MIO NONNO, come la canzone.

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Mio nonno, che è una persona estremamente colta ed estremamente prolissa, ha sempre avuto un debole per i monologhi, in special modo i suoi. Questo non significa che non s’interessi ai fatti miei, quella manciata di volte all’anno in cui ci vediamo; al contrario, è un buon ascoltatore e ci tiene che lo tenga informato su ciò che combino, perché mi vuole bene e perché poi così ha l’occasione di rifilarmi un pippone affettuoso ma molto molto serio di quaranta minuti in merito. Con i pipponi non vado molto d’accordo per svariati motivi, il principale è probabilmente la mia profonda intolleranza nei confronti delle persone colte che la propria cultura la gestiscono come Sorrentino gestisce i suoi piani sequenza, e cioè con quella placida convinzione che sia indispensabile illustrarti con lentezza esasperante concetti che più o meno tu già conosci, o che magari vorresti pure che ti spiegassero ma possibilmente con un po’ più di spinta, o dei quali in fin dei conti sticazzi. Il caso di mio nonno è un po’ complesso, per ragioni scontate: è mio nonno, quindi gli voglio un bene cane, ed è anziano, entrambi fattori che un po’ mi fanno sentire in colpa per starlo infilando in un pezzo dove parlo di qualcosa che non sia il bene cane che gli voglio. L’affetto e la senilità mettono spesso un freno allo snervo che altrimenti strariperebbe a fiotti, ma al di là di quello; arrivi a un punto in cui i pipponi culturali seppur sangue-del-tuo sangue non riesci a sostenerli più, quindi decidi che se proprio hai voglia di sciropparti quindicimila parole su qualsiasi cosa ti fai un giro in qualsiasi buco dell’internet, dal quale puoi prenderti pause per andare a pisciare o farti un panino o semplicemente passare ad altro senza timore di ferire i suoi sentimenti. Sfiga vuole che io abbia un problema consistente anche con il 75% degli articoli sull’internet (a meno che non incappi in un blog di moda, dove l’ossessa di turno ha troppo da fare a spiegarmi la differenza tra blu marino e blu oltremare per star dietro anche all’ironia), 58% dei quali di musica, figli di un sarcasmo trasandatamente colto/studiosamente disinteressato che sembra troneggiare lì in mezzo per farmi un favore. Penso di voler leggere un articolo su un disco che mi piace scritto da qualcuno a cui piace, mentre quello che in realtà voglio è leggere un articolo su un disco che mi piace scritto da qualcuno a cui piace-ish il quale ci ironizzerà fino al punto in cui, a fine pezzo, mi sentirò intimamente stupido per aver banalmente apprezzato il tal disco senza coinvolgere provocazioni scelte tirando a sorte. Dai, vaffanculo. Due weekend fa stavo sputando sangue discutendo con un amico su quanto poco invidio chi sente il bisogno nevrotico di imbottire i propri articoli ironici con almeno MILLE nomi, robe tipo produttori discografici che vent’anni fa produssero un disco che non è quello di cui si parla nell’articolo però hanno in comune un quarto di secondo del riff di una ghost track dimenticata dal cristo, dal gruppo e dal cazzo di produttore discografico. Tanto più che dietro questi pezzi ci sono quasi sempre under-trenta intellettualmente iperventilati, quindi insomma ragazzini della mia risma con questo pallino della mordacità a busso dalla quale ero (e a tratti sono) affascinata anch’io, ma che a una certa diventa semplicemente troppo. La risposta del mio amico è stata “ragionassero tutti come te il giornalismo musicale sarebbe un concentrato di timoroso piattume e umiltà da tavolino”, e la mia risposta alla sua risposta è stata “ma magari”. Non dicevo sul serio, ma il mio punto è che la cultura non è bella se non è litigarella (mioddio), ossia non è che bisogna cedervi sempre con quell’aria da martire del sapere col sorrisetto sghembo, che insomma personalmente non mi offendo se ogni tanto qualcuno recensisce un disco parlando esclusivamente di quanto sia bello/brutto e fermandosi lì. Non lo trovo noioso, non mi sento tradita nel profondo dell’humour, penso di potercela perfettamente fare. Ed è stato a quel punto, mentre mi accorgevo di essermi giocata un free drink e il mio amico iniziava a dire “s’è fatta una certa”, che mi è venuto in mente miononno coi suoi pipponi. Mi è venuta in mente mia madre che alla domanda “perché (cazzo) il nonno parla con tutta questa flemma?” mi rispose che ci sono sempre meno persone che riflettono non solo prima di iniziare un discorso ma anche durante lo stesso, e lui è una di quelle. Mi è tornato in mente che mio nonno è, al di là di tutto, un tipo molto simpatico. La morale di questa favola non esiste, e se esistesse non sarebbe certo “bisognerebbe scrivere di musica come ne scriverebbe un novantenne sordo per tre quarti”; è solo che la serietà è sempre meno cool e trovo che non sia giusto, mica perché non mi piaccia ridere, ma piuttosto perché il modo che ha l’ironia di mettere tutto in prospettiva mi puzza molto a baro, mi sa di scorciatoia culopesa come se parlare di musica con trasporto significasse concedersi troppo. E invece per me concedersi parlando e leggendo di musica è forse la parte migliore. Coi pipponi di mio nonno a volte faccio ancora fatica e alle sue lettere non è che ci stia sempre dietro, ma se non altro ho imparato a dare importanza ai suoi tempi. Ogni tanto a caso mi butta lì battute molto spiritose, ed è in quei momenti che la contentezza di sé e del proprio sapere si rivela sana, allegra, portandoti ad apprezzarla senza problemi.

