
Qualche settimana fa è uscita un’intervista su Noisey, realizzata da Federico Sardo, in cui veniva svelato urbi et orbi che il progetto Cambogia era una gag. L’intervistato era l’autore della gag stessa, che in realtà lui non chiama “gag” bensì
“progetto (di) estremizzazione della figura del cantante indie”
“esperimento sociale volto a sottolineare la maggiore importanza attribuita all’hype rispetto alla reale proposta musicale”
“un’opera vivente che potesse interagire con il pubblico e le dinamiche legate al mondo della musica”
“uno specchio deformante riflesso sulla nuova guardia cantautorale”
“un vero e proprio esperimento sociale per esplorare le dinamiche del mondo musicale odierno fondato sulla predominanza dell’hype rispetto al contenuto effettivo”
Se non sapete chi sia Cambogia, un brevissimo resumé. A un certo punto è uscito il video di questo tizio, una via di mezzo tra Calcutta e Dario Margeli che fin dal nome tirava la giacchina a Calcutta. Il video è stato condiviso con le solite modalità con cui questa roba viene condivisa: “è una gag”, “è uno sfigato”, “è cariiino”; sulle prime sembrava chiaro che fosse una gag, poi questo ha tirato fuori un disco intero –così qualcuno ha iniziato a chiedersi se non fosse uno che sfotteva ma proprio un wannabe, diciamo, tipo Un Incoerente Come Tanti (ve lo ricordate?). E il disco è stato recensito come se fosse un disco vero, qualunque cosa questo significhi. E poi la gag il progetto di estremizzazione è stato svelato. In un arco di tempo abbastanza lungo queste puttanate situazioniste danno sempre somma zero: chi s’è innamorato del disco s’è innamorato a gratis, chi s’è incazzato s’è incazzato a gratis, chi ha gongolato ha gongolato a gratis. Nessuno ha guadagnato un soldo, nessuno ha perso una lira; nella pagina FB intanto gli autori della gag opera vivente continuano a postare, sfottendo con sagacia quelli che s’incazzano e quelli che io non ne ho mai sentito parlare e quelli che tanto si sapeva che. Hanno sempre ragione loro, essendo appunto queste puttanate sempre a somma zero, e la chiave di tutto è tutta dentro al titolo dell’intervista di Fede (il quale, avendo una testa, tende quasi sempre a pubblicare pezzi che puntano a dare una dimensione in più alle cose). Il verbo “trollare” ha un significato preciso, che ho paura a cercare su wiki ma credo abbia a che fare con l’assenza di cervello, col fare incazzare e col gratis, appunto. In tutto questo, in cosa si misura il “successo” di Cambogia?
A proposito di titoli: negli stessi giorni in cui la gag lo specchio deformante sulla realtà di Cambogia viene svelato, esce un articolo su Rockit, firmato Margherita G. Di Fiore, e intitolato “è giusto provare fastidio se le band che disprezziamo hanno successo?”. L’articolo prende le mosse dal fatto che un botto di gente sta esprimendo pubblicamente il proprio fastidio per l’ultimo singolo dei Thegiornalisti, che si chiama Riccione e ok, è un pezzo davvero molto brutto se avete gusti simili ai miei -non tanto come canzone, cioè la canzone è bruttina, ma è proprio il modo di giocare con l’immaginario a cui i Thegiornalisti ciucciano così avidamente la mammella a indisporre.
(In senso stretto l’articolo non parla dei Thegiornalisti. Parla di odiare i gruppi che hanno successo e contiene foto dei Thegiornalisti.)
