true believers: ARTO LINDSAY

When people talk about Arto Lindsay’s body of work, they often project a reductive dichotomy. There is Scary Arto and Sexy Arto. Scary Arto’s music is stormy and serrated and ruthless and almost deranged; evoking perhaps the glare and noise of New York City. Sexy Arto’s music is seductive and warm and textured and ethereal; evoking perhaps the dappled sunlight of Brazil. Both musics seem dreamlike. In the sense that there are many kinds of dreams.
(note biografiche)

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La Romagna è piena di posti incredibili dove ascoltare la musica. Incredibili nel senso letterale di non-credibili, di posti che prima di esistere qualcuno avrebbe fatto fatica perfino a pensarli. L’incontro tra passione per la musica e spirito imprenditoriale genera situazioni pazzesche, o è solo il mio preconcetto e l’amore per la terra, ma non so se altrove ci sono corrispondenti della Rocca di Cesena, dell’Hanabi di Marina, della (fu) Capannina a Diolaguardia o Rio Manzolo. Ma il più incredibile di tutti forse è un casolare di campagna situato in culo ai lupi, come si dice qui, nel primo appennino toscoromagnolo, un po’ fuori Meldola. Il paesino si chiama Ravaldino in Monte e non lo conosce manco chi ci abita, e la prima volta che ci vai ti perdi, e poi più o meno impari dove si trova e comincia la storia. Il posto si chiama Area Sismica, è un circolo, esiste dal ‘91 e continua ancora oggi a fare musica. Il concerto da cui inizia la mia storia con Arto Lindsay però non si era tenuto all’Area Sismica; era una specie di evento speciale, organizzato da quelli dell’Area Sismica al teatro comunale di Meldola, e che se non ricordo male inaugurava la stagione 2004/2005. Mi ci portarono un paio di amici, non ero convintissimo ma i bastardi mi hanno convinto mettendolo nel classico pacchetto concerto/cena/sbronza con cui sbavavo in quegli anni. Si può dire che a quell’epoca non conoscessi Arto Lindsay, o per essere esatti conoscevo a menadito un supereroe del postpunk di nome Arto Lindsay che avevo suonato e cantato in un gruppo chiamato DNA, la cui raccolta definitiva era uscita in quel periodo riportandoli agli onori delle cronache, e che a un certo punto s’era messo a fare questi dischi di world music del cazzo che avevo sentito di sbriscio, concludendo che non mi riguardassero. Il quale del resto è il concetto espresso dal corsivo sopra, forse il miglior modo di riassumere Arto Lindsay e il suo pubblico: a destra quelli per cui è il cantante dei DNA e dei Lounge Lizards dell’unico disco buono, che sopportano per carità cristiana gli Ambitious Lovers e manco considerano la sua carriera solista; a sinistra quelli per cui Arto Lindsay è un fine sperimentatore di linguaggi con un inspiegabile passato da nowaver.  

(Alla fine del concerto ero saltato da una parte all’altra: nel giro di un paio di mesi avevo recuperato tutti i dischi ed ero andato in heavy rotation. Curiosamente, poco prima di quel concerto Arto Lindsay aveva pubblicato il suo ultimo disco di studio, e non ne avrebbe pubblicati più)

