i detrattori

Oggi ho letto 5 o 6 status su Facebook, giornalisti e addetti ai lavori, secondo cui l’inclusione di Liberato nel cartellone del prossimo Sonar è una bruciante sconfitta per i suoi detrattori (e.g.). Ecco, ci tengo a precisare che il mio totale disinteresse per la musica di Liberato (farcito da occasionali punte di fastidio nel dovermi trovare ad ascoltarlo in situazioni coatte) dipende più che altro dal mio gusto personale e dal mio modo di stare al mondo, due cose che non sono particolarmente scalfite dal fatto che l’estate prossima Liberato suoni al Sonar o alla sagra della porchetta di Verghereto. La buona notizia è che potete continuare ad  ascoltarlo per 20 ore al giorno da oggi al Sonar, senza che nessuno ne sia infastidito e provi a spiegarvi in cosa state sbagliando. 

Francesca Michielin – 2640 (alla luce della cover della Dark Polo Gang eseguita da Dolcenera)

C’è questa cosa ultimamente, mi trovo ad ascoltare di frequente dischi di cui so fin dall’inizio che troverò bruttissimi. Recentemente mi è successo con 2640 di Francesca Michielin, un’artista contro cui non ho niente ma che riesco a inquadrare solo in un’ottica di prodotto che francamente mi fa cacare sotto dalla paura. Non è facile spiegarlo, e dovrei tirare fuori qualche idea da vecchiaccio, ma visto che in fondo i fan della Michielin hanno quasi tutti il doppio dei suoi anni, ci provo comunque.

Parto da qui: vent’anni fa un cantante italiano aveva il suo pubblico. Questo pubblico era abbastanza definito, aveva delle caratteristiche anagrafiche e culturali, e non si mischiava agli altri –ogni tanto succedeva, ma non così spesso.  Per cui ad esempio quelle che oggi la critica chiama “sperimentazioni” (due beat smerdati) il cantante XXXXX le poteva fare per interesse personale stando bene attento che queste non rompessero troppo il cazzo al suo pubblico di riferimento, ove per “rompere il cazzo” non si intende ovviamente la presenza di troppi suoni sintetici quanto l’assenza di canzoni alla XXXXX. A voi è mai capitato di ascoltare un disco e pensare “non mi piace perché è troppo elettronico”? Neanche a me.

Questa ideologia sopravvive tranquillamente in tutti i cantanti di quella generazione. Ad esempio Jovanotti si circonda da 25 anni di ospiti illustri e musicisti con le palle quadrate ma il nocciolo duro del suo pubblico è ancora composto, giustamente, da gente che di quegli ospiti illustri non sa cosa cazzo farsene. Lo stesso può fare ad esempio Cremonini, il quale archi e tutto quel che vuoi ma sta ancora in piedi perché cià i pezzi e nello specifico ha quei pezzi, roba tutto sommato simile ai primi anni di carriera. O che so, il fatto che Vasco abbia deciso di riconcepire il suo live come quello di un gruppo metal non gli ha dato un seguito metal. Ma al contempo ci sono nuove generazioni che non hanno iniziato a muovere i passi in un periodo più misto, più generico, dove non dovevi necessariamente scegliere se essere la Pausini o i CCCP, e quindi oggigiorno ci sono tanti ibridi, tanta gente che prova a infilarsi tra un genere e l’altro. Aggiungiamo una cosa: la canzone italiana non è più necessariamente la roba che la gente ascolta. I cantanti sanremesi hanno un pubblico meno numeroso e meno importante –gli Stadio, i più commoventi e meritevoli vincitori di Sanremo dell’ultimo decennio, sono passati con nonchalance dal trionfo sul palco dell’Ariston alla festa del PD di Varallo Pombia, o dove cazzo suonano di solito gli Stadio. I più attenti osservatori del pop odierno vedono in queste cose un eccesso di entropia, o comunque una situazione di squilibrio culturale, ma va detto che i più attenti osservatori del pop odierno sono le stesse teste di cazzo che mi hanno convinto ad ascoltare il nuovo disco di Francesca Michielin. Ma ponendo che abbiano le loro ragioni, la canzone italiana oggi è a un bivio: se vuoi crearti un pubblico devi provare ad agganciare qualcuno che riesca a vedere oltre Radio Italia. In questo si può spiegare anche il successo commerciale di gente come Thegiornalisti o Coez, cioè gente che viene da qualche parte e ha visto un’apertura e ci si è infilata, assumendosi in prima persona i rischi che questo comporta. È una cosa che si può apprezzare, e a dire il vero non è un concetto così differente da quello che –sempre vent’anni fa- voleva provare ad imporre commercialmente quel mistone casuale tra cantautorato e rock alternativo. Una volta mi pare di aver letto una frase del genere: “se i Verdena sono la risposta italiana ai Nirvana, portatemi qui davanti il tizio che ha fatto la domanda”. L’idea è grossomodo la stessa alla base della Michielin, ma applicata ad una diversa contingenza culturale: vent’anni fa la commistione era un bene assoluto, e al contempo si ragionava a compartimenti stagni. Banalmente, vent’anni fa nessuno di quelli come me si sarebbe sognato di ascoltare il disco di Francesca Michielin, perché qualunque gioia ci potesse ragionevolmente promettere non avrebbe pagato l’onta di averci sporcato la fedina musicale. Questo oscurantismo ha tanti lati negativi, sia chiaro. Primo tra tutti il fatto di averci precluso un mare di musica che oggi possiamo solo recuperare fuori tempo massimo o scegliere di continuare ad ignorare colpevolmente. Voglio dire, quale persona sana di mente potrebbe preferire un disco degli Strife a un disco di Mango?