Naturalmente una volta che inizi a leggere scopri abbastanza in fretta che è un articolo a tesi, cioè parte dal presupposto inscalfibile che non sia giusto provare fastidio se le band che disprezziamo hanno successo, e cerca di fornire un contesto a questa sorta di postulato, in una maniera anche abbastanza coraggiosa ed accurata (nel senso che si prende il rischio di suonare antipatico e supponente in molti tratti, ed è ok). E ovviamente dal punto di vista di chi l’ha scritto è un pezzo onesto e in buona fede, forse ha pure le sue buone ragioni, come del resto hanno le loro buone ragioni quelli che fanno le gag gli esperimenti sociali e i progetti di estremizzazione della figura del cantante indie, tipo Savastano o Liberato o chi cazzo altro volete voi.
Margherita nel suo articolo identifica quattro categorie di hater, o persone che si lamentano del successo degli artisti indie che ce la fanno: vecchi nostalgici, musicisti falliti, integralisti/elitari e riccardoni. Io credo di far parte dei primi, i vecchiacci nostalgici, “quelli che dopo gli anni novanta non è stato prodotto nulla di buono, che ai tempi miei il rock era un’altra cosa, che i gruppi indie erano indie e che hanno visto concerti che tu non potrai vedere. E te lo fanno pesare”. Purtroppo non posso farne a meno, nel senso che le mie fisime derivano almeno in parte dalla mia età anagrafica, e se scegliessi di dare un’immagine di me come di un intellettuale pacificato ed ascetico che ha scoperto IL SEGRETO e non è irritato dalla musica, diciamo che sarebbe facile capire che è una posa. E del resto il grande non-detto di questo articolo, e della mentalità che lo genera, è che tutte le categorie di hater dei gruppi di successo sono riconducibili a una sola macrocategoria, i cosiddetti “sfigati” o la cosiddetta “gente che non scopa”.
Credo sia anche importante reclamare la sfiga e il non scopare come diritto inalienabile della persona, e soprattutto come una delle pietre angolari della scrittura musicale. Ad esempio, io quando leggo il titolo dell’articolo di Rockit mi incazzo come una bestia. Primo per una questione formale: perché l’articolo è a tesi “non è giusto lamentarsi se le band che disprezziamo hanno successo” e nel titolo lo metti in forma di domanda? Secondo: mi fa girare le palle che la parola “successo” sia sinonimo di “performance commerciale”, ed è la stessa cosa che mi fa incazzare nella gag esperimento sociale di Cambogia. Questa forse la devo spiegare.
Quando si parla di “successo” ci si riferisce ad un obiettivo. Ad esempio un esperimento scientifico è definito un successo quando consegue i risultati che si sperava. La stessa cosa riguarda ad esempio la cucina, ad esempio se provo a fare la pasta in casa il “successo” è che la pasta son riuscito a mangiarla e mi è piaciuta. Il contrario di “successo” è “fallimento”, quindi l’esperimento fallisce se non dà i risultati sperati, o se la pasta è venuta un pappone di merda che tocca buttare nel cestino. Semplice, no? Ok. Nell’imprenditoria si parla di successo nel momento in cui qualcuno guadagna dei soldi, ma anche qui c’è un obiettivo alle spalle. Esempio banale: disegno una maglietta, la stampo, la vendo su internet e per qualche imperscrutabile ragione migliaia di persone iniziano a comprarla, facendomi guadagnare un pacco di soldi. Il fatto che siamo abituati a comprare e ascoltare musica proveniente dal cosiddetto mainstream (sì, è un termine che viene dalla mia epoca) ha fatto sì che l’industria musicale avesse la stessa impronta –un disco è un successo se guadagna soldi, un tour è un successo se guadagna soldi, un singolo è un successo se guadagna soldi, eccetera. Non c’è niente di male in questa impostazione, ovviamente, ma la musica è comunque in una certa misura un’arte, e come tale può avere esigenze che non le permettono di stare dentro questo sistema economico.
