Anteprima: SAN LEO – DOM

 

Corrieri cosmici di nuovo sulla traccia. Chitarra e batteria tutto quel che serve per restare in quota oltre i confini del subconscio; l’astronave Delta 9 è partita già da un po’, in questo caso, l’astronave sa essere mentale. Ogni riferimento conosciuto, saltato nel momento in cui parte la prima nota, il rituale si innesca, le porte della percezione scardinate e via si va. È dal vivo che la faccenda prende strade imprevedibili, ogni volta diverse, percorsi che finiscono sempre in territori inesplorati. La parte più interessante del viaggio: non la destinazione, il viaggio stesso. In questo senso, San Leo è un moltiplicatore di mondi, DOM la base di partenza; soltanto uno degli infiniti scenari possibili, il secondo resoconto biennale (parafrasando i Throbbing Gristle). I titoli dei pezzi, ancora una volta torrenziali flussi di coscienza come in un clash Lovecraft/Joyce ma preso bene, sono un’ipotesi, la cornice di un quadro che non smette di uscire dalla tela, vaghe coordinate, il resto – come diceva Neffa – è nella mente. Nessun bisogno di assumere sostanze psicotrope perché salga la botta, per cominciare a sentire i colori, vedere i suoni eccetera: sono gli effetti di questa cosa nel preciso istante in cui entra in circolo, espansione del cervello attivata di default come Johnny Mnemonic sull’orlo del collasso neurale ma senza dolore, solo stati alterati da far scappare via piangendo Ken Russell quanto Tim Leary: il film è la cosa vera, o viceversa, comunque una versione superpesa della realtà, migliore della realtà. Il cranio esplode come un cocomero preso a martellate, come nello sketch stigmatizzato da Bill Hicks ma serio, di colpo è di nuovo 1997 ma dopodomani, motori dell’Enterprise lanciati a massima potenza e scatta il florilegio di nomi di gruppi stoner che serve zero tirare in ballo quando potete agilmente sentire com’è schiacciando il tasto play.

Il vinile di DOM esce l’11 maggio. Come prima, produce Luca Ciffo, masterizza Rico. Cambia la lista di etichette che co-producono. Eccole:
Bleuaudio
E’ un brutto posto dove vivere

Brigadisco
DreaminGorilla Records
Vollmer Industries
Tafuzzy Records
Upwind Production
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Anteprime: MARNERO – LA MALORA

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“All’alba di un giorno qualsiasi, una nave entra nel Porto di una città stretta fra mare e foresta.”

La Malora è il terzo e quarto capitolo della Trilogia del fallimento (i precedenti capitoli erano Naufragio universale e Il sopravvissuto). Esce il primo gennaio e si ordina qui. Assieme al disco lo stesso giorno uscirà un romanzo, stesso titolo, scritto da J.D. Raudo ed edito da BéBert. Disco e libro sono divisi in capitoli, ognuno con protagonista un personaggio o una situazione diversa. Vi offriamo in anteprima lo streaming di L’Ubriaco e il Cieco, e i due capitoli del libro corrispondenti. Buona lettura, e buon ascolto.

 

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Anteprima: POST CONTEMPORARY CORPORATION – HEIMAT

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E così veniamo avanti. Tra ieri e oggi un niente, la differenza nel grado di consapevolezza, di logoramento raggiunti (o non raggiunti). Cose peggiori sono successe a tutti noi: il circo non era poi così buono come ci si aspettasse, il film faceva schifo, etc. Sai com’è. Il macchinario, fino all’ultimo ingranaggio, la meccanica, tutto quanto resta invariato; a discrezione personale il livello di partecipazione, di coinvolgimento nella cosa. Non è la volontà di continuare a farne parte a venire messa in discussione: chi ancora respira, ha occhi per vedere, sinapsi da attivare per sentire resta dentro, è matematico. Esiste un solo modo per uscirne del tutto e nessuno davvero in grado di raccontare com’è. Chi è qui è qui, chi non è qui è un’altra cosa qua, è tanto semplice (grazie Giovanni). Da punto A a punto B, il tempo una costante del tutto priva di significato, della benché minima connotazione morale; resta la burocrazia. I poliziotti del detersivo continuano a indicare la strada anche dove la coscienza nemmeno più pretende di fingere un indefinito simulacro, anche quando non è rimasto più alcun fascio di nervi da lavare. Coazione a ripetere, il cul de sac virtualmente eterno; nessuna reale percezione della cosa, come i cani, o gli insetti. Annamo avanti (volemose bbene è facoltativo), intrappolati in un continuum di cui si presuppone la fine, non si conosce l’inizio: non durerà per sempre, comunque sarà sempre troppo poco. Al netto della qualità del vissuto la somma di rimpianti sarà comunque schiacciante, ad avere il tempo per fermarsi a soppesare. Dimmi, non è così?, mandava in loop Emidio. È così.

