Filosofia di un film in cui si spara ai computer e agli hacker ciccioni

SPOILER il pezzo sotto contiene SPOILER quindi in realtà la prima cosa che dovreste fare, soprattutto umanamente, è prendere l’auto, recarvi in uno di quei cinema brutti e tristi in periferia che di solito snobbate, e guardare Blackhat. Dopodiché potete tornare qui e leggere il pezzo con l’erezione ancora in corso.

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Blackhat è, più di Interstellar, un film sull’origine e il flusso delle vite, ma trae riflessioni profondamente diverse dal film di Nolan: Mann non vede il Tempo nella sua circolarità, come un’istantanea del Tutto a noi invisibile perchè incapaci di percepirla in tutte le sue dimensioni, bensì ci pone di fronte ad un’espansione senza limiti.

Blackhat inizia.

Non parte in media res (come Miami Vice, che è un frammento vivo di Presente) ma continua a muoversi ben oltre la sua conclusione, come la pulsante Los Angeles nel non-epilogo di To Live and Die in L.A.. Non a caso il film apre il suo sguardo dallo spazio e poi con un dolly impossibile entra rapidamente in un terminale, in una scena apparentemente vista mille volte (le scie energetiche tra i circuiti), ma con una portata che è diversa: al termine del percorso si fissa su una singola luce, in un nucleo che sembra morto. Un’informazione nel buio. Il Big bang. Da qui parte la struttura, il codice che a cascata genera informazioni, decide vita e morte delle persone e una volta avviato non può essere fermato. Magari muta o espelle ciò che è superfluo, magari viene ereditato da altri, ma può solo andare avanti. L’incrocio di flussi, di linee, di dati, di persone e di sguardi che Mann ha generato è incredibilmente rispettoso della tematica cyber e in questo Blackhat è un’opera radicale quanto quelle di Mamoru Oshii, meno focalizzata sulla filosofia dell’evoluzione sensoriale, ma che cerca di (far) percepire il cambiamento con l’istinto. Lo dice Lien Chen nel fondamentale dialogo del ristorante: “Non fare piani, quello che ti è richiesto è di sentire il Presente” e da qui in poi due percezioni diverse collidono e poi si fondono, come il marionettista e il maggiore di Ghost in the shell: il self-made calcolatore non è più sufficiente perchè la rapidità delle connessioni non può essere controllata da nessuno. Hathaway deve imparare ad adattarsi in fretta, come diceva Neil McCauley, perchè non è solo una questione di immediata sopravvivenza, ma vuol dire anche non accettare di essere travolti passivamente da un ingestibile flusso di dati e informazioni di cui non conosciamo l’origine, di cui non controlliamo le conseguenze. Deve imparare a sentire. E infatti, durante l’altra sequenza portante di Blackhat, il sapere e la freddezza che lo hanno tenuto in gioco fino a quel punto, per un attimo si rivelano inadeguati ed è l’amore che lo salva: Hathaway segue Lien fuori dall’auto ed è vivo.

Frammenti d’un discorso sul cinematografo: WHIPLASH, Bird e I dieci comandamenti

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Prima di dire du parole su Whiplash, che ci è garbato parecchio e che io ho visto per voi in anteprima ai’ Fucecchio Film Festival, devo cominciare dall’inizio; anzi: a dirla tutta sarebbe la fine, ma pace.  In soldoni, L’è andata così: dopo aver visto il film, ho pensato bene di rivederne un altro un po’ più vecchio, che ritengo essere ancor più grosso.

Parlo di Bird, forse uno de’ meglio film mai fatti sulla musica, o meglio su un musicista. Come se Clint Eastwood, perché il regista è lui, si fosse messo dietro alla macchina da presa e, invece che “azione!”, avesse detto: “Belle fiche, ora vi fo vedere come si gira un biopic, poi tornate pure a farvi le seghe”. Secondo me l’è andata così: l’ho scritto nella mia lingua solo perché c’ho poca familiarità con l’americano.

Ciò per dire che Bird l’è davvero BELLO. Aiutatemi a dirlo. È uno di que’ film che solo chi ha girato anche Fino a prova contraria, J. Edgar e un’altra ventina di filmoni della madonnaddolorata poteva fare. Ho nominato Fino a prova contraria e J. Edgar perché i’ primo è una delle su’ meglio cose (basti solo JAMES WOODS, maremma cignala), mentre i’ secondo spicca di brutto tra i suoi ultimi lavori, ma pare che un se ne sia parlato abbastanza. Giusto pe’ chiarezza, eh.

Comunque, si diceva di Bird. È la storia di Charlie Parker, che non mi ricordo perché veniva chiamato Bird. I più maliziosi penseranno “perché ce l’aveva grosso!”, dandosi di gomito come a dodic’anni; ma gli amerihani l’uccello lo chiamano in un altro modo, e poi figurati… i jazzisti l’eran tutti neri: sarebbe stato un soprannome poco originale, no?