OLOGRAMMI

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Qualche sera fa, quella in cui stavo su Twitter a leggere sagaci commenti su Grillo che diceva cose sconnesse, semplicistiche e schizofreniche da Bruno Vespa, mi è caduto l’occhio sui trending topic. I trending topic, generalmente resi trending da una fauna di dodicenni, teledipendenti e analfabeti di ritorno, si possono spiegare come “le stronzate del momento su Twitter”. In quel momento uno di questi era #senonascoltirock.

Se leggete questo sito non credo di dover stare a spiegarvi che la parola rock oggi 9 volte su 10 viene usata per parlare di cose reazionarie e scoreggione, e infatti sfogliare l’hashtag è stata un’esperienza raccapricciante fatta di Muse, Green Day, Negrita e Guns n Roses, ragazzini che si sentono migliori dei loro coetanei perché ascoltano la musica dei loro genitori e desiderano essere nati negli anni ’60, odio assoluto per tutto quello che sia vagamente storto, o sappia vagamente di black o di elettronica… insomma sembrava di essere entrati a casa del dj Ringo, di avere acceso Virgin Radio o di stare nelle pagine peggiori di Rolling Stone.

Negli stessi giorni ai Billboard Music Awards si è esibito Michael Jackson (che non fa rock ma pop, però la mitologia è la stessa; ed è uno dei pochissimi artisti trasversali che piacciono anche a quel tipo di pubblico ruock. Un pubblico che sputerebbe addosso a Justin Timberlake però rispetta Michael Jackson perché è canonizzato), come Tupac a Coachella. Nel video originale la cosa era introdotta da due presentatori come “incredibile, magnifica, insuperabile, un momento storico”, e c’è una standing ovation alla fine. Per uno che non è lì davvero.

Forse l’ottica quindi è quella dell’omaggio, tipo il video dei morti dell’anno agli Oscar.

Però credo che siamo ancora abbastanza vergini rispetto a questa tecnologia da esserci anche un elemento di sincero stupore, che porta a far sì che l’applauso non sia esclusivamente alla memoria quanto anche proprio all’esibizione.

Un po’ di tempo fa è uscita l’idea dei concerti proiettati al cinema (ve li ricordate i concerti al cinema? Cos’era, l’anno scorso?). Potenzialmente aprendo la diga per ogni passatista del mondo: “perché dovrei andare a vedermi un gruppo qualsiasi di oggi quando posso vedere i Rolling Stones del 1969, i Velvet Underground del 1967, i Ramones al Cbgb?”

Però al cinema comunque stai seduto, al limite si possono organizzare scenette alla Rocky horror, ma l’impatto è diverso e non potrà mai essere la stessa cosa.

