Katy Perry è una strega?

 

Instagram: @katyperry

Negli anni Cinquanta e Sessanta il Satanasso usava infiltrarsi tra le facce gentili dei girl group rappresentando quella sottile oscurità che si imbrunisce al contatto col pallore, un diavoletto scherzoso che trasformava in tragedia le voluttà della musica adolescenziale e che amava vestirsi da sera e partecipare alle danze. Seguendo una traduzione del ballo come ritualità, che deriva in qualche modo dalle tematiche superstiziose del delta folk, questa pratica maligna (puramente americana, in opposizione all’occultismo fin troppo svelato della cultura europea), senza rispondere ad alcun perché se non quello di trovare casa nei piaceri della plastica, ha continuato a dare mostra di sé nell’attualità del pop post-adolescenziale e del mondo “bubblegum”. Ovviamente rispetto alle silhouette sciancate della figura diabolica di primo Novecento il tutto si è riciclato in un’estetica oltre il confine del visibile, in linea con le raffigurazioni merceologiche del capitalismo cognitivo, trovando terreno fertile in produzioni multimilionarie. Se nel 2007 Britney si rasava a zero e Lady Gaga iniziava a giocare con riferimenti androgini, massonici e Illuminati-friendly, la carriera di Katy Perry ha ugualmente dimostrato affinità con l’altro lato.

Mentre il Washinghton Post si affretta a descrivere la nuova scena americana come un concentrato di alprazolam e tensioni portate al deliquio, la Perry risponde con un vitalismo superomistico così scintillante che viene il dubbio nasconda un motore magico o quantomeno misteriosofico. D’altra parte, come scrive Culianu, la magia nel mondo moderno, prima di una ricaduta nelle costrizioni scientiste, altro non è che «un metodo di controllo dell’individuo e delle masse basato su una profonda conoscenza delle pulsioni erotiche individuali e collettive». Una meta-scienza incentrata sul potere dell’immaginazione che lavora su quei fondamentali di psicosociologia che così bene sembrano funzionare in coppia con l’attivazione delle pulsioni sessuali: una “strategia di ritorno” che attraverso pupille dilatate e labbra rosse parla un linguaggio archetipico, di quei “sigilli siderali” a cui accennava già Ficino. Irreggimentato nel mondo ipersociale e tecnologico dell’oggi il mago-psicologo di Giordano Bruno torna, sfiorando da una parte il mondo dell’industria culturale, dall’altra le tentazioni del post-umano, come prototipo dei «sistemi impersonali dei mass media, della censura indiretta, della manipolazione globale e dei brain-trusts che esercitano il loro controllo occulto sulle masse occidentali». Ovviamente a noi non interessa nessun complottismo, nessuna chiacchiera rettiliana e neanche quelle pratiche di bassa lega che accorpano l’indagine dei videoclip alle congiure di palazzo, quanto piuttosto una valutazione della forza del simbolo come strumento di controllo del magico. Eppure niente di troppo complesso, in fondo è certamente più interessante da notare un nuovo taglio di capelli come indizio di un’affiliazione iniziatica che sviscerare ogni dettaglio sperando di scovare le ragioni di un successo commerciale; nella ricostruzione ideale di un fittizio clima di caccia alle streghe, è importante dirlo, è bene tifare per le streghe, portatrici di una matrice vitalistica in opposizione al grigiore socio-finanziario a cui il mondo del pop ci ha spesso abituato sciacallando di volta in volta rappresentazioni sessiste o razziali, il tutto ovviamente sospendendo un giudizio di qualità sulle produzioni musicali a cui eventualmente queste pratiche hanno portato.

I video della Perry si prestano da sempre al simbolo. Dark Horse (2013) ad esempio fa bella mostra dell’occhio di Horus in quasi ogni inquadratura, mentre la diva si impersona di volta in volta in Apep, la deificazione serpentiforme del caos, o in Isis alata, la dea che in ogni società occulta rappresenta la porta per la verità. Di questo brano l’esibizione più clamorosa rimane quella ai Grammy del 2014 dove la Perry rompe gli indugi e si fa introdurre da una voce fuori campo che recita: «She casts spells from crystal balls / Invoking spirits / She put me in a trance», saldando, un attimo dopo, attraverso la messa in scena il rapporto con la stregoneria. Sfere di cristallo, figure longilinee dalle corna piegate a capro, l’evocazione di un cavallo nero che rimanda all’equino apocalittico cavalcato dalla Carestia e di cui si accenna nell’Apocalisse di Giovanni, un vestito che tra le trasparenze sfoggia una templaresca croce rossa e poi la più tristemente nota delle rappresentazioni della strega: il rogo. La Perry in mezzo alle fiamme, aggrappata ad una scopa come fosse un palo da lapdancer, appaiando l’aspetto erotico a quello magico-iconografico.

