Questo ha gli stessi anni di mio padre!, dissi agli amici, nell’ilarità generale, a Torino, un’estate, quattordici o quindici anni fa. Mio padre era sui 55, io sui 24, ed era la prima volta che vedevo Iggy dal vivo, dal vivo con gli Stooges, band da cui ero stato ossessionato fin da ragazzino in quel modo strano (credo, strano) in cui mi ossessiono io alle cose, mi prendo l’impegno di essere ossessionato da qualcosa e ne parlo e ne straparlo finché non credo io stesso a quel che dico e finisce che l’ossessione diventa vera, e non so più neanch’io cos’ho inventato, cosa sia reale, o che differenza ci sia tra le due cose. Così, dopo aver letto su qualche rivista, sarà stato il ’94 e le riviste c’erano ancora, che Kurt Cobain era fan degli Stooges (lo diceva Iggy stesso, ricordo che era un’intervista a Iggy), decisi a tavolino che sarei stato ossessionato dagli Stooges e così fu, precisamente da quando, qualche tempo dopo, ero da Rinascita proprio con mio padre (un mio padre irrealmente sui 45) che mi chiese, vuoi un disco? e io dissi sì, gli Stooges, ma non seppi cosa scegliere tra l’omonimo e Fun House, i due che c’erano, e mio padre, buonissimo, me li prese tutti e due. Li ho ancora da qualche parte, uno dei due ha l’adesivo giallo col punto esclamativo che era uno dei modi per esprimere il prezzo speciale (15.000?) venticinque anni fa. Insomma, tanto ho detto, tanto ho fatto, che ho finito davvero per adorare gli Stooges non ascoltandoli neanche troppo, ma questo è perché io pur essendo in genere considerato un appassionato di musica la musica non l’ho mai ascoltata davvero tanto, ad adorarli al punto che mesi fa, da adulto, ho insultato un mio amico che si è comprato Fun House in vinile dandogli del modaiolo bastardo, al punto che mi trovo oggi a esprimere, in occasione del compleanno di Iggy, davvero un concetto banale come che non dimenticherò mai la prima volta che ho visto gli Stooges – rifletto ora sul fatto che probabilmente non vedrò mai più gli Stooges e probabilmente mio padre non mi regalerà più dischi, e c’è stata un’ultima volta nella mia vita che entrambe queste cose sono successe e come è ovvio non lo sapevo e mi ritrovo oggi così, vecchio e stanco e grasso, con l’età che avevano Iggy e mio padre quando avevano la mia età oggi, a non desiderare niente di più al mondo che ricordarmi esattamente l’ultimo pezzo che ho sentito suonare dagli Stooges dal vivo nella mia vita – un pezzo qualunque, un momento, una nota di quel concerto, che chissà quando si è tenuto e dove, poi – o il modo in cui mio padre era vestito quando mi regalò The Stooges (l’album) e Fun House – la sua faccia, i suoi colori, in uno dei tanti giorni che per me erano normali, tornavamo a casa, la stessa casa, lui leggeva carte di lavoro e io ascoltavo gli Stooges in tanti giorni tutti uguali, tutti banali, che non ho registrato per questo e che per riaverne uno darei tutto l’oro del mondo, tutti i dischi – ridarei la prima volta che ho ascoltato gli Stooges dal vivo, che invece mi ricordo bene, Iggy entrò a torso nudo, disse siamo i cazzo di Stooges!, scoppiò il caos, e io pensai che aveva gli stessi anni di mio padre.