Ma oggi il contesto è diverso. Abbiamo aperto le finestre e abbiamo sentito che aria tira, e francamente non c’è un cazzo da stare allegri. La filosofia della commistione ha fallito miseramente nei suoi principali obiettivi –creare dialogo, creare progresso, creare bellezza. E al contempo tutti ascoltano più o meno tutto, più per il bisogno di far trascendere tutte le discussioni che per altro. Oggi, tanto per dire, stanno smettendo di chiamarlo indie e iniziando a chiamarlo it-pop (una definizione cesellata dentro a Diesagiowave, il più grande merdaio formatosi in questi anni nell’universo sociale che gravita attorno alla Nuova Musica Italiana, e quindi per molti versi un preziosissimo laboratorio culturale; c’è un articolo di Fede Sardo su Noisey che ne parla), e questo è indicativo di una delle grandi sfide che questa musica sta lanciando a se stessa –conservare i livelli attuali di gradimento senza sbattere in faccia al pubblico l’immaginario del cazzo che ha messo in piedi. 2640 di Francesca Michielin è l’ultimo baluardo di questa idea, un disco pieno di quei momenti di testo orizzontali alla Calcutta stile “pensavo che non so cos’è l’indaco e che ti voglio tanto bene”, molti dei quali manco scritti da Calcutta –e molti dei quali sì. E nel momento in cui sei disposto a riconoscere che il singolo magari ha perfino una sua ragion d’essere, dopo aver sentito il disco intero come se qualcuno ti avesse messo del Rohypnol nel bicchiere e tu ti fossi svegliato nudo e pesto a un concerto di Galeffi, senza ricordare niente di come ci sei arrivato.

Dicevo, i giorni scorsi riflettevo su questa cosa e non riuscivo a trovare la quadra. Alla fine della fiera stanno tutti lì a buttare il piedino sul baratro dell’impossibile e nessuno che faccia mai un salto. Ma ieri cazzeggiavo su Facebook e ho visto Dolcenera che tanto per farne una si filma mentre esegue Caramelle della Dark Polo Gang al pianoforte. Ecco, se è mai successo qualcosa di anche lontanamente paragonabile qualcuno mi dica dove e quando, perché qua l’intellighenzia sta ancora a cincischiare di casse dritte situazionismo e Amanda Lear, e tutte le cose che ho messo su carta son buone sì e no per accendere il camino.

