Ho ascoltato un disco peso figo e quindi lo scrivo su Bastonate, ma il vero titolo di questo pezzo voleva essere “ERE Bal” per prendere la scia d’odio verso Efe Bal

L’aratro passa sulla schiena più avanti nel disco

Tolgo i sigilli dalla crack house con i murales alla merda che è l’inbox riservata ai comunicati stampa e l’infografica che ne deriva potrebbe essere quella di un dodi-tredici-quattor-quindicenne coi denti al brillocco e la rima facile tra cabernet e cobret. Hanno vinto loro, ha vinto la figa su instagram, ha vinto Veltroni che ha regnato incontrastato su tutte le scene artistiche old-school di questo paese. Sono tre anni che non scrivo di musica, non leggo un comunicato stampa, piscio seduto sul cesso della mia Babele impermeabile che puzza di autocensura onanistica, perdita di interesse e mi risveglio solo con un messaggio Whatsapp di Farabegoli del tipo “ti giro il disco nuovo degli Storm{O} che magari torni a scrivere”, il tutto letto con le voci di Calenda prima e Barisoni poi.
Qualche anno fa c’ero rimasto sotto con SOSPESI NEL VUOTO BRUCEREMO IN UN ATTIMO E IL CERCHIO SARÀ CHIUSO, memore oltretutto di un live nel basement-scannatoio dell’XM24 del tipo “entro e vedo se esco”: con ERE dopo 4 giri di play è più o meno lo stesso tuffo di testa contro un badile di taglio.
Zero pippe sulla salvaguardia della specie dell’hardcore nostranone, ma solo tanta credibilità spalmata con il consueto tiro da mannaia sulle dita e titoli dei pezzi a parola singola, sentenze su sentenze fatte a pezzi e seppellite come 4 anni fa, per essere riesumate un ascolto dietro l’altro ed una frattaglia alla volta, per rimettere insieme, di nuovo, quel concetto per cui per avere qualcosa da urlare su un pezzo screamo/hardcorequalchecosa non basta solo parlare in prima persona plurale.
Io il disco l’ho ascoltato in anteprima perchè sono un potere forte del sionismo, in realtà esce il 2 Febbraio in vinile arancione attraverso l’aggiotaggio di Legno, Moment Of Collapse e Shove, ci ha messo le mani anche un tizio di New York.

The New Year – Snow

 

Ho letto un’intervista a Bubba Kadane in cui parla del disco nuovo e del fatto che alcuni dei pezzi sono vecchi di sette o otto anni e sono stati registrati in posti diversi, e questa cosa cozza abbastanza forte con l’idea che mi ero fatto in testa -la quale comunque era abbastanza assurda, avevo questo film dei New Year che si fanno una grigliata a casa di Chris Brokaw o cose così, e a un certo punto Matt Kadane inizia a strimpellare un giro di chitarra, hai presente che nel garage di Chris Brokaw è sempre tutto montato con la backline i microfoni e tutto, no? Ecco. Poi gli altri che son lì con le loro mogli e i bambini dicono, porco$%o, spetta che questo giro qui è buono, spetta che prendo il basso e vediamo se. E qualcun altro s’incazza perchè ci sono i bambini e non si può bestemmiare e poi prende l’altra chitarra e le bacchette e quel che è, nel frattempo qualcuno guarda alle salsicce e i bambini scrivono i testi lì sul momento e parlano tutti della neve, e due ore dopo le salsicce sono fredde e la moglie di Bubba è incazzatissima ma il disco è pronto e l’hanno proprio registrato lì sul momento, inizia col riff di chitarra che Matt Kadane aveva iniziato a strimpellare, The Party’s Over l’hanno dovuta registrare due volte ma il resto è tutto in presa diretta. Beh, mi dispiace di aver letto l’intervista, comunque il disco suona in quel modo lì ed è una figata. 