Va da sé che entrambe le interpretazioni fanno un torto enorme al musicista. E del resto non è l’unico musicista di cui conosciamo un lato sexy e un lato scary -intendendo come sexy gli agganci col mondo avant e scary la roba cruenta. Ma la maggior parte degli artisti che vivono (di) questa dicotomia hanno un lato dominante a cui il suo pubblico si lega: ad esempio John Zorn è un musicista di estrazione classica (sexy) che di tanto in tanto ama farsi un giro nei bassifondi e vaneggiare sui limiti teorici dell’ascoltabile, mentre Stephen O’Malley dà più l’idea di un metallaro infoiato (scary) a cui di tanto in tanto viene lo schizzo di metter su un progetto ambient. Questo si può ripercuotere nell’impostazione delle loro opere, ad esempio il retrogusto artsy dei Naked City li rende molto più adatti ai fan di Zorn di quanto lo siano ai puristi del grind. Al contrario, per Arto Lindsay si ha l’impressione che ci siano due artisti con lo stesso nome che vanno in giro a farsi i dispetti a vicenda. È praticamente impossibile amare Sexy Arto e Scary Arto allo stesso modo: abbracciando un pezzo della sua discografia si tende a disconoscere parzialmente l’altro, o quantomeno a sopportarlo con quel sorrisetto stirato da non-capisco-ma-mi-adeguo, e questo fa sì che raccontare la sua storia da un punto di vista equilibrato sia sostanzialmente impossibile. Non tanto per la storia in sé quanto perchè gli strumenti cognitivi in nostro possesso non sono in grado di collocarlo in blocco dentro uno stereotipo, per quanto indicativo e aleatorio. Com’è potuto succedere che uno dei chitarristi più assurdi, allucinati ed incapaci della storia del rock sia diventato un marchio di eleganza e stile della musica bianca? O ancora meglio: com’è potuto succedere tutto questo senza che Arto Lindsay si sia mai preso il disturbo di imparare a suonare la sua chitarra?

È una storia un po’ bizzarra, e a dispetto della sua lunghezza (40 anni and counting) non contiene particolari appigli narrativi. Per convenzione utilizziamo il punto d’inizio più frequentato, una raccolta uscita nel 1978.

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All’inizio di quell’anno Brian Eno, uno dei produttori artistici più ascoltati e cool del momento, si trova a New York per registrare il suo primo disco assieme ai Talking Heads. Una sera, uscito dallo studio, gli capita di metter piede all’interno di una galleria d’arte in cui sta svolgendosi un festival di band indipendenti. Il cartellone mette in scena una dozzina di nomi in totale, divisi in più giornate: gruppi che pur suonando diversissimi l’uno dall’altro sembrano avere un sacco di caratteristiche comuni: musicisti ventenni o poco più, palesi pretese artsy, perizia musicale spesso dubbia. Tutti i gruppi sono sbilenchi e rumorosissimi, e tutti i gruppi vengono dai dintorni. Hanno nomi come Theoretical Girls, Gynecologists, Teenage Jesus and the Jerks, Contortions: Brian Eno esce di melone per la musica e si mette in testa di fare uscire un’antologia collettiva. L’etichetta (Antilles, divisione di Island) accetta ed Eno si chiude in studio con alcuni gruppi. Dopo una serie di discussioni e scremature, la lista delle band presenti nella scaletta del disco è stata ridotta a quattro nomi: Contortions, Teenage Jesus & The Jerks, Mars e DNA. Il disco si chiama No New York.

Da diverso tempo No New York è un disco obbligatorio, ma per una lunga fase il movimento a cui si prefiggeva di dare lustro (la no wave) non ha goduto di trattazioni particolarmente estese. Poi sono arrivati i duemila, le ristampe, l’internet e il culto, e cose come la retrospettiva di Mattioli su Blow Up 125/126/127 (anno 2008), da cui peraltro sto pescando a piene mani. Lo stesso No New York è un disco piuttosto controverso e disconosciuto sia dai gruppi inclusi (che lamentano la mano pesante di Eno nelle session di registrazione) che da quelli esclusi (che lamentano, beh, di non esserci). Più che la vetrina della no wave, No New York ne diventa la lapide. A dispetto di tutto, in ogni caso, No New York è uno dei culti del rock per antonomasia, e la classe intellettuale su cui punta i riflettori ha pochissimi eguali nella storia della musica occidentale. Da quel disco, e in generale dalla no wave, si inizia a parlare di gente come James Chance, Lydia Lunch, Rhys Chatham, Glenn Branca. E ovviamente di un nerd allampanato di nome Arto Lindsay, che canta (per così dire) e suona la chitarra (per così dire) nei DNA.