Tornando seri – si fa pe’ dire – Charlie Parker l’era un sassofonista che prese il Jazz e lo rivoltò com’un calzino. Soluzioni melodiche e armoniche ganzissime, mai sentite. Un senso di’ ritmo novo pe’ davvero, che ti fa pensare che i negri ce l’abbiano proprio ni’ sangue, il ritmo; altro che luoghi comuni.

Clint, che l’è anche un musicista e la musica la ama sul serio (Piano Blues, per dirne uno, dateci un occhio; ma anche Honkytonk Man e Jersey Boys), c’ha fatto un film nerissimo, ma non nel senso afroamericano della parola: ni’ senso di cupo e funereo, come riesce solo a lui e a pochi altri; dove l’amore pe’ i jazz si trasforma in odio pe’ questa sporca vita, resa ancor più sudicia dall’eroina, dall’ulcera, dal bere e dalla morte d’una figliola.

Charlie Parker non era uno che faceva una vita da chierichetto, e il film ce la racconta tutta. Noi si patisce insieme a lui, a questo fantastico Forest Whitaker sempre sudato com’un maiale, conciato com’un baston da pollaio. Forest, un attore meraviglioso (non avete visto Ghost Dog? rimediate subito e fatelo vostro, diomarrano), non interpreta Bird, ma diventa Bird. È Bird resuscitato come i’ Cristo. Roba che un sarebbero bastati quindici Oscar e novantacinque Coppe Volpi per fa’ capire ai’ mondo come cazzo recita questo qui. E un sarebbero bastati nemmeno pe’ Clint, che per du’ ore e mezzo secche ti tiene incollato allo schermo, ti fa innamorare di quest’omone così geniale e così imperfetto. A film finito, ni’ caso uno non avesse mai sentito una nota di Parker o di jazz in generale, t’avresti voglia di sapere pure chi l’era la donna delle pulizie di Miles Davis.

 

Ora, perché tutta questa pappardella su Bird?

Perché sì; e perché le scene di Bird sono intervallate dall’immagine di questo piatto (quello della batteria, non quello pe’ la pizza) che casca sull’impiantito: Crash! Crash! Crash!. Un rumore che riecheggia ni’ capo di Charlie Parker; come a volergli dire: tutto l’è principiato da lì, ricordatelo. E chi ha fatto Whiplash, un ragazzo che si chiama Damien Chazelle, se l’è ricordato bene.

I’ film parla d’un pischello che fa il conservatorio e vole diventare un batterista Jazz di quelli veri. Si fa un culo della madonna, sempre a suonare giorno e sera. Un si fa nemmen la doccia: anche lui, sempre sudato fradicio. Il sangue gli scappa dalle dita mentre suona, ma lui continua come nulla fosse. Lo interpreta Miles Teller, bravissimo a portare sullo schermo un personaggio ambizioso, ossessionato ai’ punto tale da rifiutare una bella passserina dagli occhioni blu. Fossi stato io dentro i’film, gl’avrei detto: “le bacchette cacciatele ni’ culo e suonaci la discografia di Art Blakey, finocchio”.

J.K. Simmons, che qui si conferma come uno dei più grossi attori de’ nostri tempi, fa la parte di Fletcher, un direttore d’orchestra che in confronto a lui i’ sergente Hartman pare Fabio Fazio. Cattivissimo, sempre incazzato come una scimmia in una gabbia d’un metro quadro, sboccato e pignolo fino all’inverosimile. Tira le seggiole, offende ogni poero cristo che vada fori d’un quarto di tono; ma soprattutto piglia di mira i’ nostro amico batterista, lo fa smadonnare e sanguinare come non mai, fino a rischiare di farglici rimettere l’osso di’ collo.

Sapete che gli dice al ragazzo? Gli dice: “Caro mio, lo sai che successe a Charlie Parker? Salì su un palco, si mise a suonare, lo fece a cazzo di cane e il batterista tirò di sotto un piatto pe’ comunicargli quanto facesse cacare”. Esatto: lo stesso piatto che crasha al suolo ni’ film di Eastwood. Fu questo fatto a far scattare qualcosa dentro i’ sedicenne Charlie: qualcosa che però, maremma infame, lo fece diventare Bird.

Lo stesso vorrebbe fare lo stronzissimo Fletcher con il determinatissimo Andrew. Ce la farà? Io un ve lo dico, guardatevi Whiplash che è un gran film sulla vita, girato come Iddio vole da un giovine che forse ne’ prossimi anni avrà qualcos’altro da raccontare. Chi dice che è un filmetto c’ha la mamma maiala e gli garba Baricco, ascolta Allevi e l’è anche grillino. E come dice i’ mi’ amico Checco (che vorrei chiamare Cecco, ma poi lo chiamo sempre Francesco): non tirateci fori questa bischerata del filmettino da Sundance perché non è vera; che poi a Robert Redford non gl’è nemmeno garbato. Troppe parolacce, dice.