DISCONE: Kill The Vultures – Carnelian

ktv

Non ho la più pallida idea di come funzioni il rap in generale, ogni tanto leggo qualche pezzo su rockit –la morale di fondo degli articoli sul rap su Rockit è sostanzialmente che non ho alcuna possibilità di capire di cosa si sta parlando e dovrei farmi i cazzi miei (una cosa che naturalmente solletica molto il mio io 17enne e desideroso di essere incluso, e sappiamo tutti che i 38 sono i nuovi 17). I Kill The Vultures non sono, strettamente parlando, un gruppo rap. Per prima cosa i loro concerti sono frequentati perlopiù da gente del giro alt-avant-post*, cioè da un pubblico che chiede alla musica una forte ideologia pop, riferimenti colti a caso, terzomondismo e sbraco da alcolizzati, cose che riescono a confluire perfettamente solo nelle visioni dei più beduini tra gli artisti che ascoltiamo (tipo Grimes o gli Sleep). E poi i loro dischi non suonano necessariamente come dovrebbe suonare un disco rap che esce nel 2016, sia questo un pregio o meno. I Kill The Vultures, almeno nei loro episodi migliori, sono più il frutto della confluenza tra il side project Anticon-oriented di due punk ventiseienni e quelle superband anarcojazz norvegesi con Mats Gustafsson in formazione, vale a dire un gruppo che pone il suo onore nel far coesistere linee di contrabbasso crudissime con beat pesi e ultra-dozzinali.

Carnelian è un disco bellissimo. Loro sono tornati alla loro incarnazione migliore (il gruppo della domenica dei soli Anatomy e Crescent Moon) e sono usciti alla chetichella con un album di canzoni pre-hop animate da questo naturalismo mistico-arabeggiante a cazzo** che se non fossero dei normalissimi alt-freak bianchi verrebbe da eleggerli come l’ultimo baluardo di un modo istintivo e cafone di fare il rap che ormai non lo trovi più neanche nei musei. O magari sono solo dei cazzari da bar con tre idee scarse in testa e una vita così scarica di prospettive da doversi ridurre a cacar fuori un Careless Flame appena appena rivisto con dieci anni di ritardo. E forse il fatto di trovare Carnelian così esaltante rende anche me un alt-freak bianco col trip dell’alt-avant-post ad ogni costo. Chi se ne frega, peraltro.

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*ne ho visti tipo cinque ed è vero che all’inizio della carriera tutto sommato attraevano qualche b-boy, ma l’aria è girata abbastanza in fretta. Non so dire se questa cosa sia uguale in tutto il mondo, ma considerata la dimensione del loro pubblico non so quanto voglio addentrarmi nella questione.

**qui mi piace sempre ricordare tra le altre cose che Crescent Moon a un certo punto aveva messo insieme un sideproject alt-folk chiamato Roma di Luna, e intervistato da Stefano Isidoro Bianchi aveva rivelato che Roma non è un riferimento all’omonima cittadina bensì il modo in cui crede che gli italiani chiamino i rom di sesso femminile.

DISCONE: Miss Red – Murder

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Qualche dettaglio lo trovate in questa intervista su Fact: Kevin Martin viene invitato a suonare in Israele, la data va male, il giorno dopo viene infilato più o meno a caso in una festa dentro un bar, la gente va fuori di melone, a un certo punto una ragazzetta del posto sale in consolle e gli chiede di passarle il microfono. Kevin Martin glielo passa e trova un’anima gemella musicale. Da lì in poi inizia la bizzarra storia di Miss Red, attuale protegé di Martin e freschissima esordiente sulla lunga distanza con il mixtape Murder (lo scaricate qui). Questo per dirla come i giornalisti musicali. Avete presente quando uscì fuori il primo disco di MIA? Immaginatevela così, una versione per nerd scoppiati, The Bug al posto di Diplo, interventi di gente tipo Andy Stott o Evian Christ, tutto a caso meets tutto può succedere.

