100 canzoni italiane: LA CANZONE DEL SOLE

 

La prima volta che lessi di tutte le minchiate imposte da Battisti ai suoi dischi tardivi fu leggendo un articolo su Sorrisi e Canzoni o il Radiocorriere TV, che mio babbo comprava tutte le settimane -o uno o l’altro, mai tutti e due. O più probabilmente era su una di quelle riviste di moda con pretese minimal e colonne di testo striminzite su poderose distese di carta bianchissima che mi capitava di leggere dal dentista o dal barbiere mentre aspettavo il mio turno. L’anno era abbastanza evidentemente il 1992; dentro c’era un servizio sull’ultimo disco di Lucio Battisti, Cosa succederà alla ragazza. Non so dire di preciso a che stadio fossi con la mia cultura musicale ma sono certo che Battisti, già allora, non ne faceva parte.

 

Il servizio non era proprio un servizio sul disco. Era più che altro un elenco delle paranoie di Battisti per quanto riguardava la promozione del disco -o meglio: la risolutezza di Battisti nel proibire ogni tipo di promozione del disco. Il/la giornalista snocciolava qualche impietoso dettaglio, il racconto di una normale giornata negli uffici di -credo- Columbia. La scena è simile a quella di Johnny Cash che entra negli uffici della sua etichetta in total black, interpretato da Joaquim Phoenix. Anche il Battisti tardivo è abbastanza interpretato da Joaquim Phoenix; viene fatto accomodare nell’ufficio di competenza e consegna all’executive il nuovo disco con tanto di copertina già decisa -un foglio bianco del cazzo con sopra scritto a penna l’acronimo del titolo (C.S.A.R.). Clausola: la scritta dev’essere di quelle esatte dimensioni, in qualsiasi edizione del disco -quindi ad esempio il CD e la musicassetta dovranno contenere un ritaglio dell’immagine. Nessun tipo di promozione, niente pubblicità, niente promo radio né niente. E poi mi pare di ricordare che ci fosse qualche considerazione sul perché Battisti si ostinasse su questo silenzio stampa. Questo è più o meno quel che mi è rimasto in mente, e la memoria potrebbe tradirmi su uno o più dei punti di cui sopra. Non so se sia vero, e non credo di avere mai visto una copia fisica di CSAR in un negozio. In assenza di Battisti, comunque, i giornalisti si avventuravano saltuariamente nel racconto di come fosse impossibile fare un articolo su di lui e sul suo nuovo disco, nonostante all’epoca il cantanutore fosse ancora un punto di riferimento, forse IL, il nome a cui si pensa per primo quando si parla di canzone italiana. Ed oltre a questo era ancora uno dei cantautori più attuali, quelli la cui musica veniva più commerciata scambiata citata e discussa. Solo, non era la musica che stava facendo in quel momento.

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Dicono che i video musicali siano nati per una questione di convenienza: piuttosto che spedire un gruppo americano in Germania a promuovere il disco nei programmi del pomeriggio, li si filmava nella loro città e poi si spediva la pizza a tutte le redazioni del mondo. Oggi il video è considerato un mezzo di espressione cruciale ed è una cosa che viaggia per canali suoi, su piattaforme dedicate, e spesso si rivolge ad un pubblico di riferimento specifico, che se non hai fatto il video non ha interesse ad ammetterti dentro il suo orizzonte culturale. Qualsiasi innovazione tecnologica ha dato possibilità e ha tolto possibilità alla musica. Quelli che hanno attraversato più epoche musicali hanno la possibilità di scegliere se provare a vedere il futuro, vivere con gioia il presente o rimpiangere il passato. Ognuna di queste scelte ha pregi e difetti, non è che provare il futuro sia meglio che rimpiangere il passato -dipende più che altro da come la racconti. Molte persone per esempio hanno scoperto Battisti sfilando certi dischi pazzeschi dalla collezione del babbo, e questo ha contribuito a creare una cultura sotterranea di Battisti come una specie di corrispondente italiano dei Beatles, nel senso di dischi belli che erano già in casa nostra e che avremmo potuto apprezzare appieno solo nella maturità. Io questa cosa non l’ho mai avuta. Mio babbo non collezionava dischi, anche se tutto sommato era abbastanza un fan di Battisti, della sua percezione di Lucio Battisti (uno dei due cantanti che avevano rivoluzionato la musica italiana, come diceva lui) (l’altro era Modugno). Ma io personalmente ci sono arrivato in un modo più sputtanato. Una serata tra amici una chitarra e uno spinello, come cantavano gli Elio. Situazione boyscout/parrocchiale, divertimento coatto. Uno dei presenti possiede una chitarra acustica la sa suonare, gli altri scelgono le canzoni. Il repertorio rispetta due criteri: il chitarrista deve conoscere più o meno gli accordi della canzone, gli altri devono conoscere più o meno le parole. Negli anni trenta probabilmente si cantavano le canzoni fasciste o quelle degli alpini o gli stornelli di paese, poi è uscita La canzone del sole e credo che a quel punto sia cambiato più o meno tutto.