Pure la recente Chained To The Rhythm – che è di per sé uno di quei grandi midtempo della Perry a cui viene naturale augurargli un bel remix polvere-di-stelle – ha qualcosa da dire in merito all’utilizzo di un linguaggio magico come controllo. Il messaggio è certamente più politico del solito: «Are we crazy? / Living our lives through a lens / Trapped in our white-picket fence / Like ornaments / So comfortable, we live in a bubble, a bubble / So comfortable, we cannot see the trouble, the trouble» canta riferendosi ad un’umanità addomesticata in un innocuo parco giochi (Oblivia/Oblivion), il cui logo è un criceto che corre dentro la tipica ruota. Oltre ad una critica semplicistica della contemporaneità Vigilant Citizen suggerisce una lettura “double think” in cui la chiamata alle armi della Perry ad un’umanità docile ed assonnata nasconde una volontà yes-global di rivoluzione permanente, che, ammettiamolo, fa bene il paio con la pubblicità ritirata della Pepsi in cui Kendall Jenner stigmatizza la rivolta di strada ed affida il marchio come strumento del potere biopolitico: «By creating specific “issues” and emphasizing solutions fixing these issues, the global elite has been hard at work creating a fully integrated world system where social and economic policies transcend national borders to be decided on a global level». La caccia all’indizio lungo il video si spreca, dalle citazioni orwelliane fino ad Essi vivono di Carpenter, dallo zucchero filato a forma di fungo atomico all’indottrinamento via occhialetti 3D come in un richiamo distopico della descrizione del futuro pilotata dalla General Motors alla New York World’s Fair del ’39. Ovviamente l’immagine plastificata di una leziosa rivoluzione del ceto medio americano può anche essere letta al contrario, e forse in ogni direzione, senza dover per forza sorreggere la lettura di Vigilant Citizen, c’è però un momento in cui la stregoneria torna a disturbare la scena che nel caso si risolverebbe come una semplice invettiva alla vanità del sogno americano; il white-picked fence, lo steccato bianco che delimita tipicamente le proprietà private, prende fuoco nell’esibizione ai Grammy Awards, corroborando con fiamme infernali la volontà di distruzione dei simboli stanziali. Predizione di un futuro di dolore? Ai Brit Awards le case prendono addirittura vita, tutoreggiate da due scheletri in odore di negromanzia. Qualcuno ha visto nelle due figure Trump e la May per cui vale l’endorsement alla Clinton, ma come spiegare la scelta di presentare un corpo di ballo formato appunto da case, non certo la struttura più sinuosa o il simbolo più seduttivo da proporre ad un pubblico di adolescenti? Venti nomadici e tribalità dei “nuovi deserti”?