Qui invece, potenzialmente, potremmo essere di fronte al sogno proibito, all’apoteosi di quel passatismo, ben oltre la cover band e la reunion e i “performing salcazzo”. Concerti on demand, e ogni singola nicchia potrà avere il suo gruppo preferito nel momento migliore.

È il trionfo di quell’ideale di rock sotto spirito: nessuna ricerca, nulla di nuovo, niente che rompa i canoni, nessun azzardo, nessun tentativo. Tutto canonizzato, tutto perfetto.

Siamo perfino oltre il discorso di Her, o della puntata di Black Mirror in cui venivano ricreate le persone amate: perché pazienza se il sudore è filmato, se sono dei pupazzi, tanto non li avresti toccati lo stesso; reale è comunque l’esperienza, il luogo, la gente intorno a te. E pazienza se tutto viene celebrato intorno al simulacro di qualcosa.

Inoltre finché pensiamo a Michael Jackson o ai gruppi da Virgin Radio ci viene da ridere, però un successo che dovesse ingrandirsi fino a poter coprire il gusto di ogni sottocultura, con proprio i vostri gruppi preferiti, per quanto estremi, per quanto minorissimi, nel tour del momento migliore…

Probabilmente non succederà nulla, l’idea verrà affossata da costi proibitivi e resterà una tamarrata usata ogni tanto in qualche enorme spettacolo americano o a Dubai. Ma – come dire? – non riesco a non pensare con sgomento all’idea dei nostri figli che, tra 20 anni, andranno il sabato sera al concerto dei Joy Division.

Potremmo rimpiangere la pagliacciata di Peter Hook.

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Federico Sardo

IL POMPOSO MANIFESTO

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Ciao caro gruppo di auto-aiuto, sono una giornalista – anche – musicale. Mi chiamo Chiara (i cognomi si dicono ai gruppi di auto-aiuto?). A inizio anno, dopo una serie di penosi incidenti come quello di Violetta-di-X-Factor usata in effigie al posto di Violetta-quella-delle-regazzine (su Repubblica del 3 gennaio scorso), mi sono venute in mente un po’ di criticità legate al giornalismo italiano, e a quello musicale nello specifico. Ho cominciato non tanto a metterle giù quanto a segnarmi cosa potevo fare io per non essere “complice” di uno stato di cose molto pesante e molto avvilente per chi fa questo mestiere. 

Ho pensato che conoscevo persone che avrebbero potuto pensarla come me, ma anche molti che l’avrebbero pensata diversamente, e con le quali avevo voglia di condividere queste riflessioni. Qualche mese di riscritture dopo, la cosa che inizialmente ho scritto per me è diventata una specie di “nostra culpa” che Francesco si è reso disponibile a pubblicare su Bastonate forse perché aveva dormito poco quel giorno, chi lo sa (con Francesco non ci conosciamo che superficialmente, quindi approfitterei per dirgli ciao Francesco grazie Francesco). Il testo che state per leggere è scritto al plurale non perché io mi sia montata la testa nel frattempo, ma perché ho trovato persone che hanno letto e fatto di sì con la testa più volte di quante abbiano detto “Mh”. La casella di posta che trovate indicata alla fine non è la mia ma è collettiva: usatela se pensate che valga la pena contribuire alla conversazione e passare magari anche all’organizzazione di una Cosa. Che speriamo non faccia la fine di quell’altra (Cosa).