A proposito di, boh, indie

Qualche settimana fa è uscita un’intervista su Noisey, realizzata da Federico Sardo, in cui veniva svelato urbi et orbi che il progetto Cambogia era una gag. L’intervistato era l’autore della gag stessa, che in realtà lui non chiama “gag” bensì

“progetto (di) estremizzazione della figura del cantante indie”

“esperimento sociale volto a sottolineare la maggiore importanza attribuita all’hype rispetto alla reale proposta musicale”

“un’opera vivente che potesse interagire con il pubblico e le dinamiche legate al mondo della musica”

“uno specchio deformante riflesso sulla nuova guardia cantautorale”

“un vero e proprio esperimento sociale per esplorare le dinamiche del mondo musicale odierno fondato sulla predominanza dell’hype rispetto al contenuto effettivo”

Se non sapete chi sia Cambogia, un brevissimo resumé. A un certo punto è uscito il video di questo tizio, una via di mezzo tra Calcutta e Dario Margeli che fin dal nome tirava la giacchina a Calcutta. Il video è stato condiviso con le solite modalità con cui questa roba viene condivisa: “è una gag”, “è uno sfigato”, “è cariiino”; sulle prime sembrava chiaro che fosse una gag, poi questo ha tirato fuori un disco intero –così qualcuno ha iniziato a chiedersi se non fosse uno che sfotteva ma proprio un wannabe, diciamo, tipo Un Incoerente Come Tanti (ve lo ricordate?). E il disco è stato recensito come se fosse un disco vero, qualunque cosa questo significhi. E poi la gag il progetto di estremizzazione è stato svelato. In un arco di tempo abbastanza lungo queste puttanate situazioniste danno sempre somma zero: chi s’è innamorato del disco s’è innamorato a gratis, chi s’è incazzato s’è incazzato a gratis, chi ha gongolato ha gongolato a gratis. Nessuno ha guadagnato un soldo, nessuno ha perso una lira; nella pagina FB intanto gli autori della gag opera vivente continuano a postare, sfottendo con sagacia quelli che s’incazzano e quelli che io non ne ho mai sentito parlare e quelli che tanto si sapeva che. Hanno sempre ragione loro, essendo appunto queste puttanate sempre a somma zero, e la chiave di tutto è tutta dentro al titolo dell’intervista di Fede (il quale, avendo una testa, tende quasi sempre a pubblicare pezzi che puntano a dare una dimensione in più alle cose). Il verbo “trollare” ha un significato preciso, che ho paura a cercare su wiki ma credo abbia a che fare con l’assenza di cervello, col fare incazzare e col gratis, appunto. In tutto questo, in cosa si misura il “successo” di Cambogia?

A proposito di titoli: negli stessi giorni in cui la gag lo specchio deformante sulla realtà di Cambogia viene svelato, esce un articolo su Rockit, firmato Margherita G. Di Fiore, e intitolato “è giusto provare fastidio se le band che disprezziamo hanno successo?”. L’articolo prende le mosse dal fatto che un botto di gente sta esprimendo pubblicamente il proprio fastidio per l’ultimo singolo dei Thegiornalisti, che si chiama Riccione e ok, è un pezzo davvero molto brutto se avete gusti simili ai miei -non tanto come canzone, cioè la canzone è bruttina, ma è proprio il modo di giocare con l’immaginario a cui i Thegiornalisti ciucciano così avidamente la mammella a indisporre. 

(In senso stretto l’articolo non parla dei Thegiornalisti. Parla di odiare i gruppi che hanno successo e contiene foto dei Thegiornalisti.)

Naturalmente una volta che inizi a leggere scopri abbastanza in fretta che è un articolo a tesi, cioè parte dal presupposto inscalfibile che non sia giusto provare fastidio se le band che disprezziamo hanno successo, e cerca di fornire un contesto a questa sorta di postulato, in una maniera anche abbastanza coraggiosa ed accurata (nel senso che si prende il rischio di suonare antipatico e supponente in molti tratti, ed è ok). E ovviamente dal punto di vista di chi l’ha scritto è un pezzo onesto e in buona fede, forse ha pure le sue buone ragioni, come del resto hanno le loro buone ragioni quelli che fanno le gag gli esperimenti sociali e i progetti di estremizzazione della figura del cantante indie, tipo Savastano o Liberato o chi cazzo altro volete voi.

