100 canzoni italiane: AD OGNI COSTO

Se mi si parla di canzoni inglesi riproposte in italiano da un artista nazionale, io penso ad una pratica comune negli anni sessanta che oggi fortunatamente si è estinta. Se andate a spulciare gli elenchi online in cui le cover in italiano di successi inglesi sono listate, in realtà, vi trovate a contatto con un pianeta delle cui dimensioni ero quasi completamente all’oscuro: migliaia e migliaia di titoli, a scorrere i quali ancora oggi trovo un botto di sorprese -canzoni che non sapevo avessero corrispettivi in inglese, canzoni che non sapevo fossero state coverizzate, cover italiane anche recenti a cui, semplicemente, non penso mai.

È una pratica vecchia quanto la musica pop, grossomodo, che ha incontrato le sue maggiori fortune nella stagione degli urlatori -gancetti con il rock’n’roll e tutto il resto. Il grosso della faccenda coinvolge artisti italiani di seconda categoria che coverizzano canzoni inglesi/americane di seconda categoria, ma c’è spazio per tante sorprese. Un sacco di autori o interpreti di importanza più o meno marginale, tanto per dire, non hanno avuto problemi a confrontarsi con dei classiconi palesemente al di fuori della loro portata -esempio: esiste una Me and Bobby McGee in italiano cantata da Gianna Nannini. Ma anche certi mostri sacri non hanno resistito al prurito di rileggere degli standard anglosassoni che che ogni storico della musica popolare definisce intoccabili, senza averci molto da guadagnare e con tutto da perdere al cambio. Uno degli esempi più clamorosi è la bruttissima Via della Povertà, delirante decalcomania en italiano di Desolation Row che il FABER piazzò su vinile con la complicità di De Gregori. Ascoltare Via della Povertà per quanto mi riguarda è la rappresentazione acustica del concetto di anticlimax; si può dire anzi che la cover di De Andrè ha dato inizio a tutto un effetto farfalla che nel giro di qualche anno mi ha portato a guardare con disprezzo all’opera omnia di Fabrizio De Andrè e di Bob Dylan. Ma se è vero che persino Via della Povertà ha qualche sparuto tifoso qui e là -perlopiù gente pronta a farsi esporre a delle radiazioni tossiche pur di non ammettere che persino Fabrizio De André nella sua carriera ha pestato qualche merda- è più difficile spiegare quale sia il processo mentale che spinge artisti ben inquadrati come possono essere Marco Masini o Ligabue, cimentarsi con celeberrimi singoli di Metallica e REM (considerato anche il caso che soprattutto nel primo caso parliamo di una fanbase abbastanza aggressiva), senza che nessun membro del loro staff riesca a fermarli.

Le ragioni sono tante. Sicuramente qualcuno ha deliri di onnipotenza, ma credo che ci sia anche una cognizione diversa di cosa possa essere un classico del pop, di quanto possa essere intoccabile e di quanto possa funzionare nell’economia del cantante. Voglio dire: nella testa di un fan di Ligabue, credo che A che ora è la fine del mondo funzioni alla grande. Molto più problematica e complessa, invece, è la storia di una canzone pubblicata da Vasco Rossi nel 2009, intitolata Ad ogni costo. Con ogni probabilità il più grosso backlash mai occorso al cantante di Zocca, e per questo -forse- uno dei più emblematici pezzi di storia della canzone italiana. Come minimo, una storia affascinante. Partiamo dall’inizio.

(sono passati NOVE ANNI. A volte mi sembravano sei mesi)

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Creep è la storia di un personaggio sfuggente che parla in prima persona a una ragazza bellissima che sta di fronte a lui ma non lo nota. È un testo bizzarro, tendenzialmente rabbioso o quantomeno passivo-aggressivo, probabilmente è una storia di stalking. Viene scritta da qualche parte alla fine degli anni ottanta dal cantante di un gruppo che tra poco cambierà nome in Radiohead e strapperà un contratto EMI. La canzone è la migliore, e di gran lunga, tra quelle che andranno a comporre il primo disco lungo del gruppo, Pablo Honey. Viene registrata in un solo take, durante le session del disco; Jonny Greenwood improvvisa in diretta i due strapponi di chitarra prima del ritornello, così a sfregio, e il gruppo decide di lasciarli dentro. Creep esce anche come singolo, prima del disco, ma per mesi e mesi rimane a stagnare nell’indifferenza di chiunque. Anche Pablo Honey, che esce nel ‘93, sembra andare incontro allo stesso destino, ma mentre EMI sta iniziando a pensare di scaricare i Radiohead, Creep inizia ad entrare nelle playlist americane. Inizialmente è una cosa più che altro legata al passaparola nei canali periferici (college radio e simili), poi la canzone si trova ad aggredire il mainstream. Sono gli anni in cui il pop rock introverso, passivo-aggressivo e con le chitarre alte viaggia in corsia preferenziale. L’etichetta coglie l’occasione per capitalizzare tutto il capitalizzabile intorno a ad un’unica canzone: il gruppo viene riscalato a meteora con video in heavy rotation, spedito negli Stati Uniti per un tour interminabile e spremuto fino all’ultima goccia.