Dark Horse, Grammy Awards 2014

C’è però chi è andato oltre la supposizione e ha accusato direttamente la Perry di fare affari col diavolo: un gruppo di suore ha tacciato la nostra di stregoneria e, senza giri di parole, di aver venduto l’anima al demonio. La vicenda è curiosa: due anni fa Katy ha offerto circa quindici milioni di dollari per comprarsi un intero convento a San Feliz in California, le suore si sono così opposte con ogni mezzo alla transazione sicure che la cantante potesse desecrare il luogo. La questione è finita davanti al giudice, che ha poi dato ragione alla Perry, previa autorizzazione del Vaticano; questo non ha fermato però le suore da utilizzare termini come witchcraft davanti alle autorità. Il convento, tanto per non farsi mancare collegamenti col maligno ed oltre ad essere stato teatro di suicidi, si trova accanto ad una villa in cui nel 1969 seguaci di Charles Manson assassinarono i coniugi Leno e Rosemary LaBianca, ovviamente seguendo il conosciuto e tremendo procedimento d’esecuzione rituale. Sorella Rita, nel corso del processo, ha inoltre incalzato la cantante su un’altra questione a cui ci preme accennare: cioè cosa ci facesse nel 2014 a Salem, località del Massachusetts diventata il celeberrimo simbolo della stregoneria mondiale a partire dalle terribili persecuzioni del 1692. Infatti, nello stesso anno dell’esibizione sabbatica ai Grammy, la Perry pensò bene di partecipare alla Salem Witch Walk, per molti nient’altro che un’attrazione turistica, per altri, come le suore in questione, un indizio in più, in cui le cronache ci raccontano di una Perry in visita al più antico witch store di Salem intenta a compiere “un incantesimo d’amore”. Le fotografie della scampagnata sono poi spuntate sui social, tra statue di draghi, cani vestiti da umani, sfere di cristallo e sedicenti streghe, senza farsi mancare una visita culturale al Witch Museum. In effetti nessuno sa cosa abbia portato alla Perry questa visita né dettagli su eventuali incantesimi, c’è però da dire che le ultime sortite pubbliche ce la mostrano in forma smagliante, finalmente a suo agio nello sfoggiare abiti perfettamente stregoneschi, bilanciando l’haute couture con una rivisitazione dell’abbigliamento da fattucchiera del nuovo millennio: al MET Gala di New York, tenutosi lo scorso primo Maggio, la Perry si è presentata con un Maison Margela disegnato da John Galliano di estremo impatto e dai probabilissimi sottotesti simbolici. Un décortiqué rosso in lana ricamata, stratificato su tulle e nastri di raso in “100% bright red witch”. È però il velo che copre il volto e si fa strascico a colpire di più, presentando due “torrette” di figure di geometriche a mo’ di corna posizionate ai lati della testa e la scritta in nero witness (“testimone”) sugli occhi. Testimone di cosa? Del fuoco? Inoltre la simbologia della sposa richiama senza dubbio uno dei più celebri dipinti di area misteriosofica del Novecento: La vestizione della sposa di Max Ernst, sul quale molto è stato scritto anche in chiave occultista. «Un mantello splendido e convulsivo, fatto dall’infinita ripetizione di piume rosse, senza eguali, di un uccello raro, indossato dai capitribù hawaiani» lo descriveva André Breton, senza fare menzione ad altri riferimenti come la sovrapposizione con la dea Minerva come parte del matrimonio esoterico o la testa di gufo che richiama la pratica del “volo notturno”, principale abilità attribuita storicamente alle streghe.

A questo punto, per chiudere il cerchio, non ci resta che sperare che Katy spunti pure nei report sugli spirit cooking, i rituali thelemici di Marina Abramović a base di sangue mestruale, latte materno, urina e sperma a cui, secondo i dossier di Wikileaks, hanno partecipato alcuni esponenti della campagna elettorale della Clinton, della quale la Perry in qualche modo ha fatto parte attivamente. Al contrario dei soliti bacchettoni che hanno visto come un indicibile oltraggio queste pratiche, a noi pare invece un’ottima strategia commerciale e politica, e che ci porti ancora tormentoni estivi strutturati sul nostro bisogno di superstizione.

Aphex Twin emerge a Glastonbury: punto della situazione, possibili scenari futuri.

L’altro venerdì Aphex Twin è spuntato dalla nottata di fanghiglia a Glastonbury con un set che seppure annebbiato dall’orario e dalle condizioni del mondo intero ha dato a diversi l’impressione di rappresentare strane simbologie, snodi brutali per chi segue le tracce di Richard James e della sua assenza. Ci aveva abituati fino a poco tempo fa ad alcune botte mentali sul concetto di techno millenarista, uno stile di nuovo percussivo di nuovo immaginato sul filo che lega il Classics su R&S ad una decongestione del concetto di hardcore come unica musica veramente umana, veramente pedagogica e autenticamente mentale, la cosa più pura e vicina all’anima “negativamente architettonica” del ballo e della vita. Chi segue AFX sa che questo suo aspetto live ha continuato ad esistere negli anni e che in fondo è la radice di ogni sua cifra stilistica (Windowlicker ha fatto giusto le fortune di MTV, storicamente rimane solo il prototipo di un’epoca mai sbocciata), come esempio su tutti qualcuno si ricorderà il modo con cui descrisse il clima nella serata al Link di Bologna nell’inverno del 2002, un tempo piuttosto tetro, anni in cui potevi morire ogni volta che oltrepassavi l’autostrada. Io non ero nemmeno maggiorenne, le discoteche si raggiungevano al buio e al freddo, forse in macchina ma era come andarci a piedi.