Margherita nel suo articolo identifica quattro categorie di hater, o persone che si lamentano del successo degli artisti indie che ce la fanno: vecchi nostalgici, musicisti falliti, integralisti/elitari e riccardoni. Io credo di far parte dei primi, i vecchiacci nostalgici, “quelli che dopo gli anni novanta non è stato prodotto nulla di buono, che ai tempi miei il rock era un’altra cosa, che i gruppi indie erano indie e che hanno visto concerti che tu non potrai vedere. E te lo fanno pesare”. Purtroppo non posso farne a meno, nel senso che le mie fisime derivano almeno in parte dalla mia età anagrafica, e se scegliessi di dare un’immagine di me come di un intellettuale pacificato ed ascetico che ha scoperto IL SEGRETO e non è irritato dalla musica, diciamo che sarebbe facile capire che è una posa. E del resto il grande non-detto di questo articolo, e della mentalità che lo genera, è che tutte le categorie di hater dei gruppi di successo sono riconducibili a una sola macrocategoria, i cosiddetti “sfigati” o la cosiddetta “gente che non scopa”. 

Credo sia anche importante reclamare la sfiga e il non scopare come diritto inalienabile della persona, e soprattutto come una delle pietre angolari della scrittura musicale. Ad esempio, io quando leggo il titolo dell’articolo di Rockit mi incazzo come una bestia. Primo per una questione formale: perché l’articolo è a tesi “non è giusto lamentarsi se le band che disprezziamo hanno successo” e nel titolo lo metti in forma di domanda? Secondo: mi fa girare le palle che la parola “successo” sia sinonimo di “performance commerciale”, ed è la stessa cosa che mi fa incazzare nella gag esperimento sociale di Cambogia. Questa forse la devo spiegare.

Quando si parla di “successo” ci si riferisce ad un obiettivo. Ad esempio un esperimento scientifico è definito un successo quando consegue i risultati che si sperava. La stessa cosa riguarda ad esempio la cucina, ad esempio se provo a fare la pasta in casa il “successo” è che la pasta son riuscito a mangiarla e mi è piaciuta. Il contrario di “successo” è “fallimento”, quindi l’esperimento fallisce se non dà i risultati sperati, o se la pasta è venuta un pappone di merda che tocca buttare nel cestino. Semplice, no? Ok. Nell’imprenditoria si parla di successo nel momento in cui qualcuno guadagna dei soldi, ma anche qui c’è un obiettivo alle spalle. Esempio banale: disegno una maglietta, la stampo, la vendo su internet e per qualche imperscrutabile ragione migliaia di persone iniziano a comprarla, facendomi guadagnare un pacco di soldi. Il fatto che siamo abituati a comprare e ascoltare musica proveniente dal cosiddetto mainstream (sì, è un termine che viene dalla mia epoca) ha fatto sì che l’industria musicale avesse la stessa impronta –un disco è un successo se guadagna soldi, un tour è un successo se guadagna soldi, un singolo è un successo se guadagna soldi, eccetera. Non c’è niente di male in questa impostazione, ovviamente, ma la musica è comunque in una certa misura un’arte, e come tale può avere esigenze che non le permettono di stare dentro questo sistema economico. 

In effetti l’idea che la musica debba avere come obiettivo di arrivare a un numero più alto possibile di persone è totalmente arbitraria, spesso imperfetta e in certi casi totalmente assurda. La musica di solito esiste all’interno di un contesto specifico in cui si riescono a creare le condizioni ideali perché possa essere ascoltata. Un esempio stupido sono tutte le cose patrocinate pubblicamente, ad esempio il circuito della musica classica –che si tiene in piedi attraverso una complicata struttura di teatri e auditorium la cui esistenza è possibile perché qualcuno al comune è flippato con le filarmoniche e se ne batte il cazzo se Rachmaninov non fa più il break even. Il tutto mentre gli arpisti scioperano e le testate nazionali li sfottono perché “non sono consapevoli di come funziona il mercato”, gli ingenui. 