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Negli ultimi mesi sono successe delle cose interessanti: per esempio, Beyoncé ha deciso di pubblicare un album senza darne preventiva comunicazione alla stampa, anzi destinando ai giornalisti specializzati informazioni false quando in realtà il disco in questione era già pronto e con una macchina promozionale già in fase di riscaldamento. Solo che la macchina in questione non prevedeva di appoggiarsi alla stampa musicale in maniera tradizionale. Per lo più non l’ha utilizzata affatto. Beyoncé e il suo staff hanno invece sfruttato la platea fornita dai propri social network per raggiungere un numero di ascoltatori potenziali di gran lunga più alto di quello offerto da qualunque testata online o cartaceo. Salto in avanti fino a marzo, quando Skrillex pubblica Recess, attraverso un videogioco per smartphone, oltretutto gratuito. La stampa viene a saperlo ad app già distribuita, quando girano già versioni piratate per ascoltatori “pigri”, che non sanno o non vogliono superare i livelli del gioco. Possono sembrare casi limite, ma non è così -sono solo i più visibili. Ci dicono quanto sia diventata irrilevante una stampa musicale mondiale che fa fatica ad allinearsi con le nuove maniere di esistere artisticamente, su internet così come a computer spento. Chi fra i colleghi ritiene che la cosa non riguardi la sua area di competenza perché non si occupa di pop o di EDM, o perché magari certi artisti non finiranno mai sulla testata con la quale collabora sbaglia: perché per quanto esagerati i numeri della platea alla quale si rivolge, artisti come quelli citati sono stati preceduti da colleghi che hanno ritenuto di pubblicare i propri album solo in Rete e senza promozione ottenendo comunque successo e visibilità. A questi seguiranno altri musicisti che sapranno lavorare a partire da questi esempi. La cosa non deve spaventare, e semmai stimola verso una radicale trasformazione del nostro lavoro, perché l’opportunità di fare parte di questo nuovo modo di comunicare la musica è ghiotta.

Questa trasformazione è tanto più urgente perché con le molteplici e frequenti sofferenze (anche economiche) del settore giornalistico in Italia, le crisi (sì, plurale) hanno toccato per primi proprio quei settori informativi ritenuti meno indispensabili nel quadro di un tentativo di fare economie, e fra i servizi a essere colpiti più duramente ci sono stati proprio quelli dedicati alla cultura e agli spettacoli, con critici e giornalisti musicali chiusi fuori dalle redazioni. La necessità di informare non è mai venuta meno, ma come accaduto altrove si è ritenuto che fosse possibile “riciclare” giornalisti di e in altre aree, diminuire gli spazi per l’informazione culturale più in generale e destinare a quel genere di informazione un messaggio meno specialistico, con quest’ultimo elemento che ha creato un circolo morboso all’interno del quale a un pubblico meno stimolato corrisponde un pubblico meno interessato a leggere approfondimenti (le generalizzazioni sono sempre rischiose ma a chiunque  scriva non sfuggirà che per lo più è proprio così). Questo fenomeno di taglio indiscriminato ha creato mostri veri e propri, che si sono ingigantiti e diventati difficilmente affrontabili se non con un ripensamento radicale del tipo di informazione culturale e musicale da porgere a lettori, telespettatori e ascoltatori. Siamo noi stessi giornalisti a essere stanchi di errori marchiani ai quali non si ritiene necessario riparare con errata corrige; trasmissioni basate su informazioni sommarie o errate; “approfondimenti” e focus corredati di fotografie sbagliate, nomi scambiati, recensioni superficiali, notizie scopiazzate.

Diversi anni dopo il mettersi in moto di questo processo siamo di fronte a compromessi editoriali organici in cui il pubblicista si pone come figura di mediatore senza in realtà niente di specifico da mediare, come una sorta di cottimante dello scagliar latte di vernice contro quadri finiti. Una notizia di qualsiasi portata viene rimbalzata da più testate a cui si reagisce in maniera grossomodo incrementale secondo una dialettica di allineamento/disallineamento a cui non pesa soggiacere. Abbiamo scritto più sopra che la critica e l’informazione musicale sono diventate irrilevanti. È così? Facciamo autocritica: è difficile rispondere qualcosa da diverso da “sì”. Lo sanno bene anche gli operatori del settore, dagli artisti ai discografici, che si appoggiano all’attuale stato di cose per promuovere prodotti a ritmi frenetici, aspettandosi un copia incolla di comunicati precotti senza contraddittorio, senza l’input di alcun tipo di creatività, fidandosi al limite del giornalista per la correzione degli errori di ortografia ed un inconsapevole aiuto nello spargere eventuali viral.

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Secondo ogni aspetto, chi scrive di queste cose dovrebbe ripensare se stesso allo scopo di uscire da questo cerchio. Ecco alcune delle idee che abbiamo raccolto: l’obiettivo si colloca da qualche parte tra *riformare il nostro ambito professionale* e *stare bene la sera*.

# Produzione

Consapevoli dei ritmi delle redazioni, di qualunque tipo esse siano, ci impegnamo a produrre meno articoli, ma più meditati, più documentati e meno frettolosi qualora questo non cozzi con le necessità dei nostri datori di lavoro e committenti.