In effetti l’idea che la musica debba avere come obiettivo di arrivare a un numero più alto possibile di persone è totalmente arbitraria, spesso imperfetta e in certi casi totalmente assurda. La musica di solito esiste all’interno di un contesto specifico in cui si riescono a creare le condizioni ideali perché possa essere ascoltata. Un esempio stupido sono tutte le cose patrocinate pubblicamente, ad esempio il circuito della musica classica –che si tiene in piedi attraverso una complicata struttura di teatri e auditorium la cui esistenza è possibile perché qualcuno al comune è flippato con le filarmoniche e se ne batte il cazzo se Rachmaninov non fa più il break even. Il tutto mentre gli arpisti scioperano e le testate nazionali li sfottono perché “non sono consapevoli di come funziona il mercato”, gli ingenui.
Nel passato sono stati sviluppati diversi modelli economici alternativi il cui obiettivo dichiarato era di dare somma zero, senza dover necessariamente passare dal pubblico. Uno di questi è appunto l’indie, un network organico incrementale nato verso i primi anni ottanta, nel quale ci si dà una mano a vicenda per tener su la baracca allo scopo di –boh- vedersi dei concerti. Quando ero giovane si usava parecchio la parola “sbattersi”. Era un periodo di cui effettivamente qualcuno della mia età parla con nostalgia, ma era anche e soprattutto un mondo ingenuo, la cui purezza implicava l’utilizzo di dinamiche e rituali patetici, a cominciare appunto dall’uso della parola “sbattersi”. Ma anche al di là del vocabolario, si poteva finire in croce per qualsiasi minchiata. Tra le cose che ho visto ai concerti (“che tu non potrai vedere”) ci sono:
- risse scoppiate a dei festival DIY perché due banchetti vendevano lo stesso disco a un euro di differenza;
- campagne di boicottaggio di un gruppo/locale/festival perché s’è saputo che il cantante o l’organizzatore ha preso a ceffoni la fidanzata;
- gente che iniziava il concerto dissociandosi dai testi del gruppo che aveva suonato prima, seguita da gente che si dissociava dal gruppo che si dissociava;
- gruppi presi a insulti e oggetti per aver parlato troppo tra un pezzo e l’altro (tipo 30 secondi);
- gruppi tagliati fuori dal giro di concerti e festival per aver scritto una frase equivocabile sul sito;
- risse online perché dei gruppi DIY accettavano di suonare in apertura a dei gruppi grossi, in posti col biglietto d’ingresso troppo alto (tipo 18 euro per gli ATDI nel 2000);
- gruppi invitati a suonare in un posto, a cui all’ultimo momento viene impedito di suonare da chi li ha invitati perché uno dei membri ha una toppa sul giubbotto *forse* fascista (e in realtà no).
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(parlo di “indie” per i Thegiornalisti. La ragione è che quando la gente prende a scorregge i Modà, casualmente, quelli delle webzine e dei blog non hanno un cazzo da obiettare)
(tra le altre cose nessuno di questi dice mai “insultate Diego Fusaro solo perché lui ha successo”. Ma immagino che sia diverso, lì si parla di cultura, giusto?)
Nel 2017 è anche difficile spiegare la forma mentis sulla base di cui succedevano cose come queste. Chi se ne frega se l’altro banchetto fa il disco a un euro in più? Lo compro dove costa meno. E se il concerto per me costa troppo non ci vado, e chi cazzo se ne frega dei testi di un altro gruppo o di cosa si mette addosso un musicista? Per certi versi la musica ci ha pure guadagnato: qualunque cosa sia il cosiddetto “indie italiano” oggi, si è abbastanza smarcato da queste psicosi ed incidentalmente sta vivendo uno dei suoi migliori periodi di sempre. Anche i vecchiacci nostalgici sono perlopiù d’accordo su questa cosa: tanti gruppi buoni, tanti concerti buoni, tanti dischi buoni. Ognuno ha la sua lista. Negli ultimi giorni sto ascoltando tantissimo il disco dei Bennett, ed è un disco che stavo aspettando da anni, decenni, non so. Quel tipo di concetto lì, intendo: una forma musicale basilare (noisecore, boh) in cui la differenza è data dal fatto che suonano con più cattiveria di tutti gli altri. In questo per dire i Bennett sono un gruppo di “successo”, nel senso che hanno un’idea musicale, la tirano fuori al meglio delle loro possibilità, si distinguono, suonano necessari e mi inchiodano il culo. ll loro “successo di pubblico” è che se li metti dentro a un festival, assieme ad altri dieci gruppi, a fine serata te li ricordi.