Nel passato sono stati sviluppati diversi modelli economici alternativi il cui obiettivo dichiarato era di dare somma zero, senza dover necessariamente passare dal pubblico. Uno di questi è appunto l’indie, un network organico incrementale nato verso i primi anni ottanta, nel quale ci si dà una mano a vicenda per tener su la baracca allo scopo di –boh- vedersi dei concerti. Quando ero giovane si usava parecchio la parola “sbattersi”. Era un periodo di cui effettivamente qualcuno della mia età parla con nostalgia, ma era anche e soprattutto un mondo ingenuo, la cui purezza implicava l’utilizzo di dinamiche e rituali patetici, a cominciare appunto dall’uso della parola “sbattersi”. Ma anche al di là del vocabolario, si poteva finire in croce per qualsiasi minchiata. Tra le cose che ho visto ai concerti (“che tu non potrai vedere”) ci sono:

  • risse scoppiate a dei festival DIY perché due banchetti vendevano lo stesso disco a un euro di differenza;
  • campagne di boicottaggio di un gruppo/locale/festival perché s’è saputo che il cantante o l’organizzatore ha preso a ceffoni la fidanzata;
  • gente che iniziava il concerto dissociandosi dai testi del gruppo che aveva suonato prima, seguita da gente che si dissociava dal gruppo che si dissociava;
  • gruppi presi a insulti e oggetti per aver parlato troppo tra un pezzo e l’altro (tipo 30 secondi);
  • gruppi tagliati fuori dal giro di concerti e festival per aver scritto una frase equivocabile sul sito;
  • risse online perché dei gruppi DIY accettavano di suonare in apertura a dei gruppi grossi, in posti col biglietto d’ingresso troppo alto (tipo 18 euro per gli ATDI nel 2000);
  • gruppi invitati a suonare in un posto, a cui all’ultimo momento viene impedito di suonare da chi li ha invitati perché uno dei membri ha una toppa sul giubbotto *forse* fascista (e in realtà no).

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(parlo di “indie” per i Thegiornalisti. La ragione è che quando la gente prende a scorregge i Modà, casualmente, quelli delle webzine e dei blog non hanno un cazzo da obiettare)

(tra le altre cose nessuno di questi dice mai “insultate Diego Fusaro solo perché lui ha successo”. Ma immagino che sia diverso, lì si parla di cultura, giusto?) 

Nel 2017 è anche difficile spiegare la forma mentis sulla base di cui succedevano cose come queste. Chi se ne frega se l’altro banchetto fa il disco a un euro in più? Lo compro dove costa meno. E se il concerto per me costa troppo non ci vado, e chi cazzo se ne frega dei testi di un altro gruppo o di cosa si mette addosso un musicista? Per certi versi la musica ci ha pure guadagnato: qualunque cosa sia il cosiddetto “indie italiano” oggi, si è abbastanza smarcato da queste psicosi ed incidentalmente sta vivendo uno dei suoi migliori periodi di sempre. Anche i vecchiacci nostalgici sono perlopiù d’accordo su questa cosa: tanti gruppi buoni, tanti concerti buoni, tanti dischi buoni. Ognuno ha la sua lista. Negli ultimi giorni sto ascoltando tantissimo il disco dei Bennett, ed è un disco che stavo aspettando da anni, decenni, non so. Quel tipo di concetto lì, intendo: una forma musicale basilare (noisecore, boh) in cui la differenza è data dal fatto che suonano con più cattiveria di tutti gli altri. In questo per dire i Bennett sono un gruppo di “successo”, nel senso che hanno un’idea musicale, la tirano fuori al meglio delle loro possibilità, si distinguono, suonano necessari e mi inchiodano il culo. ll loro “successo di pubblico” è che se li metti dentro a un festival, assieme ad altri dieci gruppi, a fine serata te li ricordi. 