Eppure qualcosa continua a giustificare la mossa per chi sta qua, a dare un senso agli sforzi per quanto futili, a spingere ininterrottamente a continuare a tribolare, quasi sempre a faccia in giù, quasi sempre nel fango; le pause troppo brevi per saper essere davvero rigeneranti, gli attimi di respiro rari e lontani uno dall’altro. Non importa. La motivazione è riassumibile in una sola parola (in questo la semantica è d’aiuto): biologia. Rendersene conto può essere un sollievo oppure no, non cambia la sostanza. Heimat è la sonorizzazione di quell’istante, il momento della presa di coscienza suprema; ci si può svegliare di soprassalto e trovare intorno soltanto macerie o non svegliarsi affatto e continuare a sognare (magari un giorno, come diceva Jeff Walker). Comunque non ci si sottrae, il giro in qualche modo continua; perché non è soltanto un giro, è IL giro. Le condizioni sono queste, siamo questo. Ho avuto un brutto sogno, è durato (inserire anni mesi giorni dalla nascita).

Heimat è il primo atto della trilogia dell’assedio: tre singoli in vinile, ognuno abbinato a una t-shirt con slogan propagandistico (“Vivere è una vergogna” in questo caso), a precedere la pubblicazione in CD di Patriottismo psichedelico. Post Contemporary Corporation il nome della cosa, Musica di un Certo Livello l’etichetta. In anteprima qui lo streaming.

Anteprima: IO e la TIGRE

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Da ragazzino avevo un cane. Cinque random facts sul mio cane.

1 si chiamava Snupi. Mio fratello voleva chiamarlo Lobo ma tutti gli altri pensavano che fosse un nome stupido, così si decise per un più neutro Snoopy perché all’epoca ero flippato per i Peanuts. Una mattina mio fratello si svegliò prima di me e mi lasciò un biglietto sul tavolo accanto alla colazione con scritto a caratteri cubitali “SEI PIÙ CANE DI SNUPI”. Quando lui e mia mamma andarono a registrare il nome, sembrò molto importante mantenere l’ortografia italiana corretta.

2 mangiava quasi solo avanzi. Avendo un negozio di alimentari in famiglia, non è che facesse esattamente la fame, e dopo qualche anno si ritrovò una panza allucinante. Mandava giù qualsiasi cosa ed era piuttosto geloso del cibo. Quando al negozio disossavano i prosciutti, portavano a casa l’osso con il prosciutto attaccato per spiluccarlo (spiluccare: termine romagnolo che descrive l’atto di spiluccare). Quando avevo finito di spiluccarlo gettavamo l’osso a Snupi perché ci giocasse. Quando avevo finito di spiluccarlo Snupi aveva già perso un paio di etti in sudori freddi, dopodiché dovevo stare attento a dove buttarglielo. Di solito lo facevo nel giardinetto sotto casa, di modo che nessuno avesse problemi. “Nessuno avesse problemi” si riferisce al fatto che quando Snupi aveva un osso nuovo, lui e l’osso giacevano al centro di un cerchio con un raggio di dieci metri, in cui se qualcuno entrava veniva assalito ferocemente e senza pietà. A volte era impossibile avvicinarsi al cane anche per due giorni.