Ad ogni modo la techno percussiva ha avuto modo di sputtanarsi pure lei e probabilmente nel peggiore dei modi, eppure sembrava incorruttibile, proprio perché appariva costruita sui nervi cranici di ognuno di noi senza ulteriori sovrastrutture, senza retorica, eppure eppure.. Alcuni invincibili della provincia toscana, ricordo, passarono direttamente dalla dance generalista a Detroit dopo aver sentito Jeff Mills in Fortezza Medicea, anni dopo l’orizzontalità wikipedica dei blog musicali e dell’indiesnobismo si sarebbe divorata anche le carcasse, dando vita a corpiciattoli monchi che citavano come ispirazione la new wave o i Throbbing Gristle – mentre la techno, per sopravvivere, avrebbe dovuto cibarsi solo di se stessa. Ogni tanto spuntava ancora qualche santone a ricordare a tutti come si teneva l’elmetto in testa, citiamo Surgeon o il Luke Slater a nome Planetary Assault System, ma parallelamente al Berghain già si usavano gli stessi suoni come carrozzone meccanicamente riproducibile, tornando così sul luogo del delitto della minimal. Intanto Aphex era già oltre, nel 2004 aveva inaugurato la stagione analogica, cercando di retrocedere ancora la nascita dell’hardcore, tuttavia la serie degli Analord indubitabilmente soffriva di un certo sapore d’archivio, disattendendo ancora una volta l’ormai largamente mitologizzato “nuovo livello”. Ora va anche detto che Aphex con questa storia dell’archivio ci ha sempre giocato e bisogna prenderla con le molle; quando uscì Druqks disse che erano pezzi vecchi e ci facemmo convincere (ascoltato oggi, specialmente nelle parti di piano preparato, non sembra proprio), con Analord quasi lo sottintese, in una delle sue ultimae interviste ha addirittura dichiarato di avere pronti una decina di nuovi album, tutti creati in serie dal modello di un album mai uscito (Melodies From Mars).

Torniamo ad oggi, a Glasto la sua apparizione a nome DJ AFX (moniker granguignolescamente normcore, chissà se si è ispirato a lui) è avvenuta in un clima di completo sfascio, nell’umido del nulla tra una bombardata in Palestina e altre notti insonni, davanti a gente devastata e sorda come dopo una granata scoppiata vicino. Il tutto – almeno concettualmente – a seguito del disastro della Rephlex, sprofondata nell’indifferenza dello stesso Richard James, passata dall’essere la luce delle technoheads a specie di net-label senza neanche un sito ufficiale (per far capire l’andazzo: rephlex.com redirecta alla pagina Discogs) costretta a vendere pezzi pregiati su eBay per permettere a Grant Wilson-Claridge di pagarsi almeno le bollette della corrente. In realtà non escludo neanche che questa via carbonara ed esentasse sia solo il côté di una scelta estetica e di autonarrazione storica dentro ai famosi “tempi che corrono” ma, come per il resto delle cose, è sempre meglio iniziare a valutare le cose in termini economici.

Inoltre al di là dell’impalcatura molto ibizenica da dove l’altra sera il nostro metteva i dischi c’è questa foto scattata successivamente al Glade Stage che descrive bene il vago lo-fi di questo Richard James che nel frattempo ha deciso pure di farsi riallungare ai capelli come in gioventù; un sottobosco di piccoli segni, trasandatezza mal calcolata, il tendone d’incerato, lui dietro al mixer in disparte, quasi nascosto dal pubblico, seduto su una sedia da campeggio con il giacchetto appoggiato sullo schienale come quando alle elementari eravamo troppo timidi per permetterci l’attaccapanni all’entrata. La foto è quasi una versione IDM di quella di Bersani al bar con la birra.

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Non solo sensazioni comunque, c’è anche molta ciccia. Il set restituisce ancora AFX come l’unico artista contemporaneo in grado di sconvolgere, sconvolgere tanto e sempre, anche a questi livelli, l’unico che riesce veramente a dare forma al non-immaginato, a pescare nel mare dei suoni non-sentiti e delle forme del non-visto, tutto può ogni volta succedere e ancora i suoi set brillano di quello spirito bambino ma molto consapevole tra onoreficenze ai padri putativi e un suono che rimanda sempre a se stesso come in un riallineamento continuo tra la morte di sè e la morte della musica. Che poi è la descrizione dei suoi pezzi e dei suoi dischi migliori: appunto quella lucidità raggelante che non sembra rimandare a nient’altro se non ad un vago concetto di hardcore continuum ma condiviso con nessun’altro, ghiacciato da un sentimentalismo inconcepibile. Nella pessima qualità audio della registrazione (qui una versione scaricabile leggermente migliore) e fermo restando che di un dj set sempre si tratta (ma su Aphex si può ragionare solo così, attraverso le briciole) a noi pare di scorgere qualcosa che somiglia alla presa in forma di un nuovo livello, forse il preannuncio di qualcosa che sta mutando, di nuovo il racconto più perfetto dei pallori della vita contemporanea, con quella precisione narrativa che gli mancava da un po’. Innanzitutto si presenta molto più ricettivo, anche verso cose che non ti aspetteresti, cose che ballano i giovani, parlo di Jam City, L-Vis, addirittura Blawan, tutto comunque miscelato in una sagoma psichedelica che gli artisti in questione non riuscirebbero comunque a permettersi.