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Arto è nato a Richmond 25 anni prima, ma la sua famiglia si è trasferita in Brasile tre anni dopo, dove Lindsay rimarrà fino all’adolescenza. Arriva a New York assieme ad alcuni amici che hanno studiato arte in un college in Florida, intorno al ‘77. La città è sul lastrico, sventrata dalla crisi economica che ha falciato il mercato immobiliare, svuotato un sacco di appartamenti, alzato il numero di poveri in strada e il clima di tensione sociale. Intere zone di Manhattan sono precipitate nel degrado assoluto, le attività commerciali hanno tolto le tende, i loft del Lower East Side sono diventati una terra di conquista per una manica di sfaccendati che squattano i loft e li convertono in appartamenti/studio. Lindsay e compagni fiutano l’aria e si buttano quasi subito nella scena musicale: archiviata la prima stagione del CBGB’s, il punk sta cedendo il passo a forme di sperimentazione più radicali ed eccitanti. Gli amici di Lindsay formano un gruppo di nome Mars, di cui Lindsay sarà roadie; non ha un gruppo suo, e del resto non sa suonare uno strumento. Ma dopo un concerto dei Mars il gestore del Max’s Kansas City s’inchiacchiera con Lindsay e gli propone di far suonare lui e il suo gruppo il mese successivo: Arto accetta ed è costretto a formare un gruppo. Prende a bordo un performance artist di nome Robin Crutchfield e una ragazza giapponese di nome Ikue Mori. Neanche gli altri due sanno suonare (Ikue Mori non sa nemmeno parlare in inglese), ma si chiudono in uno stanzone e mettono insieme qualcosa. Si tratta di un pugno di quasi-canzoni, semimprovvisazioni dai ritmi frammentati, suonate a mille all’ora senza cura per il particolare: la band viene chiamata DNA e diventa quasi subito uno dei piatti principali della scena off del Lower East Side.

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Arto Lindsay è uno dei pochi musicisti di cui è sempre piacevole leggere un’intervista. Ha un atteggiamento piuttosto inusuale nei confronti della musica, né troppo serioso né troppo scanzonato. I decenni di militanza gli hanno dato più esperienza sul campo di quanta la maggior parte dei laureati al conservatorio potranno sperare di avere mai, ma è completamente digiuno delle più fondamentali nozioni musicali. Questo si ripercuote sovente in un atteggiamento molto serioso ed analitico nei confronti di certe minuscole cazzate, bilanciato da una gran nonchalance per questioni che altri considerano fondamentali. Quasi nulla nel mondo musicale di Arto Lindsay è scontato, quasi nulla è fatto per convenzione, quasi tutto ha una ragione biografica. Ripercorrendo all’indietro la sua carriera non è possibile trovare un punto d’inizio, un’epifania, un momento  in cui l’uomo inizia a ragionare in questi termini: per certi versi, anzi, i primi esperimenti musicali con i DNA si basano sullo stesso principio di scoperta costante che vent’anni dopo lo vedranno indottrinare decine di turnisti formatisi nei più prestigiosi conservatori al mondo. Nella sua visione gli stessi DNA sono un tentativo di ricontestualizzare la musica che lo aveva fatto uscire di melone da giovane (tropicalisti e cose simili) all’interno di un formato art-punk: testi in portoghese, tracce di batteria sono scopiazzate da dischi di alcuni eroi dell’infanzia del chitarrista. E in effetti a riascoltare il sopracitato DNA on DNA a distanza di qualche decennio dallo svolgersi dei fatti è abbastanza evidente che, dietro tutte le urla e le vangate, qualcuno in quella stanza sapesse cosa stava facendo, o che comunque ci fosse in ballo molto più che la classica espressione di rabbia e disagio con cui riempire le pagine delle punkzine. Lo stesso Lindsay negli ultimi anni del gruppo ha già evoluto il suo stile in una direzione ben precisa, ed estremamente sobria; le schitarrate sorde della sua Danelectro, per quanto scolorite nella melodia, hanno iniziato ad assumere un carattere ritmico che con un po’ di fantasia può essere utilizzata per mescolare le carte in ogni gruppo. Qualcuno a dire il vero ci aveva già pensato.