 

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Ho una storia punk-DIY su Lucio Battisti. Era un Italian Party, mi pare nel 2006. Gli Uochi Toki eseguirono un pezzo che a un certo parlava (male) di Battisti. E poi salirono i Fine Before You Came, che si dissociarono da quello che avevano detto gli Uochi Toki su Battisti. E poi salirono gli Anna Karina che si dissociarono dal fatto che i FBYC si erano dissociati. A un certo punto suonavano anche i Canadians, ma probabilmente a loro di Battisti non fregava un cazzo e non dissero nulla in merito. Fine della storia punk-DIY su Lucio Battisti.

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Non ho una grandissima opinione della musica di Battisti, sono disposto a riconoscerne le indubbie qualità musicali ma non è mai stata roba mia. Nel corso degli anni ho ascoltato praticamente tutto quel che ha fatto, senza tirarci mai fuori un disco da isola deserta. Certo come tutti sono stato spazzato via dal primo ascolto di Anima latina, ma al quarto ascolto ne avevo a basta. Preferisco piuttosto alcune cose dei dischi di pop espressionista che l’hanno seguito -a me sembra roba espressionista, magari è postprogfusion ripensata, non mi interessa, non è roba mia. Ne sento l’eco, come più o meno tutti, in certe espressioni di canzone italiana evoluta del sottobosco italiano attuale, ma personalmente intuire echi tardobattistiani nella musica attuale significa quasi automaticamente prendermi male per un disco -Iosonouncane, Sinigallia, quella roba lì che piace a tutti gli indiesnob: ne riconosco volentieri le qualità ma non ce la faccio, davvero, mi sento culturalmente spompato dopo il terzo minuto. Però Battisti mi piace un casino. Se si parla di Battisti mi prendo istantaneamente bene. La ragione è extramusicale: l’epopea umana e legale di Battisti da metà anni settanta in poi, che immagino sarete d’accordo nel definire uno dei più esaltanti viaggi alla scoperta di sé che la canzone popolare italiana abbia mai conosciuto.  

Mio babbo diceva che Battisti lo avevano tagliato fuori perchè era di destra. Io a quei tempi non ne capivo moltissimo di politica ma Battisti usciva fuori anche dai tombini, quindi boh. Credo che mio padre parlasse di una sorta di confronto sociale di cui c’era una percezione reale anche nei contesti più paciocconi e bonari dell’Italia di quegli anni, tipo la Romagna Che Lavora. Negli anni a venire ho letto dicerie sul fatto che Battisti non fosse fascista, e sembravano più o meno fondate quanto quelle sul fatto che fosse fascista. Pare che lui non avesse mai voluto chiarire l’equivoco per fare sì che fosse la sua musica a parlare. Non so se sia stato il primo a dire questa cosa ma negli anni successivi è una cosa che s’è sentita dire parecchio, e quasi sempre a sproposito. Ma applicata a Battisti diventa anche e soprattutto uno specchio degli anni in cui queste dicerie serpeggiavano e definivano una parte della fascia d’ascolto, inevitabilmente segnata da un’appartenenza politica/ideologica/mentale: se qualcuno non c’era dentro non era nemmeno da prendere in considerazione. Oggi siamo molto migliorati sotto questo aspetto: i blocchi mentali sono stati sostituiti dalla cultura dell’inclusività, dall’idea che va bene tutto o che tutto può andare bene, niente viene tolto dal discorso a prescindere. L’orizzontalità, dal punto di vista politico, ha enormi vantaggi e svantaggi: il dialogo coinvolge tutti, ma bisogna parlare una lingua un po’ più semplice, e a forza di insistere su questi concetto siamo arrivati a dire le stesse cose che si dicevano nel 1934.