Autore: asharedapilekur
Mancarone Alan Vega #1: Dream Baby Dream
Una volta, una soltanto, ho fatto una cosa da film, ero innamorato ed era successo qualcosa di bello, e così ho messo un disco e ho chiesto alla mia fidanzata che poi oggi è mia moglie di ballare con me, e abbiamo ballato in salotto tipo valzer, ma male, e la canzone era Dream Baby Dream dei Suicide, fatta proprio dai Suicide e non da Springsteen. Alan Vega dei Suicide è morto l’altra notte nel sonno, me lo hanno detto nel momento più incongruo possibile, mentre cioè ero ai Parioli davanti alla palestra di Madonna con un caldo assurdo – non è bello questo fatto che gli appassionati di musica si avvertono tra loro se muore Alan Vega -, e se fossi uno scribacchino di quelli che scrivono sui blog rifletterei adesso sulle tante incongruità congrue della musica e della vita di Alan Vega e della sua band (cioè il solo Martin Rev), per esempio essere stati il miglior gruppo punk di sempre senza essere punk, di avere affinità con gente tanto diversa quanto ad esempio Cecil Taylor o Madonna, di aver suonato rockabilly selvaggio senza neanche l’ombra di una chitarra e boh altre cose tipo chiamarsi i Suicidio e parlare in realtà del profondo splendore dell’esistenza. Ma così non è, queste cose non le ho dette, e anche se le avessi dette non conterebbero perché sono uno di quelli che scrivono sui blog (bè, su un blog solo) e nella mia band non c’è nemmeno il solo Martin Rev e in ogni caso Alan Vega è morto l’altra notte, nel sonno, aveva 78 anni e perciò, quando quindici anni fa più o meno l’ho visto suonare al Classico ne aveva già più di sessanta, eppure indossava una tuta argentata tipo Bradley Cooper che fa footing in quel film in cui interpreta un pazzo. Pochissimi non sanno che il suo miglior album è un album non scritto né interpretato da lui, per la precisione Nebraska di Bruce Springsteen che è anche il miglior album di Springsteen. Ma Alan Vega è morto l’altra notte, oh, è morto Alan Vega, davvero, i Suicide non ci sono più, e una volta, una volta soltanto, ho ballato davvero nel salotto, come fosse un film, l’ho fatto perché ero innamorato, e anche se Alan Vega è morto e i Suicide non ci sono più io lo sono ancora, e perciò è come se continuassi a ballare, e la canzone è sempre Dream Baby Dream dei Suicide.
Ed ecco un altro pezzo sul nuovo album dei Radiohead scritto da uno sconosciuto che ha bisogno di far capire che però ha studiato
“La liturgia, come il gioco, ha regole proprie e crea un suo mondo che vale quando si entra in essa e che poi, altrettanto naturalmente, viene meno quando il gioco finisce… La liturgia … [è] una forma diversa di anticipazione, di esercizio preliminare… A differenza della vita attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del donare e del dare” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia)
“La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede… Le immagini del Bello … sono parte integrante del culto” (ibid.)
“Ogni giorno si verificano migliaia di eventi sorprendenti, inspiegabili e perfino miracolosi. Raccontami i tuoi.” (Rob Brezsny, oroscopo, Internazionale, 5-11 maggio 2016)
Abbiamo ascoltato in anteprima il nuovo disco dei Radiohead ed è un capolavoro assoluto. Non è vero, non lo abbiamo ascoltato e al momento non so neanche che titolo abbia (conosco invece ormai bene quello del nuovo Afterhours, storpiato, trollato e lollato da giorni sul web. Il mio personale contributo è: Funiculì o Funiculà. Fa ridere? È che non ho un pubblico tutto mio né amici, e devo dirlo qui), ma ho già assunto una posizione in merito come, del resto, i detrattori.
I Radiohead sono, oltre che l’ultima e la più grande, la sola band ideologica della terra, nel senso che, è stato detto e ridetto, è dal 2000 almeno che impongono la loro linea e sti cazzi. È sempre dal 2000, anno in cui uscì Kid A e nessuno, in un senso o nell’altro, ci capì un cazzo, che i Radiohead sollevano ammirazione a volte anche acritica e ondate di stupido odio, alimentate l’una dall’altra, anche grazie alla fottuta RETE che proprio in quegli anni cominciava a essere più o meno alla portata di tutti. Il fatto è che, io credo e sostengo, se l’ammirazione è perfettamente autocomprensibile e giustificata, è l’odio che dovrebbe piuttosto argomentare, come il negazionismo di fronte alla verità della Shoah, e perciò sono gli odiatori (noi per primi) e non gli ammiratori né gli stessi Radiohead a meritarsi oggi il più tonante dei vaffanculi.
La prima parte del problema è legato alla dannata questione del GUSTO che, credo, sia stata negli anni zero la più dibattuta in assoluto da chi ascoltava musica con abbastanza tigna da parlarne anche online. Il suo corollario era il dibattito sull’OGGETTIVITÀ. Dalle discussioni di musica così intrecciate su questi due concetti di fondo, in sostanza, non si usciva, ma eravamo ventenni e non sapevamo le cose. Ora ho letto abbastanza (dieci pagine di Harold Bloom e le alette di copertina di un libro in inglese intitolato Objectivity) per sapere che, se il gusto esiste, è al tempo stesso irrilevante e insensato se usato come argomento, e quanto all’oggettività, il punto mi sembra essere piuttosto l’innegabile esistenza di gerarchie tra chi usa tutti i mezzi a propria disposizione per cercare di dettare la linea, anche se in un campo irrilevante come il pop, e chi invece non mette il naso fuori dalla sua comfort zone, dai localetti sotterranei con i gruppi assurdi che suonano e che hanno tutto il diritto di vivere e di esistere, ne apprezzo molti, ma a cui in fin dei conti mancano spesso il talento, la voglia o la possibilità di dare ai suoni fichi e ostici una forma che tutti possano capire.