E qui inizia tutto quel percorso di auto-sabotaggio costruttivo che renderà i Radiohead il più blasonato gruppo pop degli anni duemila. Alla fine del tour americano i membri del gruppo sono ai ferri corti e in procinto di sciogliersi; all’orizzonte ci sono le session per il disco nuovo, con l’etichetta che chiede un’altra Creep e magari un po’ di ciccia per fare da contorno. Curiosamente le condizioni ambientali rimangono favorevolissime alla band: passata la moda dei tristoni grunge arriva il momento del britpop, e il gruppo di Thom Yorke è una delle prime scelte per coloro che non hanno cazzi di star dietro alla battaglia Oasis/Blur. I Radiohead hanno l’intelligenza di sfruttare al meglio le condizioni ambientali: il gruppo inizia a mettersi dietro alla musica, la quale diventa sempre più complessa ed articolata, molto sopra gli standard intellettuali del pop rock dell’epoca. The Bends è un successo di critica e pubblico, ma è solo l’avvisaglia di quel che succederà da lì in poi: un processo di sparizione ed intellettualizzazione della band, costruito su una rigida politica dell’inclusione dei materiali promozionali del gruppo -artwork, dichiarazioni, materiali video eccetera- all’interno del discorso artistico. E nelle fasi iniziali di questo processo Creep è il più grande ostacolo alla libertà del gruppo. 

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“Forse anche toccare una canzone così, così diciamo così che poi in realtà io pensavo che fosse conosciuta un po’ da pochi, fosse di nicchia, e invece in realtà era un pezzo che era conosciuto da molti.”

Nel 2015 Vasco Rossi viene intervistato nel programma radio di Silvia Boschero, la quale gli chiede di Creep. Lui si giustifica nel modo più sensato possibile: forse ha peccato di innocenza, e per sicurezza non farà mai più uscire una cover come singolo. Dice anche di avere ricevuto l’approvazione formale dal gruppo per quanto riguarda il testo. Nella versione di Vasco Rossi l’ipotesi è che il gruppo non avesse niente contro il testo; altre versioni ufficiali non ce ne sono. Magari la band ha firmato l’approvazione assieme ad altre dieci, o -più ragionevolmente- in quegli anni probabilmente i Radiohead consideravano Creep un po’ una palla persa. L’elenco di versioni sbagliate e merdose della canzone, in effetti, è a dir poco impressionante, a maggior ragione se pensiamo che l’unica buona versione del pezzo uscita da uno studio è stata registrata in un solo take, con il chitarrista che remava contro. Gli stessi Radiohead la reincidono in una versione acustica -e molto più brutta- che trovate dentro My Iron Lung. La cover più inascoltabile è probabilmente quella dei Korn, inclusa nell’unplugged del gruppo. Jonathan Davis la introduce come “un pezzo che mi ha sempre dato una grande forza”, dedicandola a tutti i ragazzi che si sentono schiacciati e inadeguati; al di là delle implicazioni del testo, fa specie perché il successo commerciale dei Korn è successivo a quello dei Radiohead di pochi mesi. OK, il successo commerciale non è indice di felicità, e i Korn hanno sempre avuto questa cosa schizofrenica di un frontman che cantava l’inadeguatezza e il disagio mentre con l’altra mano sposava una pornostar, ma la cosa più orribile continua ad essere la versione della canzone: i Korn in acustico sono già di loro difficilini da accettare, e su Creep in particolare sembrano una cover band dei Counting Crows al terzo giorno di prove. Rimanendo sul nu metal c’è una versione quasi-pirata dei Powerman 5000, registrata (credo) quando ancora erano un buon gruppo senza le menate industrial-brutte. Dal vivo l’hanno cantata in tantissimi, anche gente grossa tipo Moby (sta sul tubo ma non guardatela), Amanda Palmer, ovviamente Tori Amos (la sua versione ricorda un futuro possibile in cui i Radiohead si sono sciolti dopo Pablo Honey e Thom Yorke stesse ancora girando i bar statunitensi a suonarla in acustico). Abbastanza geniale la versione di Prince, che la risuona dal vivo aggiungendo gruva casuale e rovesciando il testo (“IO fluttuo come in una piuma in questo bellissimo pianeta, TU sei una sfigatona, che cazzo ci fai qui, che cazzo c’entri”). Si può proseguire con la lista per centinaia di pagine, in realtà, coprendo un arco di tempo che arriva ad oggi (recentissima la disputa legale con Lana del Rey, che ne ha fatto una versione apocrifa e -tra l’altro- per nulla disprezzabile e ora sta litigando per i diritti) e parte da prima della versione originale (i Radiohead pagano una percentuale dei diritti agli autori di The Air That I Breathe, un brano inciso dagli Hollies vent’anni prima).
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È tutto un po’ legato a quei discorsi infiniti sulla ciclicità del pop. Il successo di The Bends basta da solo ad elevare i Radiohead dal rango di one-shot band a gruppo vero e importante; alla vigilia dell’uscita di OK Computer, in piena risacca britpop, il gruppo è atteso con fiducia. Il disco va oltre ogni aspettativa, imponendoli come uno standard del pop di quegli anni e una delle massime incarnazioni della musica di fine millennio. Ma quando inizia il tour, Creep è già uscita dalle scalette. La cosa passa tutt’altro che inosservata, e del resto è una mossa piuttosto arrogante: Creep è ancora il loro singolo più famoso e lo resterà per sempre. Yorke e gli altri si schermano alla meno peggio, non amano più la canzone e probabilmente ne percepiscono ancora il pericolo -la lista dei gruppi uccisi dal successo del loro primo singolo è fin troppo lunga. La carriera successiva dei Radiohead passa a disegnare la schizofrenia di un gruppo perennemente indeciso se essere un gruppo progjazz da cameretta o la più influente voce mainstream a predicare il superamento delle logiche industriali legate al pop. Che fossero l’una o l’altra cosa, Creep era inadatta a descriverli. La qualità dei dischi ed il favore del loro pubblico hanno consentito loro di diventare più grandi e cancellare l’onta. 