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“Non ho mai imparato a suonare. Lavoro coi campionamenti dall’84, e tuttora l’unica cosa che so fare con un computer è scrivere una mail. (…) Ho dovuto compensare a queste cose diventando bravo in altri campi, ad esempio imparando come si lavora con la gente e come convincere qualcun altro a fare quello che io da solo non saprei fare.”

La dichiarazione viene da un Q&A tenuto da Lindsay alla Red Bull Music Academy. Credo fosse lo stesso Brian Eno, più o meno negli anni in cui pubblicava No New York, a dire che il futuro della musica sarebbe stato in mano ai non-musicisti. Oggi sembra un’ovvietà: nella nostra epoca la tecnica, intesa come capacità di leggere e scrivere musica e/o allenamento fisico a suonare uno strumento, è comunemente intesa come un enorme limite al godimento, e persino alla capacità di interpretare, la musica. In effetti il passare degli anni ci ha costretto a fare i conti con l’evolversi dello stesso concetto in più generazioni. Un esempio banale: i primi esperimenti col giradischi, che poi si sono evoluti nell’hip hop, nascevano da un’idea musicale fatta in casa, che la maggior parte dei musicisti da strumento (conservatoristi o rockettari, poco conta) non riusciva manco ad intuire potesse richiedere qualsiasi tipo di abilità. Ma 20 fa, forse pure 30, nell’hip hop era già evidente una spaccatura tra i puristi del djing (inteso come abilità performativa generata da anni di pratica ossessiva) e gente che iniziava a comporre usando altre tecnologie. La stessa cosa è successa con generi tipo certe forme di rock dozzinale e/o con la musica fatta al computer (chi ascolta elettronica, tanto per dire, sa distinguere tra roba buona e roba di merda, e questa distinzione ha una base culturale abbastanza definibile). In questo senso dobbiamo arrenderci all’idea che tutta l’ideologia del non-musicista sarà destinata a naufragare in altre forme di, uhm, musicismo. Non è un problema la cosa in sè, ma il racconto di queste musiche (che quando escono sono, per loro natura, le più eccitanti su piazza) verrà necessariamente inchiodato, dal punto di vista storico, ai pochi mesi/anni in cui l’idea musicale su cui si basano non è ancora strutturata e di pubblico dominio. Così, ad esempio, quando oggi un musicista avant rock infila un cacciavite tra le corde della sua chitarra sappiamo che sta copiando qualcuno. O che ne so, un Greg Hetson che in American Hardcore dice “non ho mai imparato a suonare come Eddie Van Halen” non suona molto diverso dallo zio con la coda di cavallo che a un pranzo di matrimonio ti inchioda in una discussione sui Roxy Music.

Arto Lindsay che dice “non ho mai imparato a suonare” è una cosa diversa. Quel che sta dicendo è che a dispetto delle tante occasioni d’imparare e del senso comune associata a questa idea e dell’influenza delle persone attorno a lui, non è in grado di suonare il proprio strumento. Guardarlo suonare è più o meno come guardare mia figlia quando tenta di suonare il flauto dolce, o poco diverso. Il fatto che la suoni comunque, da quarant’anni, gli ha permesso di strutturare uno stile personale fatto di strappi controllati, che Lindsay ha imparato ad utilizzare con abbastanza parsimonia da dargli un’aria ricercata, ma non abbastanza da produrre imitatori. E in questo ha un profilo abbastanza anomalo, forse perfino fastidioso -se il pop fosse una città, Arto Lindsay sarebbe il matto della piazza o il professore di educazione fisica ipocondriaco che recita poesie al bar dei comunisti.