(Quando uscì tutto il casino su Borders avevo provato a scrivere una mia opinione sulla faccenda, ma ne era venuta fuori una questione etica molto pesante e complessa e la mia opinione sulla faccenda era che canzone e video fossero robaccia. Solo che su quel particolare argomento, e in quei particolari giorni, era davvero troppo difficile far capire che si può contemporaneamente pensare che MIA sia tutto sommato una bella persona e che abbia tutto il diritto di esprimersi e far sapere la propria voce su temi delicati come quello del video E che Borders sia una canzoncina di merda. O addirittura, che questa opinione su MIA possa essere appunto un’opinione, che so, una critica artistica, e non una visione del mondo. Non che sia la prima volta, eh. In ogni caso Murder mi serve anche come esempio al positivo: la roba per cui i primi dischi di MIA (i primi uno, ammettiamolo) mi aveva mandato fuori è la stessa che sta dentro questo mixtape di Miss Red: sensualità cinghiona, insensati atteggiamenti gangsta, Martin come sempre in buonissima, tutti che appizzano, la sensazione di una stella nascente, quella sensazione di possibilità infinite.

DISCONE: Jesu – Sun Kil Moon

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Questi giorni c’è stato casino su quella vignetta di Charlie Hebdo e si è tornati punto e a capo con quel famoso discorso sulla satira. Avete presente il famoso discorso sulla satira? Consiste, in sostanza, nel dare la priopria opinione su cosa debba essere la satira. Ci sono quelli per cui la satira non dovrebbe essere offensiva, per esempio, e quelli per cui la satira che non offende non è satira, e quelli per cui la satira deve prendersela contro il potere e gli altri che pensano che la satira non debba portar voti a una parte o all’altra, e poi ci sono quelli che decidono caso per caso. Si tratta di una situazione un po’ paradossale, perché tutti sanno che aprire bocca su questo argomento è noioso in culo ma nessuno riesce davvero a starsene zitto: queste polemiche nascono come poco interessanti e in qualche modo si ingigantiscono, basta che qualche amico nostro su FB dica una cazzata epica e poi si comincia a litigare. È come quando i vecchi si urlavano contro al bar, ma è anche letteratura, e a volte è difficile conciliare le due cose -soprattutto se oggi si parla di foto di bambini morti e domani degli incassi di Checco Zalone. In un orizzonte temporale abbastanza esteso, saperla lunga non conta un cazzo di niente.

Negli ultimi anni ho sviluppato una specie di istinto dinamico dello spirito del tempo intorno alle notizie che mi interessano (o che non riesco ad evitare). Leggo qualche articolo, le opinioni di persone a cui sono legato -timeline di Twitter, amici Facebook- e mi faccio un’idea di massima su cosa pensi la gente. Che so, le capre pensano questo, gli intellettuali pensano questo, i miei amici pensano questo. La divisione per classi dei commentatori alle notizie è quasi sempre tra capre, intellettuali e amici miei. Gli amici miei sono persone che in genere la pensano come me, o che hanno opinioni con cui si può dialogare. Gli intellettuali sono persone distanti da me che hanno opinioni complesse con cui posso entrare in sintonia o meno. Le capre sono persone con cui non sento alcuna affinità e che mi sembra parlino delle cose in maniera troppo semplicistica. Questo impianto cognitivo di massima ha vantaggi e svantaggi: il principale vantaggio è che è il modo più efficiente per risparmiare tempo in merito ad ogni questione, e per ogni argomento riesco a capire cosa ne pensano le varie classi intellettuali.  I due principali svantaggi sono che il sistema funziona con un margine di errore altissimo e che essendo incentrato sulla mia percezione e sulla mia opinione tende a farmi sentire un dio in miniatura. Il fatto è che per la maggior parte delle questioni non posso semplicemente permettermi di prendere le distanze da me stesso e questionare il mio impianto ideologico dalle fondamenta; mi affido agli stereotipi e ai pregiudizi, ci passo le ore dell’aperitivo e passo oltre. Credo di essere una persona mediamente fortunata: ho una brutta dipendenza da internet, ma riesco ancora a scinderla dal reale, a capire che -a ben guardare- non è il mondo vero. Qualcun altro non è così fortunato.  