A quei tempi, tra le altre cose, era consentito parlar malissimo dei gruppi dal punto di vista artistico, anzi era un po’ la base ideologica di tutta la faccenda: certa roba mi piace un casino, certa roba mi fa schifo al cazzo. Parlo di quel che adoro e di quel che detesto, e questo è più o meno quanto. Magari il cantante del gruppo scopre che l’ho insultato, ci facciamo una litigata e poi boh, tutto a posto. 

Una cosa interessante: le logiche autorigeneranti di pulizia etnica anti-hater hanno falciato anche l’indie vero e proprio. Tanto per dire, dei gruppi come i Bennett nessuno parla mai male, e questa cosa mi fa sentire un po’ così –io li adoro, ma vorrei che fosse una cosa un po’ più mia, ecco tutto. Ci sono tante ragioni per cui questa cosa succede –non sono dei mediocri, non si raccolgono amici quando se ne parla male. Ma la principale ragione per cui nessuno ne parla mai male è che i Bennett sono evitabili. Se non te ne frega un cazzo di loro puoi non ascoltarli, e questo significa all’atto pratico cancellarne l’esistenza alle tue orecchie: è ragionevole pensare che non sarai costretto a vederli contro la tua volontà, né che la tua fidanzata ti costringa a sentire il disco a casa, né niente del genere. Se non ascolti i Bennett, non li ascolti. Non è una banalità: tanto per dire, cinque o sei anni fa ho giurato a me stesso che non avrei mai ascoltato una canzone dei Thegiornalisti (era dovuto a una stronzata di cui poi s’è persa memoria). Oggi passo la mia vita circondato da pezzi in cui Paradiso è performer, autore o guest star. Sono costretto a farmene un’opinione, giusto? Mi dispiace che sia negativa, davvero, non ho nessun problema personale con Paradiso, non credo lui ne abbia con me, suppongo faccia la cosa che gli piace, no? è tutto un meccanismo, lo si può condividere o ci si può pisciare sopra. La novità di oggi è che si può fare tutte e due le cose nello stesso momento.  

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Negli ultimi mesi ho letto articoli che debunkavano la “balla” del soldout dei Thegiornalisti a Milano, articoli che gioivano dell’annullamento dei tour di qualche artista fuoriuscito dai talent (scritti spesso da gente che sui talent ha sempre mangiato); ho letto analisi puntuali e dettagliate di fenomeni sostanzialmente inesistenti (tipo che so, “la corsa a rivendere il biglietto dei Radiohead”). Personalmente credo che ci sia un problema di espressione, di terminologia, forse di cultura. Non è solo legato alla parola “indie”, ha a che fare con la cultura dell’ascolto. Siamo disincentivati a porci problemi legati al linguaggio, ad esempio, perché porseli è noioso e rivelatore della nostra frustrazione sessuale. Ed è un modo come un altro di sbracciarsi per entrare a giocare un minutino, in una partita che sai già per certo finirà zero a zero. Tanto per dire, mentre cercavo di dare al pezzo una conclusione qualsiasi, Rockit ha pubblicato un’intervista a Takagi e Ketra intitolata “Non si può piacere a tutti”. E a qualche ora di distanza gli autori del disco di Cambogia hanno annunciato, dalla pagina “ufficiale” di Cambogia Cantante Falzo, che hanno preso in mano il progetto, cambieranno nome e continueranno a suonare. Sembra ci sia stata una specie di rovesciamento interno, non so esattamente cosa, i videomaker sono stati estromessi, gli altri andranno avanti, tutto a posto, ci si becca in giro. 

