Federico Pucci
Il mercato si regola da solo, è una massima che viene estratta — a quanto mi risulta — dall’opera dell’economista americano Premio Nobel Milton Friedman. Non ho mai letto un libro di economia, ma uno dei miei primi ricordi musicali è una battaglia contro il Capitale portata avanti dalla mia band del cuore quando ero ancora un pischellino. A metà anni ’90 i Pearl Jam lottarono contro il monopolio di Ticketmaster, in particolare per il loro controllo sui prezzi dei biglietti, finendo scornati con un tour nella periferia degli Stati Uniti. Le discussioni sul costo dei biglietti dei concerti mi sono sempre risultate un po’ ostiche: da una parte non ho alcuna conoscenza in campo economico e vivo distaccato dalla plebe nel mio mondo di accrediti; dall’altra mi sembra che l’approccio populista rischi di prevalere, propugnando l’idea che uno spettatore o un giornalista (cioè, spesso, nient’altro che uno spettatore dotato di diritto di parola a mezzo stampa) si intendano profondamente del meccanismo finanziario che sta dietro la produzione e promozione di un evento dal vivo. I promoter sanno quel che fanno, no? Il mercato si autoregolerà. Per niente, e il casino si è manifestato con il bubbone del “secondary ticketing”, scoppiato a novembre 2016: a quel punto, il ticketing non era più argomento da specialisti, frequentatori compulsivi di concerti e addetti ai lavori, ma oggetto di chiacchiere da bar. E dopotutto, nei siti come Seatwave, Stubhub e Viagogo a spopolare non sono live clandestini accacì sui palchi affollati di un centro sociale, ma i grandi eventi del pop italiano e internazionale che passa su RTL, per intendersi, tipo il concerto dei Coldplay a San Siro da cui è partito tutto*.
Uno degli adagi vagamente assolutori che sono girati in questi mesi è “se la gente è abbastanza pirla da pagare 300 euro per un biglietto dei Coldplay su Viagogo, affari suoi”. La logica, di nuovo, era che il mercato in qualche modo si sarebbe regolato da solo. In realtà, fortunatamente, sono arrivate leggi che prevedono multe e oscuramenti di siti, sanzioni che forse hanno preso di mira i bersagli errati tipo Ticketone, e iniziative come i biglietti nominali che ad esempio la Barley Arts di Claudio Trotta ha fatto debuttare per il concerto dei Queen con Adam Lambert. Dall’altra parte dell’oceano Ticketmaster (che dal 2014 è proprietaria del sito di bagarinaggio Seatwave e nel 2010 si è fusa con il colosso della produzione Live Nation) ha deciso di arginare questo fenomeno con un programma chiamato #VerifiedFan: attraverso codici che si possono ottenere solo tramite iscrizione al sito, il gigante del ticketing ha cercato di arginare i bot che portano biglietti sulle piattaforme di rivendita, un problema particolarmente sentito per i concerti di grandi artisti come Bruce Springsteen, ma anche per eventi ambitissimi come il musical Hamilton di Lin-Manuel Miranda, giusto per citare due dei pochi che finora hanno aderito.
Dopo aver annunciato il suo ritorno con un singolo bruttino e slegato che dissa Kanye West, cita ‘I’m Too Sexy’ e professa la morte della vecchia sé stessa, Taylor Swift ha deciso di scendere in campo contro il secondary ticketing a proprio modo. Reduce dal record di 215 milioni di dollari incassati per The 1989 World Tour e in attesa del prossimo giro del mondo, la popstar ha stretto un accordo con Ticketmaster per la diffusione dei suoi biglietti tramite il programma #VerifiedFan, con qualche significativa correzione nel senso di un’avidità palese e francamente oscena.
La musica è un lavoro, un’economia, ma se perfino quel ricettacolo di tecnologie cool e inutili di Mashable chiama questo accordo una “truffa”, c’è da riflettere.
Spiego bene: per poter acquistare i biglietti del prossimo e non ancora annunciato tour di Taylor Swift bisogna registrarsi al sito Taylor Swift Tix, e fin qui tutto uguale alla solita procedura #VerifiedFan.
Per chiarire subito un possibile equivoco, Taylor Swift Tix non è progettato per servizi premium tipo meet&greet, è semplicemente l’unico portale di accesso per l’acquisto. Nei mercati K e J-pop sono diffuse pratiche rivolte all’engagemente dei fan, possibilmente tramite acquisto di più copie di un album con la chance di vincere codici speciali per poter incontrare i propri artisti del cuore. Il sito qui invece parla chiaro: attività speciali e meet&greet saranno regolate in seguito, prevedibilmente con la consueta soluzione commerciale, cioè pacchetti più costosi e a numero chiuso. Comunque, per accedere alla possibilità di comprare biglietti (uff, è lungo da dire) ci sono attività «fun» la cui esecuzione comporta un aumento delle proprie chance, una vera e propria crescita del proprio status. Qualcuno ha detto gamification? Forse, ma nessuno ha spiegato esattamente quali coefficienti determinino la crescita del proprio status, detto anche “boost”.