Il disco lungo di Sun Kil Moon uscito nel 2015 (titolo Universal Themes) è stato liquidato in maniera molto frettolosa. Benji era stato uno dei dischi più amati dell’anno precedente, una sorta di insperata risurrezione della carne. A ridosso dell’uscita sul mercato del suo successore, le riviste online iniziano a pubblicare recensioni entusiaste. Poi Mark Kozelek diventa suo malgrado il protagonista di una brutta storia -l’ennesima- di insulti. Nella fattispecie, durante un concerto prende a male parole una giornalista del Guardian, Laura Snapes, perché gli ha chiesto un’intervista di persona invece che via mail. Le dichiarazioni vengono riportate dalla stampa e danno il via ad un periodo di consapevole ostracismo nei confronti dell’artista: a cominciare da un brutto infortunio di Pitchfork, che pubblica per errore una prima recensione estremamente positiva e la sostituisce a breve con un pezzo più tiepido scritto da un altro giornalista (Laura Snapes scrive anche per Pitchfork); altre riviste, tipo Quietus, non si occupano nemmeno del disco. Tutta la vicenda è raccontata per sommi capi da Guia Cortassa in un articolo per Prismo che si cura tra le altre cose di citarmi come esempio di grettezza implicitamente maschilista nel giornalismo musicale italiano (son soddisfazioni). Alla fine della storia, mentre Benji svettava in cima alla maggior parte delle classifiche di fine 2014, di Universal Themes non c’è praticamente traccia.

Difficile dire perché. Sicuramente Universal Themes non è Benji: mentre il primo era un disco tutto sommato dimesso e ultra-classico (perlopiù voce e chitarra acustica) incentrato su un devastatissimo concept narrativo legato alla famiglia di Kozelek e al ritorno ai luoghi dell’infanzia, Universal Themes è il delirante racconto di cose successe al chitarrista nell’ultimo anno –cose totalmente a caso, vita di tutti i giorni di un musicista di fama medio-media. Quello che fa la differenza è la musica: uno dei pochissimi dischi folk-rock di questi anni che non somigliano a nulla, estremamente percussivo, fondato su canzoni di dieci minuti che cambiano radicalmente mood tre o quattro volte nel corso del brano. Uno dei dischi più istintivi, e al contempo complessi, che abbia ascoltato di recente. Probabilmente Benji soddisfaceva bisogni di normalità che UT sembra snobbare del tutto. O forse è perché Mark Kozelek è un misogino del cazzo. Tranne che non credo lo sia veramente, o non so dirlo con certezza, anche se con tutta probabilità è uno stronzo. Ma i musicisti buoni sono quasi tutti degli stronzi, giusto? Kerry King, Noel Gallagher, Stockhausen, Johnny Cash… Non è che sia piacevole, ma suppongo che sia necessario farsene una ragione, o almeno farsi una regola di base (che è diverso dal decidere da caso a caso, a seconda di chi pensa cosa, come sta succedendo di questi tempi). Dicevo, trovo un po’ spiacevole dover prendere posizione in questa cosa come se fosse importante al fine della musica che ascolto. Sia quel che sia, le polemiche nei confronti di Kozelek sono una goccia nel mare di guai in cui il musicista s’è cacciato e una delle tante polemiche che ha messo in piedi in prima persona da Benji in poi.

La strada per un possibile disco in collaborazione tra Jesu e Sun Kil Moon era aperta da anni: due dei musicisti più prolifici degli anni duemila, Kozelek che pubblica i dischi di Broadrick su Caldo Verde (magari vendendoli dentro a bizzarri bundle assieme ai live di Sun Kil Moon epoca pre-Benji). Le collaborazioni tra canzone folk macilenta e rock chitarroso di confine non sono più cosa così rara, basti pensare al disco di Sunn (o))) e Scott Walker il cui annuncio ha fatto girare la testa a così tanta gente un annetto fa (il disco finito non era buono quanto voleva essere ma nemmeno brutto quanto poteva essere), ma anche solo le collaborazioni Will Oldham/Tortoise o quei dischi pesi di Phil Elvrum. Jesu/Sun Kil Moon arriva un po’ all’improvviso, messo in streaming sul sito di SKM, e ha tutta l’aria di una cosa realizzata nei ritagli di tempo. Mark Kozelek continua sulla falsariga di Universal Themes, pipponi infiniti e quasi-rap sulle cose che gli succedono; Justin Broadrick copre tutto di melodie grasse e tironi di chitarre come nei dischi meno significativi della sigla Jesu.