Respingiamo l’utilizzo compulsivo di Wikipedia come unica fonte per la pur necessaria attività del controllo delle fonti, quando non addirittura unica base per scrivere articoli. Ci impegnamo invece a fornire la nostra professionalità a Wikipedia e ad altri siti analoghi per integrare schede lacunose, errate o scarsamente documentate e obiettive.

Invitiamo alla cautela e alla moderazione nell’utilizzo compulsivo dell’inglese per la descrizione di generi, mestieri, situazioni che possono essere raccontati anche in italiano.

Valutiamo la possibilità di pubblicare il nostro lavoro con licenze Creative Commons per permetterne una maggiore circolazione, nei modi che ognuno di noi sarà libero di stabilire a seconda della propria personale posizione sull’argomento.

Invece ci impegnamo a collaborare con artisti e case discografiche con modalità che esulino dal semplice calendario delle pubblicazioni, con azioni come la curatela (con l’accento sulla E) di numeri delle testate da parte di musicisti; numeri antologici; dossier slegati all’obbligo di creare una copertina “forte” per attirare un lettore casuale. Anche il lettore fedele diventa casuale se non ha soldi da dedicare all’acquisto della rivista “del cuore” – quindi va motivato con contenuti che possono sopravvivere alla concorrenza che galoppa soprattutto in Rete. Le strategie di promozione, dopotutto, sono uniche per ogni artista – le nostre idee e le modalità con le quali decidiamo di coprire un argomento… no.

# Etica

Rifiutiamo gli omaggi di case discografiche e uffici stampa, particolarmente se non hanno nulla a che fare con il lavoro che svolgiamo: in epoca di streaming e sistemi di condivisione cloud non ha più senso richiedere copie fisiche di album la cui spedizione rappresenta un onere per realtà piccole e più indifese come etichette indipendenti e un ingombro per i luoghi nei quali lavoriamo, siano essi uffici o le nostre case. Vale lo stesso discorso per i biglietti dei concerti o altre gratuità che accetteremo solo quando strettamente collegate a un incarico che stiamo svolgendo. La rimessa in moto del settore musicale in Italia passa anche per gesti come questi.

Rifiutiamo di svolgere il nostro lavoro gratuitamente o senza essere pagati in maniera commisurata all’impegno e all’attività di ricerca svolta per la redazione dei nostri articoli, anche se valuteremo di volta in volta a quali nuovi progetti stimolanti ci sentiamo di aderire per passione e non per guadagno.

Ci impegnamo a non seguire il lavoro di artisti o band che promuovano odio razziale, omofobia, transfobia, misoginia e che abbiano atteggiamenti irresponsabili nei confronti della loro platea di ascoltatori: questi saranno gli unici musicisti davvero fuori target con la testata per la quale scriviamo.

Considerando le condizioni di vita di molti milioni di italiani e la mutata realtà della scena musicale che si appoggia sempre più a strumenti come servizi di streaming o piattaforme come Bandcamp o SoundCloud, invitiamo tutti i direttori e i colleghi del settore musicale a fare un passo indietro sulla quantità di recensioni proposte e pubblicate e sui voti a esse assegnati: consideriamo di diminuire la quantità delle stesse a favore di un’analisi più approfondita, che si traduce in una lunghezza maggiore e in un maggiore dettaglio nel racconto e nella spiegazione di quanto ascoltato. Non escludiamo a priori dalla possibilità di una pubblicazione di recensioni di dischi autoprodotti e/o disponibili per l’ascolto online, sia come download gratuiti che come streaming: dopotutto questi sono, come accennato in apertura, canali distributivi validi quanto gli altri. Facciamo un esame di coscienza sui voti delle recensioni che scriviamo: non tutto quello che ci viene assegnato può essere un capolavoro, e lasciar sedimentare un ascolto spesso e volentieri coincide con una valutazione più serena che è gradita a chi ci legge e anche ai nostri direttori. Valutiamo di dedicare gli spazi dei dischi più importanti anche alle stroncature, e nell’ottica di un rinnovamento delle testate per le quali scriviamo, sfruttiamo strumenti alternativi come la recensione “comparata” fra più autori (cfr. Metacritic).