Quello che si sa è che l’attività privilegiata per ricevere un “boost” è l’acquisto in pre-order del nuovo album Reputation, possibilmente in formato fisico e con consegna UPS (Taylor Swift ha stretto un accordo anche con loro). Cosa impedisce a qualche malintenzionato di comprare decine di album per drogare il sistema? Tranquilli, c’è un tetto: TREDICI album per ciascuno. Dicevo delle lotterie coreane e giapponesi: in Giappone, ad esempio, il mercato dove in assoluto la musica su formato fisico tira di più al mondo, spesso l’incentivo per acquistare più di una copia sono booklet e artwork alternativi, o altri cazzilli variegati inseriti nelle confezioni. Attendiamo di sapere se e come l’artista americana premierà i fan che avranno acquistato 13 copie del suo disco. Un’altra attività “fun” è comprare merchandising autorizzato della serie #TaylorSwiftTix: chi più ne compra, più chance ha di poter comprare un biglietto. Sfortuntatamente per i genitori che avranno già speso 200 euro di copie di un cd, il campo del merchandising non conosce limite: chi vorrà comprare mille t-shirt, potrà farlo. Con tutta questa ROBA di Taylor Swift prodotta, venduta e consegnata da UPS ho come l’impressione che i regali di Natale a tema Taylor Swift saranno molto popolari.
Questa è sicuramente la parte più scottante, quella che dispiega una logica perversa secondo la quale la possibilità di acquistare un biglietto è qualcosa da meritarsi pagando un obolo all’artista. Ma per ricevere un “boost” ci sono anche quelli che chiamerei «lavoretti senza budget», iniziative di engagement gratuite che probabilmente molti fan avrebbero compiuto a prescindere: postare ogni giorno su diverse piattaforme social una notizia con apposito hashtag, possibilmente con una foto del furgone sponsorizzato UPS (non è dato sapere come sarà fatto, ma il sito assicura che “quando lo vedremo passare lo riconosceremo”). Un’altra tecnica, che risale ai gloriosi tempi del marketing multi-level, o vendita piramidale, è quello di far iscrivere al portale Taylor Swift Tix amici e familiari: il codice si può condividere una volta al giorno, ma non si parla di limite di iscrizioni, quindi preparatevi a essere impezzati. Infine, ultima tecnica a sbafo, si può guardare fino a 5 volte al giorno il lyric video sul portale: ma attenzione, senza skippare, ché Taylor vi osserva (davvero, il sito dice che il videoclip va visto dall’inizio alla fine, mi chiedo se controllino anche il volume come alcuni pre-roll inquietanti).
«Allora vedi, ci sono tanti modi gratuiti per poter comprare i biglietti!». Certo, però il “greatest boost” resta comprare il disco, e così il numero 1 dell’album in tutte le classifiche è assicurato.
«Vabè, ma mica sarà obbligatorio?». No, ma è caldamente consigliato: come le microtransazioni di molti videogame, che non sono necessarie e rompono le palle a tutti, ma fanno comodo e così fatturano comunque centinaia di milioni di euro all’anno solo in Italia.
E tutto questo solo per poter comprare un biglietto, ripeto, non per meet&greet e altri servizi premium, che si pagheranno a parte. Ma che vuoi che sia? Non si scatenerà una corsa al biglietto per la popstar più popolare al mondo! Ah sì, perché la truffa di Taylor Swift Tix vale anche fuori dagli USA, ma non è ancora chiaro dove. Forse anche in Italia, dove il precedente The 1989 World Tour non è passato, e dove già da gennaio si attende il debutto di Ticketmaster Italia?
Tornando al principio del discorso, non avrei problemi a veder sobbollire nella loro idiozia i fan disposti a pagare centinaia di euro per poter avere l’umile privilegio di comprare un biglietto: che mi frega, in genere io a questo tipo di concerti vengo accreditato per lavoro. Quello che mi turba è la possibilità che il modello funzioni e si trasformi in un’arma pericolosissima per la diffusione della musica. In questo modo i bagarini sono combattuti con le loro stesse armi: esclusione e prezzi alti. Si gioca sull’idea che i veri fan siano disposti a tutto pur di vedere la loro icona, ed è vero, ed è — diciamo — bello, o affascinante, è ciò che rende la musica così vicina ai culti religiosi e così distante da tutte le altre forme d’arte. Eppure un limite deve esserci, e la truffa di Taylor mi lascia intravedere un mondo in cui la musica dal vivo è cosa per pochi, abbienti e fanatici, e sempre meno un’esperienza condivisa, la chiave di volta di un “poptimismo” che mi pare sempre meno dominante.
Alla fine i Pearl Jam sono tornati a farsi vendere i biglietti da Ticketmaster, si fanno produrre i concerti da Live Nation, e riempiono arene e stadi.
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*Quest’estate sono andato alla prima delle due date al Meazza dei Coldplay: fuori dai cancelli ho intervistato 20 persone a caso e nessuna mi ha detto di aver nemmeno visto i siti di secondary ticketing. Al di là del campione statistico insignificante, mi chiedo: il bubbone era una bolla? O la gente paga centinaia di euro come votava Berlusconi e prima ancora la DC?