Mark Kozelek è un personaggio strano, e con ogni probabilità sta diventando una specie di troll musicale -e la prima regola con i troll è quella di non dargli da mangiare. La sua percezione della realtà attorno a sé sembra essersi distorta progressivamente intorno a un concetto internettiano autocentrico, tipo il mio, ma senza la coscienza di essere al baretto sotto casa. Con il risultato che Mark Kozelek la mattina si alza, esce a prendere un caffè, incontra un paio di amici, ascolta mezz’ora di radio, mangia delle bistecche buonissime e la sera ha pronto un pezzo nuovo che prima o poi va a finire in qualche disco. è ragionevole pensare che questo genere di pipponi ombelicali suonino odiosi e indigeribili a molta gente, e che anche quelli che ci trovano un bizzarro fascino e un briciolo di senso non lo faranno per il resto della loro vita. Dentro ai testi di J/SKM ci sono la recensione di Pitchfork, il concerto al Siren Festival, le lettere dei fan e svariata altra roba simile, impacchettata in canzoni con titoli tipo America’s Most Wanted John Dillinger and Mark Kozelek. Il sottotesto generale è un canovaccio abbastanza classico: l’artista incompreso, qualche epifania, qualche calcio nei denti, i veri fan, l’età che avanza. Ma tutta questa roba è portata a funzionare su un livello lirico inedito, sicuramente respingente (è davvero molto difficile starlo ad ascoltare per ottanta minuti a fila) ma anche rivelatorio e perfino illuminante -sotto certi aspetti. Il tutto vangato dalle chitarre e dai tastieroni saturi di un Broadrick al minimo sindacale (e forse per questo estremamente efficace).

La poetica del caso umano non è mai stata così affascinante, parlando di percezione collettiva. La critica snob non ha alcun problema a fare la telecronaca dei talent-show con la piena coscienza del fatto che siano concorsi che generano situazioni disperate, buchi di bilancio, contratti di merda e dischi quasi sempre orribili. I documentari sugli artisti tra virgolette sfortunati stanno diventando una miniera d’oro cinematografica, le sbroccate delle popstar sono ormai un genere letterario a sè. Alcuni artisti sono affascinati dal lato oscuro e ci si tuffano mani e piedi, altri vengono spinti sull’orlo dal pubblico che li insulta e ne scrutina a getto continuo ogni cazzata. Justin Broadrick e Mark Kozelek non potrebbero essere due artisti più diversi: il primo è introverso, prolifico, costante e baciato da una street cred infinita, il secondo è sbracato, prolifico, qualitativamente discontinuo ed emarginato da ogni discorso. Fa quasi paura assistere all’incontro tra i due, parlare il linguaggio che hanno scelto entrambi di parlare.

Mi chiedo spesso cosa sarebbe oggi dell’indie rock se nei primi anni duemila, invece di buttarsi sul revival spinto, gli artisti avessero continuato a spingere un po’ più in là i limiti dell’inascoltato; non so dire se Jesu/SKM sia una vera e propria risposta a questa domanda, ma ad ascoltarlo così d’improvviso fa la figura di un disco venuto da un’altra dimensione, una cosa musicale venuta da una linea di pensiero parallela. è una caratteristica che non si trova così spesso nella musica, men che meno nella musica fatta con le chitarre. Ci pensavo ascoltando l’ultimo Liturgy, anche quello per certi versi un disco molto stupido e anche offensivo, e nondimeno affascinante. Forse il futuro della musica indipendente è nelle mani dei casi umani, di chi non riesce a pensar dritto. O forse dobbiamo iniziare a pensare in un altro modo, lasciare stare le storie e iniziare a guardare ai dischi che, come diceva Jim Morrison, ci raccontano qualcosa della nostra vita. Fino ad allora, se Universal Themes ha incontrato relativa indifferenza, è ragionevole sospettare che J/SKM sia destinato a generare aperto fastidio, prese per il culo, ostracismo manifesto e pernacchie. Per il disco della madonna che è venuto fuori, è un peccato. O forse una colpa, dipende da quanto vi sta sul cazzo il cantante.