Capitano alcune cose nei primi minuti del set, quella più rilevante sono forse le sirene trasformate in urla infernali che appaiono e scompaiono dal mix, sotto si picchia duro ma non durissimo, gli echi vocali assumono fattezze robotiche di dimensioni greenvelvetiane per poi tornare in zona The Courts. Vale la pena notare questa strana verve robotizzante perchè è il presagio allo shock della mezz’ora circa, il momento in assoluto più sconvolgente attribuibile all’Aphex miscelatore che possa ricordare: tiro basso, cani che abbaiano come se Who Let The Dogs Out l’avesse composta Kevin Martin e da qui in poi sono almeno venti minuti di puro terrore industriale, battiti bassi e paludosi, le facce cadono e non solo le maschere, si scorgono rimandi all’industrial tipico dei primi anni Novanta, diciamo Techno Animal ma con un senso di oppressione diverso, con quella spietatezza che Aphex sembrava aver sepolto da qualche tempo, suoni che si geometrizzano in scala ma senza diventare nuda forza numerica, di tanto in tanto sparisce addirittura la cassa, su tutto una colata nera di epopea cyberpunk, cyberpunk in quella maniera mortifera come solo poteva essere immaginata la definizione nel 1991. Si continua oltre per quasi una mezz’ora prima che l’onda lunga di questo corpo possente ma malaticcio, traforato da tubi, lasci il passo ad un set più classicamente aphexiano.

L’azzardo è alto, forse ipervalutiamo scelte di miscelazione che sono estemporanee e naturali per uno che ha dalla sua parte una cultura musicale enciclopedica, o forse l’anno prossimo finisce davvero che esce una sua versione illbient di Loco dei God. L’abbozzo di pochi minuti ci riporta di nuovo alla narrazione di sè (intesa come narrazione di ogni io presente nel pubblico nell’improbo tentativo di immaginarsi dentro Richard) perfettamente calata in un mondo post-capitalista da declino dell’Occidente, esattamente come nei set di dieci o quindici anni fa metteva in musica la pericolosità lisergica dei giorni troppo luminosi da annerire la retina. Comunque ci pare almeno di intravedere sensazioni generali, configurate dentro e oltre un periodo storico ed artistico che non riesce a produrre musica se non in un gioco di continui rimandi; sembra ieri che ci dicevano che nei parcheggi posteriori degli Walmart si potesse ascoltare solo witch house o oggi pomeriggio che non può esistere altra musica veicolata attraverso internet che non sia vaporwave, spacciata come unico modello sonoro dell’accelerazione del capitale astratto. Invece ora se nuovi suoni, una specie di novello grunge della techno, venisse aperto da Aphex Twin, anche solo per quanto vale il suo nome in moneta, la questione sarebbe molto diversa. Anche perchè sintomi di qualcosa che sta accadendo ce ne sono, anche a livello di movimentazione globale; mentre Aphex suonava a Glastonbury usciva la notizia di Oneohtrix Point Never in tour per l’America più sciabbiona con Soundgarden e Nine Inch Nails, intanto Lopatin cambiava pure il logo scimmiottando i Korn e dichiarando di preparare per gli show un live di “customized hard rock cyberdrone”, parole sue. Ora Lopatin non fa altro che sostituire i Death Grips in un tour già da tempo definito ma l’accostamento di Soundgarden e OPN ci rimanda quasi a quelle fascinazioni d’altri tempi tipo Springsteen coi Suicide o i Napalm Death con qualcun altro, oltretutto per chi segue Lopatin sa quanto sia attento all’evolversi delle questioni di gusto nel villaggio globale e soprattutto quanto sia restìo ad utilizzare appigli anche solo vagamente collusi col mondo della musica rock. E’ tutto da vedere ma comunque non categoricamente escluso che questo 2014 possa scollinare in delay infiniti di In Utero moltiplicati in accelerazione geometrica fino alla completa perdita di sè, automatizzata, robotizzata in onde di suono stretchate coi più banali VST freeware; tanto che pure la goffa ed infantile definizione di “cyberdrone” o la registrazione rubata da un telefonino qualche brividino ce lo rendono, tanto che qualche immagine di una techno più tattile eppure purgata dall’esaltazione muscolare e inconcludentemente libidinale del rock comunque ci appare.

(nelle puntate precedenti)