Torniamo a scrivere di concerti, ma uscendo dall’ottica che le uniche due notiziabilità di un tour siano date dal loro annuncio o, a valle, dalla recensione dell’evento: immaginiamo altre possibilità, e non solo in quest’ambito.

In generale, facciamo lavorare i nostri cervelli un po’ di più: staccandoci dalle logiche della semplice promozione saremo più soddisfatti noi, e ci saranno grati lettori e operatori del settore.

# Educazione

Ci impegnamo a fare nostri gli strumenti che sono ormai considerati standard per lo svolgimento della professione in qualunque altro ramo della lavorazione dell’informazione: che siano le infografiche o i video, le ottimizzazioni SEO o il corretto utilizzo dei social network. Tutti strumenti necessari per rendere quanto scriviamo di maggiore impatto, più comprensibile, più completo per chi ci legge. Quando per la nostra funzione all’interno della produzione di una notizia questo non sia possibile a noi personalmente, ci impegnamo a spingere nella direzione di una modernizzazione delle notizie che produciamo, e a collaborare con chi in redazione si occupa di questi aspetti con proposte e suggerimenti.

A maggior ragione perché dal 1° gennaio di quest’anno, recependo un Decreto del Presidente della Repubblica, i colleghi tra noi iscritti all’Ordine dei Giornalisti sono obbligati alla formazione professionale continua, ci impegnamo a organizzare, seguire e pubblicizzare corsi di aggiornamento e approfondimento, seminari, workshop, conferenze. In più, stimoliamo la nascita e la produzione di saggi, monografie, pubblicazioni anche slegate dal rapporto con case editrici tradizionali (.epub autoprodotti, per esempio).

Nel caso in cui i nostri profili sui vari social network siano aperti e non personali, ci impegniamo a stabilire un rapporto costante con i lettori – senza i quali il nostro lavoro non esisterebbe – che sia improntato al rispetto, all’ascolto, che offra anche informazioni sul meccanismo di produzione di una notizia, perché non si creino più fastidiose e antistoriche contrapposizioni. Il tutto nell’ottica di voler creare un rapporto costante che può essere, perché no, utile per il reperimento di nuove idee, e nuovi giornalisti (del resto se noi lo siamo è perché qualche “vecchio” è stato disponibile con noi).

Ci piacerebbe se di tutto questo ci diceste cosa ne pensate voi. Siamo più che disponibili ad ascoltare le vostre proposte, discutere ma soprattutto organizzare: anzi, non vediamo l’ora. Per mettervi in contatto, irrilevanti[at]gmail.com.

Cinque recensioni metal e una no

**Benzina**

AURORA

AURORA BOREALIS – WORLDSHAPERS

Ron Vento è nel giro dal ‘96, gli Aurora Borealis sono lui più una serie di altre persone, tendenzialmente batteristi ultratecnici e brutali (Derek Roddy, Tony Laureano, Tim Yeung): suona una specie di death/black tutto suo, roba che non si sente spessissimo in giro. Il progetto, tanto meritorio quanto malcagato, è uno di quelli in cui la musica migliora piuttosto che peggiorare di album in album. E dunque, seguendo questo tipo di ragionamento, dovrei dire che Worldshapers è il suo miglior lavoro – dal momento che è l’ultimo; ma non capisco onestamente perché abbia messo il verbo al condizionale: lo è, di fatto. Nel caso voleste approfondire, c’è la discografia completa del gruppo in free download sul sito ufficiale.

CRUCIFIX – VISIONS OF NIHILISM

NYDM dal Texas che esce per una label spagnola (tale Dark Blasphemies). Mi rendo perfettamente conto che NYDM sia un’etichetta obsoleta e/o del cazzo, ma quel che è accaduto è esattamente questo: della gente figa a NY suonava quello che poi tutti si sarebbero affrettati a ribattezzare BRUTAL (Suffocation su tutti – ma anche Baphomet, Morpheus Descends) mentre altra gente ugualmente figa suonava le stesse robe altrove. Il calderone BRUTAL (caps lock obbligatorio sempre) si è andato poi riempiendo di musicisti con una visione piuttosto dissimile da quella originaria, il che non è stato necessariamente un male – sta di fatto che i Crucifix appartengono alla primissima ondata e incarnano perfettamente lo spirito dei gruppi che ho citato fra parentesi, con la differenza che sono texani e non newyorkesi e che non hanno mai pubblicato nulla se non demo. La Dark Blasphemies li è andati a ripescare, e da appassionato del genere NYDM posso dire che ne è valsa abbastanza la pena.