Ad ogni costo non è il primo tentativo di cover-en-italiano di Vasco Rossi. Non sono un esegeta dell’Uomo ma c’è almeno il precedente de Gli spari sopra (cover di Celebrate degli An Emotional Fish) che vendette un macello di copie e diede il titolo al disco che la ospitava. Ma Rossi con Gli spari sopra ebbe buon gioco: il pezzo originale era semisconosciuto. Quando uscì la cover di Creep fu un mezzo macello: l’Italia del Ruock si divise equamente tra chi trovava scandaloso il trattamento riservato ai Radiohead da Vasco Rossi e chi sosteneva che i Radiohead avrebbero dovuto ringraziare Vasco per aver fatto conoscere il gruppo in Italia. Verrebbe da dire che il livore congenito dei musicofili merita battaglie migliori di questa, ma gli snob amano fare un caso di tutto quel che succede. Anche Ad ogni costo rovescia la prospettiva del testo originale: la protagonista della canzone di Vasco Rossi è una donna che vive col protagonista, e con la quale il protagonista, nonostante la giudichi odiosa bugiarda ed infedele (nelle canzoni di Vasco Rossi capita abbastanza spesso), vuole continuare a stare. Creep era l’improbabile (e vagamente inquietante) inno di una generazione di nerd senza alcuna possibilità di redenzione, Ad ogni costo può essere tuttalpiù la decima canzone in scaletta in una data del Live Kom Tour XX: fuori dal bagaglio culturale dei fan di Vasco Rossi non ha moltissimo da dare, e i fan di Vasco Rossi possono essere abbastanza aggressivi nelle loro manifestazioni. Quello che è difficile da spiegare è l’ardore con cui ci si possa trovare a difendere la canzone-simbolo di un gruppo che, a conti fatti, ha ribadito più volte che con quella canzone non ci voleva più avere a che fare. Eppure lo stesso Vasco, nell’intervista a King Kong, sembra ricordarla come una sorta di debacle.