“Gli Autechre lo facevano anni prima!”, dicevano i formidabili stronzi (forse, a volte, me compreso) che all’epoca non riuscivano a sopportare la forza di una Pyramid Song – o il fatto di doverne condividere l’apprezzamento con gente che, in qualche modo, capitava lì per caso – e dopo aver recuperato il mai coperto catalogo Warp ostentava appartenenza al solito club dei duri e puri. Gli Autechre lo facevano col cazzo, oserei dire adesso, perché gli Autechre stavano ai Radiohead di quell’epoca come le cronache danesi medievali stanno ad Amleto. Lo so, è altisonante. Ma in fin dei conti cercare largo consenso attraverso gli strumenti propri della musica leggera, la melodia, la bella scrittura, un certo lirismo, mi sembra un progetto generalmente più condivisibile della chiusura in sé stessi.
La strategia di comunicazione, il marketing, che peraltro mi sembrano efficaci (di Burn the Witch, l’altro giorno, ne parlava – male – pure mi nonna) , non vedo come e perché debbano rappresentare punti a sfavore del tutto, specialmente in un mondo dove tutto è esasperatamente commerciale se non pubblicitario, e dove la definizione buon prodotto non si nega a nessuno ed è di norma considerata un complimento. In un mondo dove Bowie lo può fare alla grande e dove, peraltro, si è finalmente capito che Beyonce, Justin Timberlake o Rihanna non fanno male a nessuno e, guarda un po’, fanno pure musica apprezzabile. Non capisco nemmeno i grandi frizzi e lazzi causati dal fatto che i Radiohead “hanno fatto un video coi pupazzetti”, quando PUPAZZETTO è in fondo la parola che meglio racchiude tutti i contenuti culturali espressi dai fottuti creativi di quest’epoca, compresi quelli che si occupano di bimbi palestinesi, di migranti o di violenza nei college della Ivy League.
Quindi no, Kid A non è la brutta copia di Squarepusher come Elvis non lo era dei canti degli schiavi, Amnesiac non è la brutta copia di Kid A, ma lirico e inarrivabile ai più come i migliori momenti di Hail to the Thief, In Rainbows e King of Limbs (un album che, quando mi arrivò in forma di quotidiano, per irritazione neanche scartai e sbattei da una parte. Poi lo ho sentito per caso in un negozio, mi ha fatto il culo e, dandomi dello stronzo cento volte, ho sviluppato le convinzioni di cui sopra. Il disco ce l’ho però ancora col cellophane). Si potrà essere in disaccordo con me, ma trovo il gesto – di comunicazione, ok – di cancellare tutti i contenuti dal web un atto molto più politico di quelle fregnacce da diplomati IED con, non so, le modelle col bavaglio sulla bocca l’8 marzo o la gente che manda a Repubblica i selfie con l’agenda rossa di Borsellino.
Amo i Radiohead, i pupazzetti di pongo, i loro ultimi due video hanno ridisegnato il mio immaginario e, lo sospetto, qualcuno a momenti mi dirà che questo è tutto un mio trip; ma in fin dei conti, se potessi scegliere per me un aspetto diverso dal mio, sceglierei quello da monaco anacoreta del Thom Yorke di oggi, per sempre perso nella ricerca dell’album perfetto (e nel modo più stronzo possibile di confezionarlo).