ELECTROCUTION – METAPHYSINCARNATION

C’è stato un momento negli anni novanta in cui Alex Guadagnoli degli Electrocution (da Bologna) venne provinato dalla Roadrunner per sostituire Max Cavalera dei Sepultura – la cosa non andò in porto, evidentemente. Oggi Guadagnoli avrebbe suonato la chitarra su un album che si chiama The Mediator Between The Head And The Hands Must Be The Heart (il titolo vale come recensione) e il disco-reunion/comeback degli Electrocution sarebbe stato probabilmente una trovata come un’altra. Oppure no. Sta di fatto che Alex Guadagnoli era ed è soltanto il chitarrista degli Electrocution, che Inside The Unreal è uno dei dischi death metal più belli mai fatti in Italia, e che Metaphysincarnation ne è il degno successore. Big up and fuck off.

COUNTESS – ANCIENT LIES AND BATTLE CRIES

I Countess sono un gruppo black metal olandese che è nel giro dai primi novanta, se ne faceva un gran parlare qualche anno fa (oppure ero semplicemente io che me ne interessavo più del dovuto) perché avevano la fama di essere più TRVE e KVLT di altri in un periodo in cui tutto era poco TRVE e KVLT. Sempre a quei tempi ero disposto anche a comprare dischi a scatola chiusa solo basandomi su una buona recensione (scritta da un buon recensore) (su un buon sito) e infatti così feci. Ora come ora non ricordo più nulla di recensione, recensore e sito, ma mi ritrovo a casa una copia di Heilig Vuur (che, a conti fatti, è piuttosto sciapo) (Ancient Lies è la stessa roba, ma non penso proprio che lo comprerò).

VALLENFYRE – SPLINTERS

L’idea originaria era quella di suonare death metal alla vecchia e le credenziali c’erano tutte, dal momento che Greg Mackintosh e compagni non sono esattamente  quel che si direbbe dei novellini. Le cose si sono inevitabilmente sporcate di DOOM e il risultato non è malvagio, ma si potrebbe fare meglio.

BIOSPHERE – PATASHNIK 2

Geir Jenssen tira fuori dal cassetto 12 tracce inedite del periodo 1992-1994 e ci fa un disco intitolato Patashnik 2. Qualche tempo fa era uscito un disco intitolato Substrata 2, però l’operazione era di taglio diverso: si trattava essenzialmente di un remaster di Substrata più altra roba – ad ogni modo pare che mr. Biosphere abbia cominciato a riflettere sul passato alla domenica pomeriggio e che la nostalgia abbia preso il sopravvento. La conseguenza è stata quella di cominciare a far uscire dischi con nomi identici a suoi dischi precedenti ma con un due davanti. L’idea non è affatto male, dal momento che nei novanta sono uscite le sue cose migliori (Substrata spacca il culo agli orsi polari). E dunque si può dire che Patashnik 2 sia un disco roots (dove le radici di Biosphere sono Detroit, l’acid techno e IL GHIACCIO) – senza però rinunciare alla componente più ambientale del progetto (aka L’IPNOSI). Da recuperare/rivalutare sarebbero anche le collaborazioni con HIA e Namlook, ma non è questa la sede.

Anakin, sono tuo figlio

Alla base del mio ragionamento c’è il fatto che un gruppo per me fondamentale che non ho mai incrociato sulla mia strada mi ha cambiato la vita senza cambiarmela, cioè voglio dire che se invece l’avessi incrociato in tenera età e fosse diventato, come facilmente prevedibile, il mio gruppo preferito di sempre, probabilmente non avrebbe inciso una sola virgola sulla persona che sono ora, sulla musica che sento e scrivo adesso, e non so se questo determinismo in negativo lo qualifichi con un plus o un minus, ma santo dio quanto sono seminali senza seminare i Deftones.

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