3 mi piaceva una mia compagna di classe delle medie di nome Rachele (nome finto). Io ero una specie di genio della classe (quanto talento buttato) e lei mi aveva chiesto aiuto per qualche problema. Così ci eravamo messi d’accordo per studiare un pomeriggio a casa mia. Mi ero organizzato tre giorni prima per avere una stanza in cui non saremmo stati disturbati da mia madre nemmeno se avesse voluto farlo –cosa assolutamente probabile, così decisi di farlo nel vecchio soggiorno al piano di sopra, diviso dal resto della casa da due rampe di scale che mia madre non avrebbe affrontato anche solo per la schiena. Quel giorno Rachele venne davvero a studiare a casa mia. Si presentò bellissima coi capelli lisci e neri legati da un cerchio, gli occhi neri profondissimi ed una tuta verde immacolata, la ragazza più carina del mondo. Pensai quanto fosse incredibile che avremmo dovuto rimanere soli per due ore insieme, pensai “oddio glielo dico, mi piaci Rachele, voglio mettermi con te”. La accolsi in casa, la presentai a mia mamma e la portai al piano di sopra. Il problema è che nell’ultima ispezione per controllare che il salotto fosse a posto, avevo chiuso inavvertitamente Snupi nelle scale interne, fuori dall’appartamento. Snupi decise di protestare nel suo tipico modo passivo-aggressivo, e quando aprii la porta per andare di sopra scoprii che ci aveva fatto un monticello di diarrea subito dietro. così, nell’aprire la porta delle scale, disegnai inavvertitamente un semiarcobaleno di merda liquida nera e lucente che anni dopo avrei rivisto molto simile nel film Prometheus, e il tanfo improvviso non ebbe un buon effetto su Rachele, che passò il pomeriggio insieme a trattenere i conati. Considero pertanto Snupi l’unico vero ostacolo a quello che sarebbe stato, con ogni ragionevolezza, il mio futuro: convolare a giuste nozze con Rachele verso i diciott’anni e passare i pomeriggi a darle ripetizioni di matematica.

4 venne investito il giorno di natale. Era sostanzialmente impossibile tenerlo in casa, apriva buchi ad ogni recinto che tiravamo in piedi, a costo di scuoiarsi il corpo. Scopava con un riccio e litigava con gli altri cani, rischiava di finire sotto le macchine. Mentre pranzavamo coi cappelletti suonò il campanello, andai a rispondere, il mio vicino di casa mi disse “ciao francesco, buon natale! Vedi che hanno buttato sotto il tuo cane in fondo alla via”. Stava facendo a botte con un altro cane e una Fiat Tipo bianca non li vide. Lo portammo dall’unico veterinario di guardia il giorno di natale, probabilmente ubriaco, che gli fece una serie di cure e gli mise una stecca su una zampa. Lo portammo a casa con la parte posteriore del corpo che non funzionava, probabilmente per il trauma. Un altro veterinario ci insegnò a farlo pisciare premendo sulla pancia e a infilargli un clistere dietro per farlo cagare, e fu solo la terza veterinaria, due settimane dopo, a dirci che la spina dorsale era spezzata e che forse era il caso di smettere di farlo soffrire. Così, insomma, si beccò la puntura e una sepoltura illegale in un campo, la croce fatta con gli scassi e la legatura quadrata, come ai boyscout. Allego infografica legatura quadrata.

5 Non ho molte foto di Snupi. Tre o quattro in tutto, sfocate e piuttosto bruttine. Nel natale del 2012 mi arrivò una cartolina a casa che conteneva la pubblicità di qualcosa che poteva essere Sky. Sul divano, accanto a qualche persona sorridente, c’era un cane identico a Snupi, con la stessa macchia marroncina nello stesso punto; il clima natalizio e l’umore ballerino di quei giorni fecero il resto e passai più o meno una giornata a guardare la foto e piangere a dirotto. Delle volte, i cani.

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Il primo disco lungo di IO e la TIGRE uscirà il 10 dicembre per Garrincha Dischi. All’inizio del mese è uscito il video del primo brano. Gentilmente ci hanno concesso di ospitare la seconda anteprima: abbiamo scelto un brano che si chiama Io e il mio cane, che non parla esattamente di Snupi ma ha delle chitarre che spiluccano la carne dalle ossa. Buon ascolto.