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È un po’ lo spirito con cui nasce il suo secondo gruppo. Mentre è ancora in giro con i DNA viene coinvolto in una specie di gag: un ensemble freejazz di musicisti in giacca e cravatta che fanno i fighi sul palco e contestualmente massacrano le orecchie di chi sta sotto. Il ruolo specifico di Lindsay è proprio rompere il cazzo agli altri membri del gruppo, intervenendo di quando in quando con le sue schitarrate assordanti: iniziano a suonare a nome Lounge Lizards e già ai primi concerti il pubblico ci va talmente sotto da trasformarli in un gruppo vero e proprio, con un contratto e tutto. Prima che chiunque possa chiedersi che cazzo stia succedendo i Lounge Lizards sono in studio con Teo Macero, che per capirci è il produttore di Kind of Blue, ma Lindsay sta già togliendo le tende, infastidito dal comportamento di John Lurie (che ha preso in mano le redini del progetto e sta per trasformarlo in una specie di solo act allargato). Assieme a lui uscirà il batterista Anton Fier, e i due daranno vita ai Golden Palominos. Che nel giro di un disco diventano per Fier quello che i Lounge Lizards erano per Lurie, e Arto toglie il disturbo.

È un periodo particolare per l’avant rock newyorkese. Il quieto scioglimento dei DNA, contemporaneo a questi eventi, è l’ennesimo funerale della no wave; il suo spirito resiste parzialmente in certe incarnazioni della mutant disco (cit) di gente come Liquid Liquid, e nel minimalismo noise rock dei progetti più organici di gente come Chatham e Branca, che comunque sono già un microuniverso a sé stante. Lindsay sta pensando di farsi il suo progetto solista, così da non farsi fregare il gruppo da sotto la sedia com’è successo per Lounge Lizards e Golden Palominos. La sua idea è di unire un po’ tutto quel che gira in città, minimalismo noise e mutant disco, aumentando il tasso di Brasile e magari iniziando a suonare e cantare come una persona normale. Fantastica persino di prendere qualche lezione di chitarra, un’idea che finirà nel cestino abbastanza presto. Ma i primi esperimenti con la voce iniziano a dare qualche risultato interessante. È ancora un guazzabuglio di idee, il cui potenziale esploderà all’incontro con il tastierista Peter Scherer. Scherer viene da un pianeta diverso da quello di Arto Lindsay: si è formato in Europa e ha fatto tutta la trafila del musicista classico; s’è trasferito a New York per studiare elettronica ed è finito nel giro di Ligeti e Nile Rodgers. L’alchimia tra i due è tale da convincere Lindsay a smettere le fantasie soliste e fondare l’ennesimo gruppo, che si rivelerà il più longevo della sua carriera.

Gli Ambitious Lovers Nella laconica definizione di intenti del cantante, “Al Green e samba”. L’idea alla base è quella di una specie di alternanza -anche piuttosto brutale- tra momenti di noise newyorkese e fughe di groove latino che al momento sono la cosa più quieta prodotta dal cantante, che per la prima volta può essere definito tale. Sexy Arto: un timbro eccitato e un po’ teatrale che blandisce l’ascoltatore, magari per prenderlo a mazzate il minuto successivo. Gli Ambitious Lovers hanno in mente un progetto poderoso: sette album, ognuno dedicato a un peccato capitale. Non andranno mai oltre al terzo, spompati dallo scarso successo commerciale e da questioni di mismanagement. La loro reputazione tra gli addetti ai lavori, però, si allarga a tal punto da far sì che alla corte di Lindsay e Scherer inizino a presentarsi turnisti e produttori artistici, alcuni per offrire aiuto e altri per chiederlo. E a un certo punto arriva Caetano Veloso.