Ci sono tante spiegazioni anche a questo, ovviamente. La principale riguarda il sistema culturale in cui viviamo: Creep fa parte di una sorta di esperanto del pop, di un linguaggio comune ad una classe intellettuale allargatissima che da decenni è a caccia di una specie di terreno comune. È un po’ come gli infiniti articoli contro il doppiaggio dei film: forse i film in lingua originale sono meglio, ma quando ci si riesce a porre a distanza l’acrimonia di certe prese di posizione sembra sempre eccessiva. Quello che rivendichiamo quando chiediamo film in lingua originale, in realtà, è uno dei pochissimi progressi culturali di cui abbiamo una sorta di coscienza nazionale; in altre parole, abbiamo tutti un’infarinatura di inglese. Allo stesso modo la battaglia scatenata da Ad ogni costo fu perlopiù una resa dei conti tra rockettari generici italiani fermi a Vasco e rockettari generici italiani che avevano fatto il passo successivo a Vasco -e in questa contesa Vasco Rossi e il suo immaginario furono brutalmente sconfitti (da lì in poi Rossi in effetti battè in ritirata, costretto a battere bar e localini in patetici tour voce-e-chitarra per sbarcare il lunario). In questo Vasco Rossi sembra ancora (è una teoria molto frequentata, è vero) l’ultimo grande depositario dell’italianità rock’n’roll: ha continuato a marchiare a fuoco il proprio pubblico e fornire un’esperienza musicale il cui livello di totalità è paragonabile a quello degli anni ottanta, in un mondo del pop in cui gli artisti (Cremonini, Jovanotti, Syria o chi volete) si adoperano per mettere un piedino nei salotti buoni dello snobismo musicale. Mi piace pensare che ogni obbrobrio culturale ci dia la possibilità di imparare una lezione. Conosco fan degli Autechre che hanno avuto da ridire su Vasco che coverizza i Radiohead. Voglio dire, è una cosa che posso rispettare.

Una cosa curiosa: stando a Wiki, Ad ogni costo esce il 25 settembre del 2009. Nemmeno un mese prima, alla fine di agosto, i Radiohead salgono sul palco di Reading e suonano Creep per la prima volta da una decina d’anni. Oggi sembrano averci fatto pace; di tanto in tanto la ficcano in scaletta e la gente in platea si mette a urlare. Nelle scalette di Vasco Rossi credo che Ad ogni costo non compaia da anni.

6 thoughts on “100 canzoni italiane: AD OGNI COSTO”

  1. L’articolo è interessante, creativo, e fantasioso e fai dei voli pindarici divertenti,
    ma pecchi di ignoranza in vari punti:
    -Non sei sicuramente un musicista e questo si nota nell’osservazione dei suoni, delle tecniche e delle musiche, e questo fatto da un critico musicale non è poco.
    Un pò più di preparazione servirebbe.
    -Non sai che anche gli inglesi e gli americani facevano nostre cover, perfino ELVIS ne ha fatte, come SURRENDER, che è un pezzo napoletano.
    Quindi in tempi non sospetti la musica italiana non era sempre serva del modello angloamericano.
    -I Radiohead erano solo una deriva del brit pop inglese annni ’80, che non è assolutamente nato nei 90′, semmai quello dei 90′ ne è la deriva commerciale e cafona, escludendo Blur e Radiohead da Ok COmputer in poi.

  2. @favo3 intendo quel percorso che ha portato i RH a negarsi in svariati contesti diciamo più “pop”, lasciando per strada la ricerca di situazioni diciamo più sputtanate per inseguire un’idea di gruppo più organica e ambiziosa. Brutalmente, a un certo punto i Radiohead potevano tranquillamente fare la fine di Coldplay e Muse.

    @Ende è vero, non sono un musicista, non so nulla di teoria e non ho intenzione di migliorare sotto questo aspetto, non mi interessa. Sorry. Non faccio critica musicale comunque, a parte quando me lo chiede qualcuno. Riguardo agli altri due punti, il primo è irrilevante in questo contesto (e numericamente più contenuto). Sul secondo non credo di aver mai scritto che il pop inglese è nato negli anni novanta, ma non sono d’accordo, il pop inglese dei novanta e quello degli ottanta sono molto diversi, anche se ovviamente il primo discende dal secondo, post hoc ergo propter hoc eccetera eccetera

  3. Premettendo che apprezzo tantissimo alcuni tuoi articoli in cui cogli lo zeitgeist del momento storico, la mia critica è riferita al fatto che se scrivi di musica, e scrivi per Rumore se non sbaglio, noto alcune lacune a livello tecnico che, aggiustandole un pò, con la tua fantasia potrebbero rendere molto di più. Vedi articolo su Reign in blood degli Slayer, bello ma con poco equilibrio.
    Sul BritPop per me la deriva anni ’90 fu un insulto al britpop ’80, una brutta copia sbiadita ed edulcorata, eccetto Blur, Radiohead da Ok computer in poi, e pochi altri… Per me le influenze degli ’80 sono palesi , citando gruppi come The Smith, The Cure, XTC, Gang of Four, e un pò di pop merda da classifica…

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