A quei tempi, tra le altre cose, era consentito parlar malissimo dei gruppi dal punto di vista artistico, anzi era un po’ la base ideologica di tutta la faccenda: certa roba mi piace un casino, certa roba mi fa schifo al cazzo. Parlo di quel che adoro e di quel che detesto, e questo è più o meno quanto. Magari il cantante del gruppo scopre che l’ho insultato, ci facciamo una litigata e poi boh, tutto a posto.
Una cosa interessante: le logiche autorigeneranti di pulizia etnica anti-hater hanno falciato anche l’indie vero e proprio. Tanto per dire, dei gruppi come i Bennett nessuno parla mai male, e questa cosa mi fa sentire un po’ così –io li adoro, ma vorrei che fosse una cosa un po’ più mia, ecco tutto. Ci sono tante ragioni per cui questa cosa succede –non sono dei mediocri, non si raccolgono amici quando se ne parla male. Ma la principale ragione per cui nessuno ne parla mai male è che i Bennett sono evitabili. Se non te ne frega un cazzo di loro puoi non ascoltarli, e questo significa all’atto pratico cancellarne l’esistenza alle tue orecchie: è ragionevole pensare che non sarai costretto a vederli contro la tua volontà, né che la tua fidanzata ti costringa a sentire il disco a casa, né niente del genere. Se non ascolti i Bennett, non li ascolti. Non è una banalità: tanto per dire, cinque o sei anni fa ho giurato a me stesso che non avrei mai ascoltato una canzone dei Thegiornalisti (era dovuto a una stronzata di cui poi s’è persa memoria). Oggi passo la mia vita circondato da pezzi in cui Paradiso è performer, autore o guest star. Sono costretto a farmene un’opinione, giusto? Mi dispiace che sia negativa, davvero, non ho nessun problema personale con Paradiso, non credo lui ne abbia con me, suppongo faccia la cosa che gli piace, no? è tutto un meccanismo, lo si può condividere o ci si può pisciare sopra. La novità di oggi è che si può fare tutte e due le cose nello stesso momento.
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Negli ultimi mesi ho letto articoli che debunkavano la “balla” del soldout dei Thegiornalisti a Milano, articoli che gioivano dell’annullamento dei tour di qualche artista fuoriuscito dai talent (scritti spesso da gente che sui talent ha sempre mangiato); ho letto analisi puntuali e dettagliate di fenomeni sostanzialmente inesistenti (tipo che so, “la corsa a rivendere il biglietto dei Radiohead”). Personalmente credo che ci sia un problema di espressione, di terminologia, forse di cultura. Non è solo legato alla parola “indie”, ha a che fare con la cultura dell’ascolto. Siamo disincentivati a porci problemi legati al linguaggio, ad esempio, perché porseli è noioso e rivelatore della nostra frustrazione sessuale. Ed è un modo come un altro di sbracciarsi per entrare a giocare un minutino, in una partita che sai già per certo finirà zero a zero. Tanto per dire, mentre cercavo di dare al pezzo una conclusione qualsiasi, Rockit ha pubblicato un’intervista a Takagi e Ketra intitolata “Non si può piacere a tutti”. E a qualche ora di distanza gli autori del disco di Cambogia hanno annunciato, dalla pagina “ufficiale” di Cambogia Cantante Falzo, che hanno preso in mano il progetto, cambieranno nome e continueranno a suonare. Sembra ci sia stata una specie di rovesciamento interno, non so esattamente cosa, i videomaker sono stati estromessi, gli altri andranno avanti, tutto a posto, ci si becca in giro.