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La relazione tra Lindsay e il Brasile è complicata. Nel 2004, l’anno in cui smette di incidere dischi a proprio nome, si ritrasferisce in Brasile; a un certo punto si sposta a Rio e comincia a farsi coinvolgere nella scena musicale locale. Prima di allora le sue frequentazioni sono da ascoltatore, e sebbene samba e derivati siano una costante di tutta la sua carriera -faceva sentire i suoi dischi preferiti ad Ikue Mori perchè copiasse le parti di batteria- per il chitarrista la musica si divide in quella di cui ha cognizione e quella a cui ha lavorato. Pur essendo un suo eroe giovanile, il lavoro di Lindsay su Caetano Veloso -che si è presentato alla porta degli Ambitious Lovers per produrre Estrangeiro– non ha niente del calligrafismo del musicista-barra-produttore che ha occasione di lavorare con un suo mito. Anzi, la mano di Lindsay e Scherer è piuttosto pesante, per certi versi non così diversa da quello che Arto faceva con i Lounge Lizards: porta se stesso e la sua idea di musica in una situazione per la quale teoricamente non sembra essere all’altezza, e a un certo punto si scopre che tutto funziona a meraviglia. Estrangeiro è un disco sensazionale: esce nell’89 e apre a Lindsay le porte del Brasile. Sciolta la partnership con Scherer comincia a lavorare da solo in veste di, boh, eminenza grigia. Un po’ produttore artistico, facilitatore, consulente, faccendiere, traduttore. Riesce a processare la musica di chiunque in un’idea personale, riesce a mettere la gente giusta al corrente di quell’idea, e alla fine ci tira fuori qualcosa di buono. È un punto di riferimento sia per gli occidentali in cerca di un boost tropicalista che per i mammasantissima brasiliani alla ricerca della grande occasione negli USA. È una fase fruttuosa: ad ogni nuovo lavoro guadagna contatti e street cred in entrambi i continenti.

Ma un ruolo da produttore in senso stretto non è fatto per lui: non sarà mai un Rick Rubin, in fondo, non ha quel tipo di senso del tempo. Forse è persino la sua incapacità a renderlo più adatto a un ruolo in primo piano. Avete presente John Lydon? Qualcosa di simile. Musicalmente quasi nulla in comune, ma entrambi hanno iniziato come ragazzacci, qualcuno ha cercato di inchiodarli a quell’immagine. E a un certo punto hanno pensato più in grande, e nessuno dei due ha mai imparato a suonare. Entrambi sono ideologi della musica, entrambi non hanno problemi a circondarsi di turnisti. Ma l’esposizione mediatica di Lydon nei primi giorni dei Pistols, e il ruolo generazionale che gli è piombato addosso, hanno reso praticamente impossibile al cantante inglese di diventare se stesso: per quanto si fosse curato di allontanarlo, Johnny Rotten è sempre comparso sullo sfondo della sua opera, e niente di ciò a cui Lydon ha lavorato dopo Flowers of Romance ha la radice quadrata dell’impatto culturale che ebbe a metà anni novanta l’annuncio della reunion del suo primo gruppo. Arto Lindsay in questo parte avvantaggiato rispetto a Lydon: il suo passato da terrorista sonoro è conosciuto ma non così ingombrante, ed essersi posizionato nella prima periferia del pop l’ha reso spendibile lungo tutta la carriera. Entrambi, in ogni caso, hanno esordito nello stesso periodo e seguiranno la loro parabola con risultati alterni, per lo stesso numero di anni. Fino ad andare incontro al loro destino, entrambi, nel ‘96. Per John Lydon è il momento della resa, della reunion del gruppo e del tornare ad essere quello che molti non hanno mai smesso di pensare di lui. Per Arto Lindsay è il momento in cui diventa Arto Lindsay.  