Non so se l’avesse previsto o meno, ma Battisti ha scelto di non far parte di questo giochetto. Di lui, da un certo punto in poi, si conosce soltanto una serie infinita di rifiuti e porte chiuse. La sua sparizione è tutt’altro che un capriccio, un processo di chiusure progressive e sempre più evidenti che culmina in uno stato di reclusione autoimposto dall’80 in poi -grossomodo, il periodo in cui smette anche di collaborare con Mogol. La sua morte arriva più o meno in sordina una quindicina d’anni dopo, e da lì in poi la sua eredità artistica e commerciale è gestita da Velezia/Grazia Letizia Veronese, che da decenni si muove con un accanimento allucinato per impedire che la musica e il nome del marito siano utilizzati in-qualunque-contesto.

A un certo punto della nostra storia il cantautorato e la musica pop erano più o meno la stessa cosa, una cosa che i barbogi di quella generazione continuano a sbattere in faccia a tutte le generazioni successive alla loro, più o meno come i barbogi inglesi continuano a rompere il cazzo con gli Zeppelin e gli Stones. Aaah, il FABER. Aaaah, LUCIO DALLA. Aaaaah, BATTISTI. Forse le cose a quei tempi erano davvero diverse, i musicisti volevano fare le canzoni, e magari avevano una vocazione maggioritaria -arrivare al pubblico grosso, posizionarsi sulle mappe della cultura, qualcosa del genere. Forse per la loro epoca erano dei rivoluzionari, ma fuori dalla stagione più eccitante -che io personalmente non credo di aver vissuto- sono stati inchiodati da una storiografia del cazzo, da una critica che forse non era così capace di pensare (o pensarsi) in grande, di superarli (o superarsi). Il risultato è che ancora oggi la stampa istituzionale continua ad essere pimpante e sul pezzo quando escono i remaster di certi classici del rock o i pezzi risuonati di De Gregori, e giudica tutto partendo dall’assioma che tutta la roba figa sia già successa. Ma bene o male, per quanto riguarda la maggior parte dei cantautori, la base è comunque una storiografia classica: magari era un’analisi critica muffosa datata e poco lungimirante, ma era comunque un’analisi critica, un tentativo di parlarne seriamente. Lucio Battisti invece ha conosciuto lo step successivo di questa cosa, che secondo il canone corrente è l’onore più alto che si possa concedere alla musica: la gente canta le sue canzoni in cerchio attorno a un fuoco, sbaglia i ritornelli, sbaglia l’entrata sulla strofa (“Le biciclette abbandonate sopra il prato e poi è impossibile da infilare bene se la state cantando in 30). La sua roba viene tramandata anche attraverso le musiche nei giochi dei programmi di famiglia, quelli di Michele Guardì tipo. Le canzoni di Battisti sono anche musiche d’attesa nei centralini, infinite versioni-presaperilculo degli originali, cover di merda, jingle un po’ cambiati per gli spot. Non sono in molti a vedere la loro musica diventare questa roba qui. Credo che Battisti non fosse preso particolarmente bene di questa cosa.  

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Non è stata la mia generazione a sdoganare la cultura di massa, noi siamo solo riusciti a sovrinterpretare il lavoro critico della precedente. La cultura pop è affascinante, coinvolgente e a buon mercato: è il suo lavoro. Ma trarre piacere da espressioni culturali non-pop, una volta finiti dentro ai processi mentali del pop, è quasi impossibile, può succedere solo dopo aver compiuto uno sforzo intellettuale che col passare del temop è sempre più faticoso. Io ad esempio non ho più la forza di guardare i film dove non succede nulla. Ho avuto una fase di amore assoluto per quel tipo di cinema statico e contemplativo, ma a un certo punto sono riuscito ad inserire certi registi in quel discorso -che ne so, John McTiernan- e dieci anni dopo non riuscivo più a guardare un film senza omicidi. Il mondo ha seguito la stessa parabola in ogni campo, ma oggi persino John McTiernan non riesce più a girare dei film. Pensate solo a come sono strutturati i principali organi di diffusione culturale oggigiorno: non so voi, ma a me non capita mai di vedere una rivista e non sapere chi sono le persone di cui si parla negli articoli principali. L’algoritmo di Facebook predilige le discussioni vivaci, che all’atto pratico sono quelle in cui tante persone hanno già un’opinione. Su Twitter hai 140 caratteri a disposizione per far passare un concetto. Su Instagram funziona la piccola invenzione: dieci buone idee piuttosto che una geniale. Decenni col vento in poppa su questa impostazione hanno fatto sì che la “popolarità” di una cultura diventasse una specie di dogma: le statistiche servono a certificare la bontà dei prodotti. Non è una cosa di internet, in ogni caso. Per quanto potessi rendermene conto nei primissimi anni novanta, l’ostinata assenza di Battisti era considerata il vezzo di un eccentrico scoppiato che poteva permettersi di campare coi diritti d’autore. Ma Battisti per sparire ha fatto sostanzialmente tre cose: si è chiuso dentro una casa, ha fatto crescere la siepe attorno al cancello e ha smesso di rispondere al telefono. Oggi una sparizione alla Battisti non potrebbe nemmeno essere pensata, è proprio diverso il meccanismo della presenza -e quindi dell’assenza. .