 

(facebook QUI, Garrincha QUI, grazie Sfera Cubica, grazie tutti)

Anteprima: SAN LEO – XXIV

San Leo - XXIV cover

 

In quarta elementare sono stato in gita a San Leo con la scuola. Sveglia prima dell’alba, tempo orrendo, nessun raggio di luce all’orizzonte, sul pullman Vattene amore messa in loop da un autista evidentemente sadico. Alla prima i più informati sulle ultime novità discografiche hanno cominciato a cantare; alla quindicesima, di fila, dopo il trentesimo tornante, anche il più ostinato fan di Amedeo Minghi non cantava più.
Ha diluviato tutto il giorno. Anche nel pomeriggio, quando ci hanno portati a Italia In Miniatura; nel parco soltanto noi, le maestre e qualche inserviente blindato nelle baracchine che vendevano ciarpame fradicio di pioggia al niente. Avevo con me dei soldi, cinquemila lire mi pare, di cui potevo disporre a mio piacimento. Ho comprato una granita e una pistola giocattolo; a premere il grilletto riproduceva i rumori di una sparatoria. Ho tenuto il grilletto premuto ininterrottamente fino a esaurire la carica meno di tre ore più tardi. Tornati a scuola, prima che mio padre mi venisse a prendere ho fracassato la gamba di uno stronzetto di quinta giocando a calcio. Sapevo che il giorno dopo la maestra mi avrebbe sgridato davanti a tutta la classe, intanto la vaga sensazione di aver fatto qualcosa di giusto e un pezzo di plastica morto. La mia prima gita.

La rocca di San Leo si è svelata ai miei occhi di bimbo come qualcosa di minaccioso, enigmatico, mistico, fin dal primo sguardo: vero luogo dell’anima nel silenzio irreale, la pioggia, i cieli grigi e il nulla intorno. Le feritoie tra le mura lasciavano immaginare guerre cruente, insensati spargimenti di sangue o epidemie dal decorso penoso in tempi troppo lontani per poter venire visualizzati, se non attraverso il filtro distorto di vecchi film. La prigione era stata progettata per essere una prigione: quattro pareti senza una porta, venire calati dal soffitto e solo dal soffitto poterne uscire, destinazione una cassa di legno a essere fortunati, altrimenti erba verde.

Il motivo per cui i San Leo hanno deciso di chiamarsi San Leo scorre lungo i solchi di XXIV. La consistenza dell’aria che si respira dentro quelle mura riprende vita, imprigionata e magicamente traslata nel tinello di casa o ovunque altrove; connessione uomo–territorio più solida e viscerale che in un film di John Milius, pregnante più che in Walden di Thoreau ma con la nuda pietra millenaria al posto della campagna, watt a sfare a riempire il silenzio. Sono dettagli, per il resto stessa tensione, stesso magnetismo, stesse vibrazioni: la stasi innaturale come la quiete terribile che precede l’arrivo di un uragano, l’uragano, poi di nuovo quiete fino al prossimo assalto, e poi ancora. Tutto il disco è così. Chitarra e batteria la sola artiglieria, oltre a un muro di Marshall non serve altro per entrare nella dimensione parallela; quando e in che stato uscirne, se uscirne, le uniche variabili.
È una gara di resistenza tra una scarica di elettricità e l’altra – nel mezzo un sadico temporeggiare – sempre in trincea in attesa della nuova esplosione, annaspare stretti all’angolo come da un pugile drogato. Ogni pezzo parte liquido, come sangue che si espande nell’acqua o una chiazza d’olio che guadagna terreno, occasionalmente da qualche parte echi lontani di suoni che sembrano l’incrocio tra un organo da chiesa e un sonar lanciato nell’iperuranio, per poi virare in una trance tribaloide e malmostosa dalle infinite diramazioni, implacabile come un carrarmato, inderogabile quanto un rullo compressore con il freno sabotato.

Echi Earth ma personali (Pentastar senza la voce, ma pure Primitive And Deadly asciugato fino all’essenziale, sempre senza voce), gli Sleep di Jerusalem, un sacco di altra roba uscita a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, in quello strano varco spaziotemporale dove stoner, doom, rock psichedelico da altre ere si mescolavano con continuità e quella roba costituiva una scena e aveva un pubblico. Oggi, materia da plasmare che restituisce un senso e una consistenza a parole tipo esoterico, ancestrale, sulfureo, ossianico (eccolo il magico termine che significa tutto e niente, ricorrente nelle recensioni di dischi dai Black Sabbath in giu); l’impressione di essere finiti intrappolati, bloccati in un sottomondo, come la cella in cui ristagnava per interminabili ore giorni anni il conte Cagliostro. Qui il cerchio si chiude e i padiglioni auricolari si spalancano.

 

Il vinile di XXIV esce l’8 novembre; una coproduzione Corpoc/Tafuzzy Records. Produce Luca Ciffo, masterizza Rico. In anteprima qui lo streaming integrale.