Sexy Arto è un fan della decontestualizzazione, come del resto Scary Arto, ma ha il vezzo intellettuale di sparire dentro la propria musica, un po’ come se stesse solo canticchiando sopra al rumore di tutte le cose. Il Sexy Arto degli Ambitious Lovers era un po’ limitato, non era arrivato a giocarsela come un carattere dominante, un po’ per via di Scherer e un po’ per via di Scary Arto. A vent’anni dall’inizio delle sue avventure discografiche, però, succede una cosa bizzarra: un’etichetta giapponese aggancia Ryuichi Sakamoto, il quale a sua volta aggancia Lindsay, per realizzare un disco di bossa nova da far circolare oltreoceano. Lindsay è solleticato dall’idea, e probabilmente in questa fase non ha nulla da perdere. Forse non ha le capacità per realizzare un classico disco di bossa nova in autonomia, ma la gente intorno a lui è motivata e lui ha la testa che scoppia di idee. La principale è quella di riagganciarsi all’idea originaria di “bossa nova”, e di quello che fu nella cultura brasiliana (una specie di samba meticcia sporcata di jazz e di altra musica occidentale), cancellarne quasi tutti gli aspetti musicali ed applicarla al pop dei suoi anni. Si immagina un disco molto rilassato, completamente privo delle asperità con cui ha sempre amato sporcare la musica. Si autoimpone di lasciare la chitarra dentro l’armadio e limitarsi a cantare le parti vocali, assieme al solito gruppo di turnisti che tesseranno le musiche. Per soddisfare le tentazioni rumoristiche e blandire l’ego di Scary Arto, lavora contemporaneamente a del materiale che andrà a comporre un secondo disco, fatto di chitarre durissime e brutali frammentazioni.

Uscirà prima quest’ultimo: si intitola Aggregates 1-26 ed è accreditato ad un fantomatico Arto Lindsay Trio. Gli altri due membri, oltre al chitarrista, sono Dougie Browne e Melvin Gibbs. Gibbs, bassista, è il più importante incontro musicale della carriera di Arto Lindsay. Ha un passato nei Defunkt e un presente da turnista che lo vede impegnato, tra le altre cose, nella miglior formazione di sempre della Rollins Band (quella di Come In And Burn). È già da tempo nell’orbita di Lindsay, ha lavorato con gli Ambitious Lovers e nei dischi prodotti da Arto, ma da qui in poi diverrà l’anima musicale della sua carriera solista. A cominciare dall’altro disco, quello di bossa nova per il mercato giapponese, che esce a stretto giro. Il nome in copertina per la prima volta è semplicemente Arto Lindsay, ed il titolo O Corpo Sutil / The Subtle Body. È l’esordio solista di Sexy Arto, e forse gli è uscito un po’ meglio di quanto si aspettasse.  

A riascoltarlo oggi, O Corpo Sutil, lo capisci subito che è un game changer. Dentro al disco esplode tutto quel che fino ad allora per Arto Lindsay era stato chiuso in una stanza di ipotesi, congetture e promesse mancate: chitarre morbide, percussioni latine, voci suadenti, elettronichina del cazzo, qualche cover in portoghese, tutto perfettamente amalgamato e  tutto di profilo bassissimo. Ma a stupire più che la musica è l’interprete: l’Arto Lindsay di O Corpo Sutil è talmente in parte da cancellare in via quasi definitiva il ricordo di qualunque altra sua incarnazione. A posteriori non stupisce né che abbia deciso di fare di O Corpo Sutil il primo disco a proprio nome, né tantomeno che in questa incarnazione Lindsay si metta a produrre dischi con una velocità che nessuno gli conosce. Sembra quasi posseduto: linee vocali appena accennate, o cover di vecchi standard brasiliani; Gibbs e gli altri ad arrangiare, qualche strizzata d’occhio alle ultime tendenze del pop (certa elettronica inglese, certi atteggiamenti da world music ad ogni costo), mai uno svacco, controllo totale dei propri mezzi. È così che un esperimento casuale di bossa nova diventa una striscia vincente lunga sei dischi, dal ‘96 al 2004. E poi, dopo Salt, semplicemente smette di pubblicare.