Doves cry // Fermate tutto, è morto Prince
Even at the center of the fire
There is cold
Ho visto Prince anni fa a Londra, in una di qualcosa come trentuno date di fila (tutte sold out in un paio di giorni), il prezzo del biglietto era il titolo del suo – allora – ultimo disco, che era un numero, e una copia del suo ultimo disco veniva regalata a tutti i presenti coppie comprese, come a dire, diamo per scontato che non lo abbiate già comprato, e come a dire, in ogni casa c’è bisogno di tante copie di questo disco quanti sono i suoi abitanti. Ecco perché io ne ho due copie. Ad ogni buon conto, il palco era circondato dal pubblico, a un certo punto alcune inservienti genere Apollonia si fecero largo tra la folla trasportando una grossa scatola d’argento su ruote (neanche troppo grossa), e la scatola, si scoprì non appena fu trasportata sul palco e aperta, conteneva Prince. Prince suonò una valanga di pezzi di quelli vecchi e classici e fichi per chi li trova fichi, 1999, Purple Rain, Darling Nikki, Kiss, Nothing Compares 2 U, cose così. Tempo mezz’ora e aveva finito. Apollonia non c’era. Darling Nikki è il mio pezzo preferito di sempre tra quelli che non fanno piangere (tra quelli che fanno piangere, invece, è Nothing Compares 2 U). Il mio disco preferito è Gold. A Londra, in anni diversi, comprai Emancipation a tre sterline da Fopp, Purple Rain in vinile (è la prima stampa e si sente come attutito), e l’album nero che era per me negli anni ’90 un Sacro Graal. Ero l’unico negli anni ’90 ad ascoltare e amare Prince in maniera esplicita, schietta e franca, per quanto ammetto di essermi vergognato con il commesso di Rinascita quando comprai il CD singolo di The Most Beautiful Girl in the World. Lui ascoltava credo gli Smiths. Dico il commesso. Incredibile pensare che una volta le due cose potessero essere vissute come contrastanti tra loro. Prince è sempre stato incomparabilmente superiore a Michael Jackson, a Madonna, a Jimi Hendrix, a tutti gli artisti bianchi, neri, ex-neri o meticci a cui in qualche modo è stato accostato. Da ragazzino sognavo di essere magro come Prince sulla copertina di Lovesexy e oggi ringrazio di non esserlo mai stato. Non viene un brivido anche a voi quando, in quella canzone, Prince canta che morirà, se lei non ci sarà lì, stasera? Prince non c’è stasera, i ladri sono entrati nel tempio. La notte dopo il concerto di Londra valutai se usare il rossetto di Vale per scrivermi sulla pancia Insatiable, come Prince, in una foto che avevo visto da ragazzino, ma lasciai perdere l’ipotesi e oggi me ne pento perché – non so perché, ma avrebbe avuto un senso.
Invece Prince è morto stasera, e non c’è niente che possiamo fare.
DSICHI – David Bowie, “Blackstar”
Avevo scritto questo parere non richiesto proprio nelle ore in cui Bowie stava morendo, e trovo oggi che la frase internettiana e sgargiula che avevo scelto come incipit, “Ascoltare un disco di Bowie è come quando un orientale ti guarda negli occhi: sai che vuole qualcosa da te, ma non sai di cosa cazzo si tratti di preciso, EHI AMIGO, abbiamo riferimenti e valori del tutto diversi”, suoni oggi orrendamente irrispettosa. Non irrispettosa nel contenuto – che peraltro mi sarebbe servito a introdurre il concetto che Bowie (leggere quanto segue con voce da fattone) cioè no insomma cioè vive tipo hai capito in un mondo tutto diverso ma cioè fico tipo no – ma nel fatto che c’è davvero poco da scherzare, sul rock, sulla vita, e soprattutto su un grande eroe e villain del pop da classifica scomparso prematuramente e così d’improvviso; nel fatto, cioè, che internet nel suo essere un’applicazione generalizzata e conformista della più cinica leggerezza è di per sé offensivo e almeno quando muore qualcuno potremmo risparmiarcelo. Francesco mi diceva l’altro giorno che non sopporta tutto questo hype che c’è a ogni disco di Bowie, roba che ho riscontrato un po’ anche io, cose tipo “Ehi! Il nuovo di Bowie è un CAPOLAVORO ASSOLUTO!”; cose tipo che, contrariamente a quanto succede per gli altri (non scrivere “mostri sacri del rock”, non scrivere “mostri sacri del rock”) mostri sacri del rock, il pregiudizio per Bowie era sempre del tutto positivo. Niente di scontato, eh, pensateci: bastava che si spargesse la voce che Lou Reed stesse preparando un disco che cominciavano a risuonare le pernacchie, e la noia serpeggia in noi ogni volta che qualcuno dice “nilìa” senza manco arrivare a “ng”. Non so se si è capita. Comunque, insomma, eccomi ricaduto nell’ironia che volevo evitare. Eccomi che sto per ricadere nel cinismo: se Bowie non vi stava bene, mò che è morto tenetevi St. Vincent. “Ma no”, potreste rispondermi, materni e dolci come la Madonna: “ci terremo questo Blackstar, che durerà nei secoli e nei millenni, e grazie ad esso nei momenti bui, tipo quelli in cui muore una stella del rock, il nostro cuore sempre sarà colmo di gioia e musica straordinaria”. Il nuovo di Bowie è un CAPOLAVORO ASSOLUTO! (10)