OFFERTA DI LAVORO – collaboratore freelance per il sito bastonate.com

Massimo mi ha fatto leggere questo annuncio. Sta girando parecchio per i posti, in realtà. In pratica si tratta di un sito, molto famoso, che cerca un collaboratore esterno che sia disposto a (non) farsi assumere a cottimo, 25 euro lordi per un articolo di 10mila battute, editato su WP ed ottimizzato per SEO, e senza manco poterlo firmare -cioè manco ti paga la differenza in “visibilità”, per così dire. Questo stando al bando pubblicato sul sito. Fa un po’ male perchè insomma, sì, ecco, fa male in generale sapere che queste cose vengano chieste, a prescindere da chi le chieda. Ma stando a questa intervista il sito di cui sopra produce al giorno in media “nove articoli, che aggiorniamo o scriviamo ex novo“. Ponendo che questa sia la media aritmetica di 365 giorni l’anno, vuol dire 3285 articoli, che se fossero scritti tutti dallo stesso volonterosissimo collaboratore esterno (90mila battute al giorno) costerebbero al committente un totale di 82125 euro. Sui quali il più che volenteroso collaboratore dovrebbe ovviamente pagare le tasse e tutto quanto (82mila euro non è che te li puoi intascare con una ritenuta d’acconto), ma vista così non è manco una brutta cifra, a parte che il ritmo produttivo è tipo un Ulisse di Joyce ogni due settimane. I due problemi sono che A il sito di cui sopra, per quanto ne so, è un sito che fa solo questa cosa qui, e B stando all’intervista linkata più in alto il sito di cui sopra nel 2016 ha un fatturato che nel 2016 “sfiora i 2 milioni”. Vale a dire che col contratto di cui al bando, il costo di produzione dei contenuti del sito è pari al 4% del fatturato totale.

(immagino che ci sia altra gente impiegata nella società e una struttura commerciale e tutto il resto, mica voglio fare il puro, magari me la prendo un po’ troppo, ma il sito sta dichiarando più o meno di essere intenzionato a spendere per la propria esistenza fisica un venticinquesimo di quel che incassa ) 

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Superata l’obbligatoria fase di rodimento iniziale, comunque, l’annuncio mi ha fatto riflettere. In fondo, boh, non sappiamo per certo com’è stata costruita la piramide di Cheope, no? Magari era nato tutto con un bando per collaborazione esterna, con ritenuta d’acconto e manleva, in un papiro affisso fuori dalle città -il geroglifico non era chiarissimo, non c’erano così tanti lettori, le note in basso magari erano scritte troppo in piccolo e il geroglifico dell’occhio lo si scambiava facilmente per una cassa mortuaria rituale. Lì per lì qualcuno magari s’era sentito, diciamo, non adeguatamente ricompensato, ma voglio dire, non è pazzesco aver preso parte a una cosa così enorme, il cui indiscutibile fascino storico ed artistico si estende per quasi 5000 anni? Ecco: utilizzare le condizioni strutturali della new economy, magari allo scopo di portare a termine una visione di portata inconcepibile. In altre parole, Bastonate cerca nuovi collaboratori a contratto, secondo le condizioni che seguono. 

