tangentopoli, è fortissimo. Per certi versi guardarlo nel ‘92 è come guardare un incidente stradale. La roba di Cecchetto al confronto sembra haute couture per linguisti. Mi capita spesso di guardarlo: il mio migliore amico ne è ossessionato e lo guardiamo insieme. Non c’è nessun trasporto reale, non ci sono storie interessanti o montepremi stellari. Fondamentalmente ci sono solo delle ragazzine a cui è permesso di fare le ragazzine in TV: urlano, ballano, qualcuna canta in playback. C’è questo gioco che si prende un sacco di minutaggio: vengono sorteggiate tre ragazze, si mettono sotto a una doccia. Un tizio chiama da casa, sceglie quale delle tre deve tirare la catena davanti a lei. Da sopra arriva una secchiata d’acqua, o una pioggia di caramelle o petali di rosa o quel che era: se escono i petali vinci un gingillo, se esce acqua ti sei guardato la tua preferita prendere una secchiata. Il gruppo di ragazze è diviso abbastanza nettamente tra una cerchia di notabili (a partire da Ambra Angiolini) e un novero di gregarie che fanno numero. Fuori dallo schermo Iniziano a spargersi leggende metropolitane secondo cui un’orda di ragazze più o meno maggiorenni, accompagnate da madri più infoiate di loro, si presentano ai cancelli per il casting, pronte ad elargir servizi a chiunque abbia il potere di decidere la loro presenza in trasmissione. È roba tramandata per via orale che si spinge fin dove può spingersi l’immaginazione delle persone semplici: le mie preferite sono quella tipa che venne accettata nel cast e mandò a monte il matrimonio programmato per il weekend successivo; ho sentito raccontare la storia di un gruppo di senatrici, le ragazze più in vista, che vessavano brutalmente le altre. Immagino fossero tutte cazzate, ma la gente non smetteva comunque di raccontarle. I miei amici parlavano con cognizione di causa di una ipotetica top ten delle ragazze più fighe (ricordo solo che Miriana Trevisan era al primo posto). Non riuscivo a pensare a loro in quei termini, credo fosse per via di quel settaggio acqua-e-sapone imposto dall’alto che solleticava certe fantasie e le rendeva lontane dal mio ideale dark dell’epoca. Qualche volta ho anche provato a spiegarlo ai miei amici, beccandomi in risposta qualche insulto, “finocchio” e “chiesarolo” perlopiù. Ma a starci appena più attenti l’accusa era quella di non marciare al ritmo del resto del mondo, di spezzare la bolgia (cfr).
Le cose sono finite fuori scala nel giro di pochissimo. Non è la Rai ci ha messo poco a diventare una vetrina da cui spacciare una visione pop che per certi strati della popolazione probabilmente era davvero la roba più figa su piazza, e anche chi s’era già guardato tutto Cronenberg non aveva abbastanza anticorpi. Rispetto alla media delle produzioni musicali che facevano capolino in trasmissione T’appartengo di Ambra (e la successiva L’ascensore) erano probabilmente i lati più rispettabili, ma al di là dei passaggi in radio nella stagione calda (e del sorriso ubriaco di chi la riascolta alle serate-nostalgia) il singolo in sè ha impattato pochino. Ma l’insuccesso sostanziale della Ambra cantante è praticamente l’unica soddisfazione di chi voleva cancellare ogni traccia del programma dal nostro immaginario, un gruppo di pressione bipartisan che lavorava (verosimilmente) per togliere Non è la Rai dal palinsesto e infilarci due ore di qualsiasi altra cosa (verosimilmente letture di Burroughs o tributi a De Andrè). In prospettiva l’insuccesso della Ambra-popstar (la quale comunque un quarto di secolo dopo ha ancora un’agenda bella fitta) è anche un punto di partenza verosimile di due movimenti speculari dei noughties: il primo è tutto il movimento di riscoperta del trash anni ‘90 come linguaggio comune ad una generazione di intellettuali attivi dai 2000 in poi (e quindi un certo culto sotterraneo attorno a T’appartengo); il secondo è un sottogenere del giornalismo d’inchiesta all’epoca del clickbait, gli articoli intitolati “che fine hanno fatto le ragazze di Non è la Rai?”. Polvere eri e polvere ritornerai, l’onda lunga del rigurgito cattolico/sessuofobo che animava le più feroci critiche al programma, quasi tutte pescate dalla bibbia e mascherate da dibattiti sulla decadenza del contemporaneo. La stessa merda che oggi vola sugli youtuber e sugli influencer, o sul ministro del lavoro quando dice che per trovare lavoro gli agganci e il calcetto contano più del CV europeo, perchè salvare quel briciolo di decenza formale è il motivo per cui ci siamo iscritti ai terroristi dell’internet.