(nel momento in cui scrivevo questo passaggio, Guè Pequeno stava facendosi una raspa su Instagram Stories)

La cosa più fascinosa della Canzone del sole è che il suo testo ha travallato quarant’anni oltre il contesto sociale e politico che l’ha concepita. La canzone del sole ha uno dei testi più sgradevoli della storia: un maschio descrive la difficoltà di accettare la crescita sessuale (e intellettuale) di una sua fiamma di quando erano quasi-bambini. Probabilmente già all’epoca era un testo piuttosto indietro, che trova una blandissima giustificazione culturale se lo si guarda da un’ottica impersonale -cioè se si pensa che Mogol non stesse parlando di se stessi ma criticando gli altri. Quello che è stupefacente è ciò che è successo unendo il testo agli accordi: il fatto che fosse una sequenza così facile da imparare per i chitarristi alle prime armi, ha fatto sì che La canzone del sole entrasse a far parte di una hit parade da oratorio che dopo 40 anni e passa è ancora lì a dar mostra di quella stessa sessuofobia. Ma per contrappasso molti membri dell’intellighenzia culturale italiana dal ‘72 in poi sono riusciti a limonare duro per la prima volta in situazioni da oratorio, magari appartandosi mentre gli altri continuavano a cantar Battisti -e questo ha posto le basi del superamento di quella stessa sessuofobia, di quel maschilismo represso e a buon mercato, inaugurando un processo culturale che ci ha portato all’account Instagram di Guè Pequeno. Ok, forse è un volo pindarico, ma questa è 100 Canzoni Italiane e da quando ho iniziato a farla ho imparato una cosa sola: le canzoni che hanno definito la storia di questo paese, l’hanno fatto per puro caso.

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Girava questo libro con gli accordi e i testi delle canzoni, serviva fondamentalmente a creare coesione all’interno dei gruppi cattolici. Le selezioni all’interno di questo libro definivano il grosso del repertorio che veniva cantato in cerchio assieme agli altri mangiatori di ostie/abbracciatori di alberi. Nessuna di quelle canzoni ha la forza sufficiente a mantenere intatto il proprio fascino dopo essere aver subito il trattamento del coro. Ad ognuna di queste canzoni riesco ad assegnare un punteggio nella Scala Cric. La Scala Cric è una scala decimale che stabilisce precisamente l’entità della voglia di prendere un cric e distruggere cose nel momento in cui quella canzone inizia a venire diffusa. La Scala Cric va da 0 Cric (Robert Baden-Powell) a 10 Cric (Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia). Una rapida carrellata di alcuni dei principali successi da campeggio in Scala Cric:

Nomadi, Io vagabondo: 10 Cric

(Probabilmente Io vagabondo è la canzone italiana che odio di più in assoluto, il più scalcinato e depresso pezzo d’immaginario che la controcultura italiana abbia mai prodotto. Contiene in sè quasi tutte le premesse che portarono alla svolta della Bolognina e a tutte le svolte successive, e non a caso resiste ancora -e anzi prospera- nei pianobar delle poche feste dell’Unità rimaste.)

