Due anni fa, a natale, ho ricevuto in regalo una ortenna d’oca. Nella mia famiglia acquisita c’è questa tradizione dell’aprire i regali di natale, è una tradizione che alcuni membri prendono con più serietà di altri ed occupa almeno una giornata. Nelle famiglie c’è spesso questa compresenza di caratteri umani intorno alla festa di Natale: c’è quello che ostenta il suo disprezzo per ogni cosa ad esso legata, e quello in genere sono io; c’è quello che ama cucinare, c’è quello che fa i bigliettini particolari (e quello sono sempre io), c’è quello che ama impacchettare e c’è quello che è specializzato nei regali ampollosi. Ad esempio, recentemente ho manifestato un qualche interesse per la scrittura a mano e questo mi ha portato in casa un sacco di queste cose –inchiostri forse pregiati, set di scrittura confezionatissimi, quaderni di pergamena old skool e una penna d’oca. Su Amazon sta tra i 40 e i 50 euro, è roba molto costosa insomma. Ma non è tanto il valore monetario dell’oggetto, è anche altro. Da bambino mio babbo ne aveva una, di penna d’oca, e mi ci faceva giocare, e forse una parte della mia spinta iniziale legata allo scrivere è dovuta alla bellezza di quell’oggetto e al privilegio di poterlo usare.
Poi vabbè, mi piacerebbe poter dire di averla stra-usata, la penna d’oca, ma guardando al biennio passato non l’ho fatto molto: di tanto in tanto la tiro fuori, più che altro, per non raccontarmi di avere strusciato un bel regalo che mi è stato fatto con il cuore. Non è che sia malfunzionante o che, anzi ha una bella gestione del peso, è più che altro un sentirsi imbarazzati per l’utilizzo, e quando hai uno strumento costoso in mano sembra sempre che tu debba vergare i versi della Divina Commedia e insomma non è il caso.
(strusciare è il romagnolo per descrivere uno spreco di procedura –se per produrre un bene servono 10x e io impiego 11x, ho strusciato x).
Ma se avessi dovuto comprare una penna d’oca a quel prezzo, non l’avrei mai fatto. Non voglio imporre la mia idea al resto del mondo, è una scelta personale, ma se penso che con gli stessi soldi avrei potuto comprare una riserva semestrale delle penne e degli inchiostri che utilizzo abitualmente per fare schifo nell’arte millenaria della scrittura manuale, e fissarsi con le penne d’oca è come minimo una forma di consumo inefficiente. Ecco tutto. L’anno scorso a natale ho potuto sperimentare questa allegra circostanza: invece della penna mi hanno regalato un buono di X euro da spendere in cartoleria, facendomi felice come un bambino. Il tizio voleva appiopparmi una stilografica col manico di osso di vigogna, ma non se ne parlava nemmeno.
Questo non toglie che la penna d’oca abbia comunque una ragione di esistere: è un bellissimo oggetto da regalo, fa figura e in una certa misura ha un mercato che prospera, nel senso che è ragionevole pensare che una grande città possa dare da vivere ad un negoziante che tenga nel negozio solo penne d’oca ed altri strumenti per la calligrafia di valore più estetico che tecnico. Ed è parimenti possibile che le caratteristiche di fisicità elastica della penna d’oca le permettano un uso non completamente identico a quello delle cannucce di plastica, e quindi una potenzialità radicalmente diversa in certi campi dello scrivere. E queste caratteristiche intrinseche all’oggetto possono sposare in maniera fruttuosa certe questioni ideologiche che in potenza possono produrre una letteratura qualificata -articoli che lodano e promuovono l’utilizzo di penne d’oca, sapendo più o meno di cosa stanno parlando e dando conto di una dimensione tutt’altro che banale. E a parte questo, è possibile produrre lavori calligrafici di valore artistico altissimo, impareggiabile, lavorando soltanto con una penna d’oca -magari autocostruita.
Questo però non è esattamente il mondo. Nel mondo si stanno affrontando temi di respiro vagamente più universale: ad esempio le persone scrivono sempre meno con la penna, e sempre più con il computer, e questo sembra avere implicazioni molto pesanti nel lungo periodo. I bambini introdotti molto presto alla scrittura digitale apprendono in modo diverso dai bambini che vengono tenuti lontano dai computer, e il potenziale è diverso. Attenzione: non si tratta di capire quale dei due approcci sia meglio dell’altro. Si tratta piuttosto di capire come affrontare da un punto di vista istituzionale le evoluzioni del sistema educativo. Ad esempio, mia nipote frequenta il liceo scientifico e si confronta quotidianamente con i compagni sui compiti, via Whatsapp, si mandano le foto delle soluzioni ai problemi, i dubbi, gli screenshot delle regole da ripassare e cose simili. Una domanda plausibile: si può, in queste condizioni, continuare ad insegnare facendo finta che gli smartphone non esistano? Non conviene investire su un’idea diversa di insegnamento, che abbia meno a che fare con lo sviluppo delle conoscenze individuali e più con lo sviluppo degli skill che serviranno a realizzare lavori collettivi? E fino a che punto conviene abbandonare l’impostazione scolastica tradizionale? Non ne so nulla, ma immagino la scienza dell’educazione sia squassata alle fondamenta da domande di questo tipo. Puoi evitare di portele ma è sicuro che un giorno dovrai pagarne lo scotto.
Viceversa, il mondo di cui sopra è colpito in maniera molto marginale dalla rimonta della penna d’oca. La si può utilizzare per farci cose bellissime, ed è piacevole leggere/scrivere qualche articolo che parla di realtà indipendenti che producono penne autocostruite o disegni realizzati a penna d’oca, in numeri che a volte permettono addirittura di farci qualche soldo alla fine del mese. Fa piacere sapere che la penna d’oca ha ancora una sua ragion d’essere. Basta mettersi d’accordo sul fatto che la penna d’oca non è il futuro della scrittura, che non lo sarà nemmeno tra cinque anni e che non c’è niente di drammatico in questa cosa.
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(Ultimamente capita di leggere articoli sempre più esaltati e presi bene in merito al ritorno in pompa magna delle audiocassette)
Non c’è traccia di paradossi, mi pare. Clickbait?
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