(un paio di settimane fa una persona mi ha mandato il CV europeo per chiedermi di scrivere su Bastonate)
Rispetto alle polemichette da cortile su youtuber e affini, però, Non è la Rai è da almeno vent’anni una questione iconografica. Una cosa che nel bene o nel male serve a raccontare i nostri tempi, e questo genere di letteratura conta anche e soprattutto come il bisogno feroce di affrontare un irrisolto, di ricombattere una battaglia che abbiamo straperso -e la nostalgia ci dà perdenti anche a questo giro, guardate solo l’attuale livello di reputazione di un Drive In che ha fatto lo stesso giro dieci anni prima.
La colonna sonora non aiuta; quello che all’epoca diventò l’inno degli hater del programma non vale manco un decimo di T’appartengo. Lo scrisse Vasco Rossi e lo pubblicò nel ‘93, dentro a Gli spari sopra. La canzone si chiama Delusa e quando ci ripenso mi rendo conto che già ai tempi esistevano canzoni molto peggiori di T’appartengo. Delusa è un rockettone sopra le righe e si fregia di uno dei testi più ignobili della storia del pop, in cui con una mano si dà corpo alle leggende metropolitane (“però quel Boncompagni lì secondo me…”) mentre con l’altra ci si cura di fornire un fine riferimento letterario all’ideologia secondo cui girare in minigonna ti rende corresponsabile di tutte le molestie sessuali che potresti subire (oppure “ehi tu delusa attenta che chi troppo abusa rischia un po’ di più e se c’è il lupo rischi tu” vuol dire un’altra cosa e io non l’ho mai capito). A quel punto le fila degli scandalizzati s’erano ingrossate al punto che veniva quasi naturale fare il tifo per Ambra e Boncompagni, e stiamo parlando di gente che faceva gli spot a Forza Italia in diretta TV. Ma francamente già ai tempi avevo sviluppato questo istinto per cui se da una parte c’è Vasco io mi butto dall’altra. Forse è quello che mi fa prendere bene quando la canzone di Ambra passa nello stereo. O magari ha a che fare con l’edonismo.
Quando il gestore di un bar assume due ragazze carine, qui in giro si dice di lui che “ha il senso degli affari”. Quando ti fermi a prendere un cappuccino al bar prima di entrare in ufficio, intorno alle 8 del mattino, c’è sempre qualcuno che ci prova con la barista. Lei ha uno sguardo negli occhi stile “anche oggi ti mando affanculo domani”, chiude la bocca, sorride, versa la schiuma nella tazza. La morte di Gianni Boncompagni ha rinvigorito un dibattito tra innocentisti e colpevolisti che va avanti da 25 anni e passa: i primi usano parole di circostanza, i secondi sono infoiati e ci tengono a puntualizzare che GB sia tra i principali responsabili dell’impoverimento di contenuti della TV italiana. Ecco, credo che almeno post-mortem lo si possa assolvere da questa accusa: non è stato lui a creare l’ossessione degli italiani per la figa. Forse ha avuto un ruolo chiave in tutto il processo di demistificazione della bomba sexy all’italiana, quel calvario mediatico che che da Sophia Loren ha portato ad Alessia Merz, ma 1 le Lory Del Santo e le Tinì Cansino non sono state inventate da Boncompagni, e le stesse leggende metropolitane cantate da Vasco Rossi accompagnano da decenni le selezioni di Miss Italia. Se il problema di questo paese è stato il berlusconismo, la colpa di Boncompagni è di aver surfato su quel mare di merda meglio di chiunque altro -anche se la mia impressione è che la sua più grande colpa sia di avere avuto la faccia come il culo, di svuotare scientemente il contenitore e avere pure la faccia di vantarsene in giro. A conti fatti la sua interpretazione del berlusconismo aveva un sapore quasi verista: ti sedevi e lo guardavi per quel che era e diocristo non c’era proprio un cazzo da vedere.
stavo vedendo discoring su rai storia. c’era boncompagni che stava spingendo la carriera di branduardi.
potresti mettere tra le cento canzoni italiane una di branduardi? cioè, branduardi, non so se mi spiego.
branduardi.