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La sera in cui lo vedo è al suo apice. Con lui ci sono Melvin Gibbs e Micah Gaugh (un musicista straordinario anche lui, un po’ un turnista e un po’ un arnese del giro avant rock, fa un paio di comparse anche con gli Storm&Stress): Gibbs è un armadio di due metri a sinistra del palco, l’altro swagga dall’altro lato con addosso gli occhiali da sole e una marsina. Gaugh piazza le basi, suona la tastiera con la sinistra e il sax con la destra. Gibbs spacca la gruva col basso. Arto imbraccia la chitarra, finge di suonarla mentre canta, di tanto in tanto schiaccia il pedale e fa partire un fischio. Non è tanto la musica, è che tutto quanto sembra teso coscientemente allo scopo di stare bene, e la sensazione s’irradia in giro per il teatro. A un certo punto ci chiede “are you beautiful?”. Non ho una risposta pronta sul momento. È solito chiederlo, scoprirò in seguito.

Da allora l’ho visto una dozzina di volte. Sembra avere un buon rapporto con l’Italia, qui è stato possibile vederlo con ogni tipo di formazione, compresa una puntata con orchestra di 50 elementi dietro di lui, una cosa che se non sbaglio fu organizzata da Angelica, nove o dieci anni fa (fu clamoroso). Sul mio calendario è segnato in rosso: ci si assicura di essere al concerto di Sexy Arto, tutto il resto può anche saltare. È un po’ un casino perchè il suo sito non è mai stato aggiornato. Sopporto anche le occasionali puntate di Scary Arto, invero ringalluzzito negli ultimi anni (se ne sta in giro a improvvisare con Paal Nilssen-Love alla batteria, dalla collaborazione tra i due è venuto fuori anche un disco). Anzi, durante l’assenza discografica di Sexy Arto, Scary Arto ha dato alle stampe il suo capolavoro. E anche qui penso sia successo un po’ per caso.

L’etichetta italiana Ponderosa s’è imbarcata nella selezione di una specie di best of di Arto Lindsay, intitolato Encyclopedia of Arto, anno 2014. Un opera non proprio sensatissima: pesca solo dai dischi solisti, tralasciando 20 anni di musica, e anche di quei dischi fornisce un ritratto falsato (cose come Mundo Civilizado hanno un equilibrio interno che va ben oltre la qualità dei brani ospitati). Poi qualcuno ha un’idea: prendiamo gli stessi brani e facciamo un secondo disco, inciso live, e suonato dal solo Arto Lindsay, chitarra e voce. Così succede che il volume 2 dell’Encyclopedia diventi una sorta di Scary Arto plays Sexy Arto. Incredibilmente, il disco sta in piedi: una delle più assurde e disturbate raccolte di canzoni folk mai sentite, roba che ricorda indifferentemente qualche bluesman scalcinato o uno youtuber particolarmente disturbato di mente. Lo vedremo anche dal vivo, più volte, ad eseguire i brani da solo nei tour successivi, col pubblico di fedelissimi girato di fianco a chiacchierare col vicino. Un killer.

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I miei dischi preferiti sono quasi tutti realizzati da gente con gravi psicosi e terribili drammi in corso. Le mie storie di musica preferite parlano di gente che a un certo punto ha trovato la quadra. Forse non sono un granché da raccontare, ma mi mettono in pace con l’idea che alla fine di tutto la musica possa davvero salvarci. In rarissimi casi qualcuno riesce a trovare la quadra e continuare a fare dischi bellissimi, e in quel caso -paradossalmente- non c’è molto di interessante da raccontare, è un po’ tutto alla luce del sole. Dopo quarant’anni di musica sali sul palco, guardi la tua chitarra e non hai la più pallida idea di come funziona. Sorridi un po’, qualcuno è venuto a vederti, forse a qualcuno di loro hai cambiato la vita, nel banchetto c’è un bel disco nuovo che è uscito da poco, il brutto è rimasto fuori dalla porta del locale. Il tizio alla tua destra fa partire la base, chiudi gli occhi, inizi a sussurrare qualcosa al microfono.

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Cuidado Madame è il primo disco di Arto Lindsay da 13 anni a questa parte. È uscito il 21 aprile, è meraviglioso, la recensione non ho voglia di scriverla.

(bandcamp)

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