  • La collaborazione con il sito bastonate.com è a titolo provvigionale ed è quantificata nel 90% dell’incassato netto del collaboratore. Cerco di spiegare come funziona: vi tenete mezza mattina libera, dalle 9 alle 11 circa, e in quel tempo scrivete il pezzo che andrà su Bastonate. Dopo averlo inviato a me, a mo’ di cauzione, vi potrete recare presso un supermercato a scelta nella vostra città (lo staff di bastonate.com, in cambio della provvigione, potrà fornirvi una consulenza per individuare le strutture con il maggior potenziale economico, tramite un algoritmo autogenerato di cui non ci sentiamo liberi in questa sede di specificare le caratteristiche), e inziare attività di coin scouting.
  • L’attività di coin scouting consiste nell’appostarsi appena fuori dalle casse, aiutare la clientela a portare il carrello della spesa in macchina e riportare il carrello nell’apposita rastrelliera, in cambio di un compenso pari alla moneta inserita nel carrello stesso. Ad esempio, se una persona riesce a portare a posto 8 carrelli all’ora, a una media di 0,90 euro a carrello, l’incasso lordo sarà 7,20 euro l’ora -che dalle 11 alle 21, potenzialmente, possono significare 72 euro di incasso giornaliero, cioè (in una settimana lavorativa di 6 giorni) circa 1728 euro al mese. La parte bella? ESENTASSE. Magari buttate un occhio di tanto in tanto, se vedete poliziotti in zona prendetevi un paio d’ore di pausa.
  • Alla fine del turno di coin scouting il collaboratore comunicherà il ricavato giornaliero al suo referente nel sito bastonate.com. A quel punto la redazione potrà programmare l’uscita del pezzo. La struttura organizzativa del sito tratterrà il 10% della cifra incassata al supermercato dal redattore, a titolo di consulenza (sia per l’attività di redazione che per quella di coin scouting). Il 10% è sul fatturato lordo per disincentivare gli sprechi produttivi (EG va bene se di tanto in tanto vi fermate e prendete un caffè, ma non voglio essere io a pagarveli)
  • Si richiede collaborazione continuativa nel tempo, e a tutela della collaborazione stessa il sito bastonate.com potrebbe impegnarsi a minacciare il collaboratore, ogni qualvolta il suo fatturato nell’attività di coin scouting risulti sotto-budget.
  • Il compenso non è legato alla quantità di articoli prodotti, in effetti esiste un meccanismo di incentivi alla non-produzione di cose scritte, in favore di un incremento dell’indotto legato all’attività di coin scouting.
  • Gli articoli pubblicati su bastonate.com non presentano elevatissimi requisiti dal punto di vista editoriale. In effetti, ad essere sinceri, il comitato di redazione ha un certo debole per le supercazzole. La proprietà intellettuale e la responsabilità legale degli articoli rimangono al collaboratore esterno, che per prassi interne alla redazione viene identificato dallo pseudonimo “uomo piramide” unito al numero ordinale di sottoscrizione del contratto.
  • I pagamenti al sito bastonate.com verranno effettuati con rimessa diretta a vista, due volte l’anno, presso un casello autostradale la cui ubicazione è concordata al momento della stipula. 

Se questo vi interessa, potete inviare la candidatura all’indirizzo mail piramidi@bastonate.com. (se la mail vi torna indietro magari provate a insistere)

(nota a margine: sembra che il contratto con il nostro illustratore, uomo piramide 4, si stia risolvendo. è probabile quindi che per un po’ gli articoli di Bastonate siano addobbati con foto del mio gatto) 

In difesa del metal turistico ai festival indie

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La mia dimensione concertistica ideale ha a che fare col disimpegno. Passata una certa età trovo piuttosto difficile avere a che fare con qualunque cosa succeda dopo le 23. L’ultimo concerto metal duro e puro a cui mi sono presentato non lo ricordo nemmeno più. Avete presente di cosa parlo? Quelli del giro Bologna in cui il gruppo principale suona ad un orario fetido, anticipato da cinque gruppi ugualmente pestoni: mi rompo le palle. Non voglio dire che i musicisti emergenti dovrebbero rifiutarsi di aprire le date degli Entombed AD, ma all’atto pratico il mio festival ideale avrebbe un cartellone che prevede dieci ore di indierock melodico, elettropop di merda, rap minimale e folk intimista, e poi un singolo gruppo pesantissimo che suona un set di 45 minuti e manda tutti a casa. Magari il giorno dopo avrei pure il coraggio di sottolinearlo coi miei amici, “impossibile dare conto dell’intensità degli High On Fire ieri sera, della manifesta superiorità con cui han fatto il culo a tutti i cazzari indiemmerda che hanno avuto i coglioni di presentarsi sul palco prima e dopo di loro”. Ci sta. Ma la verità è che due o tre gruppi dell’intensità degli Entombed uno di fila all’altro, mi fanno lo stesso effetto del pranzo a base di cozze al matrimonio di mia seconda cugina. La presenza di uno o due gruppi ultrametal (quest’anno sono gli Slayer) nel cartellone del Primavera sta solo a significare che di gente come me ce n’è tanta ed è gente che continua a pagare il biglietto del festival.