 

Vasco Rossi, Colpa d’Alfredo: 6 Cric

(Vasco Rossi è probabilmente l’unico artista italiano la cui musica è meglio cantata nei cori della parrocchia che in qualsiasi altro contesto, ma non so decidere se questo sia un merito o una colpa)

 

Francesco Guccini, Canzone per un’amica: 4 Cric

(in parrocchia non la si riusciva mai a finire perchè qualcuno pensava portasse sfiga, e questo le ha permesso di rimanere quasi sopportabile)

Fabrizio De Andrè, Il pescatore: 6 Cric

(a dispetto di dieci anni di anticlimax personale col FABER si salva, relativamente parlando, perchè la maggior parte della gente, me compreso, non aveva la più pallida idea di che cazzo parlasse il testo)

 

Fiorella Mannoia, Il cielo d’Irlanda: 9 Cric

(a dispetto della relativa giovinezza della canzone è una delle più insopportabili per via del mirabile mix di pacifismo, terzomondismo, luoghi comuni e quel terribile skill della Mannoia di cantare laggata di 4 microsecondi rispetto alla base)

 

883, Come mai: 7 cric

(la mia incondizionata adorazione per i primi 883 non basta a cancellare il ricordo di quella cazzo di overdose da Come mai che fu l’estate del ‘93, prontamente riversatasi nel repertorio del coro parrocchiale)

 

Marco Ferradini, Teorema: 3 cric

(salvata da questioni di epica intrinseca, per via di tutta la storia della meteora-Ferradini. La svolta telefonatissima della terza strofa ha impedito che diventasse un inno machista e un po’ mi dispiace)

 

Edoardo Bennato, Il gatto e la volpe: 9 cric

(Bennato è presentissimo in questi contesti corali: almeno L’isola che non c’è e Sono solo canzonette fanno parte del repertorio hardcore dei cori parrocchiali. Questo la dice lunga sul disimpegnato cattocomunismo intrinseco alla sua opera, di cui del resto Sono solo canzonette è l’inno ufficiale, spero di parlarne per esteso prima o poi. Ma Il gatto e la volpe è comunque una classe a parte del fastidio)

 

Dario Baldan Bembo, L’amico è: 8 cric

(questa fu pensata scientificamente per finire in contesti di volemosebbene collettivi, contiene ogni ingrediente pensabile per renderla un inno alla cooperazione e al pensare positivo, compreso il geniale O-O-O-O-O-O-O che la rende cantabile anche allo stadio. È talmente spudorata che quasi si salva, quasi)

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La canzone del sole arriva a 6 cric.

 

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Copio due righe che avevo già scritto tempo fa: l’espressione “diritto d’autore” oggi identifica non tanto i diritti di un autore in merito alla sua opera, quanto piuttosto una somma di denaro che viene versata all’autore perchè non eserciti il proprio diritto morale sull’opera stessa. Il tacito accordo sulla musica che i cantautori del livello di Battisti sottoscrivono si basa su una prassi secondo cui io ti verso dei soldi (pochi o tanti, a seconda) e tu non mi rompi il cazzo su come uso la tua musica. Succede in generale con tutte le questioni editoriali: se una rivista ti commissiona un articolo in cambio di una somma di denaro -spesso offensiva, boh, 30 euro lordi- a un certo punto esce fuori l’espressione “cessione dei diritti”. Non ci si guarda mai di fino, è burocratese, ma è anche un po’ agghiacciante. Nel momento in cui Grazia Letizia Veronese si scaglia quasi aprioristicamente contro qualsiasi utilizzo dell’opera del marito si fa carico di una visione alternativa, quella secondo cui un autore potrebbe esercitare un proprio diritto su un’opera, e potrebbe farlo a prescindere da quanti siano i soldi in ballo. La causa tra Mogol e Acqua Azzurra viene raccontata spesso dai cronisti in termini di sostanziale incredulità: più che dare il conto delle ragioni di una e dell’altra parte, si tende a fare un tendono a scagliarsi sull’assurdità dei veti posti da Velezia, o si appellano al sacro bisogno di non dimenticare l’eredità storica di Lucio. Ma forse Battisti aveva visto prima di tutti dove cazzo va a finire tutta questa roba, e se vi è capitato di guardare i tributi al FABER sapete già che è un posto bruttissimo. Io per sicurezza farei due passi indietro, tutti quanti.

3 thoughts on “100 canzoni italiane: LA CANZONE DEL SOLE”

  1. No, ma scrivilo un post lunghetto qualche volta. Comunque temevo l’arrivo di un post simile da anni. Per fortuna ce lo siamo tolti.

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