 

Pe’ concludere, se vi garba andare ai’ cinema per riempirvi un po’ gli occhi e a divertirvi con le avventure di’ popolo ebraico, andatevi a vedere Exodus, l’ultimo di Ridley Scott. Dopo aver fatto trombare Camoron Diaz con una Ferrari, nonno Ridley torna a dare spettacolo con un film biblico, che si potrebbe definire un remake de’ Dieci comandamenti con Charlton Heston, che però era una cosa da sparassi ne’ coglioni, roba che la mi nonna aspettava che lo dessero su Rete4 pe’ risparmiare sul sonnifero.

Exodus è innanzitutto il parco giochi d’un grande ottuagenario, che si diverte come un bimbo a ruzzare con L’Antico testamento: mosche, piaghe, rane, coccodrilli che sbranano gli egiziani, le case degli ebrei che sembrano i bassifondi di Blade Runner.  Christian Bale che ci regala un Mosè degno del miglior Michele Placido, accompagnato dalla stessa fisicità d’un Bruce Wayne e dell’uomo senza sonno che ha visto Dio sotto forma di bambino; mentre il co-protagonista di Breaking Bad (che fa Giosuè) lo osserva stupito da dietro una roccia, confondendo l’antico Egitto con il New Mexico e la visione divina con le anfetamine.

Ramses invece è quello di Animal Kingdom, qui pelato come una palla da biliardo. Un tormentato omo senza palle, che riversa la sua omosessualità latente in piramidi, sfingi e obelischi tirati su dagli schiavetti più avvenenti.

Se uno ci va con lo spirito giusto, l’è un film da vedere; rigorosamente in sala.

E all’uscita vu penserete che i vostri figlioli, un giorno, guarderanno su Rete4 un film molto meno palloso.

Bone cose a tutti.

La GRINDallegra fattoria #5: levate le penne ai Nolan

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E’ dura parlare di Inter-stellar la settimana dopo che hanno esonerato Mazzarri, quindi parliamo degli scrittori-cane. Gli scrittori-cane sono una particolare razza di canide in grado di mettere su pagina notevoli quantità di vocaboli raggruppandoli in conglomerati di scarso valore artistico. Se lo scrittore-cane è pienamente consapevole può comunque riuscire a imbastire una storia brutta, ma coerente, e quindi a diventare un paladino del trash, una volta passati i canonici vent’anni che servono alla mente umana, corrotta dalla nostalgia e dalla noia, per rivalutare la merda. Se lo scrittore-cane invece parte da una buona idea, o quantomeno da uno spunto intrigante e pieno di possibilità, può essere in grado di banalizzarla e ridicolizzarla nei modi più irritanti. Ora, Jonathan e Christopher non solo hanno due nomi che mi devo fermare un secondo a pensare se ho messo le h al posto giusto, ma ho il sospetto che siano stati morsi da uno scrittore-cane e nelle notti di luna piena, quando il processo creativo è all’apice e hanno in mano uno script potente ed evocativo, si trasformino nell’essere canide e si mettano a inserire boiate qua e là, senza controllo. Così succede che i film di Nolan sono (in media) buoni o eccezionali per il 90%, poi arriva una sequenza mal gestita (quella sulla neve di Inception o quella col sonar nel palazzo di The Dark Knight, per dire) o un filotto di dialoghi e situazioni buttati via (la parte con Damon o le morti dei personaggi di Interstellar) che gambizzano la cosa che stai vedendo nel momento fondamentale del climax. Cacofonia sistematica. Poi mentre in alcuni dei film precedenti si può trattare di qualche neo irritante, in Interstellar ci sono degli alti e bassi francamente incomprensibili. Questi due ragazzi hanno bisogno di un produttore di quelli di una volta: grosso, cattivo, invadente e stronzo, ma che ne capisce.

La GRINDallegra fattoria #4: dare soldi ai Guardiani della Galassia per evitare altri Thor

 

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Ha rotto il cazzo, è troppo trasversale: “OOOOH il procione!” “OOOOOH l’albero buono!” “OOOOOOH la compilation su cassettina!”. Basta. E’ piaciuto a me, ai miei amici non fumettari, ai miei amici fumettari, alla critica, a mia mamma cristo santo, è piaciuto a mia mamma. Poi però l’altro giorno ho scoperto che è piaciuto anche ad estimatori di 500 giorni insieme ed Elizabethtown. Sembrava una scena di un Saw a caso in cui scopri le cose brutte che alla fine fanno vincere Saw o come si chiama il cattivo. Ecco io non voglio che vinca Saw o come si chiama il cattivo. Io voglio vivere in un mondo in cui chi ama il black odi profondamente chi ama l’epic, voglio che chi ha il SNES disprezzi chi ha il MD, voglio che Salvini prepari gli eserciti invece di creare la Lega Sud, perchè i nemici restino nemici, sempre. Pensate che l’altro giorno ho visto una puntata di Homeland in cui sembra quasi che gli americani siano cattivi. Diamoci una regolata.

La GRINDallegra fattoria #3: questa invece è TvTv

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Constantine non c’entra un cazzo, ma funziona e lui ci sta.
Brooklyn 99 mi piscio sotto.
New Girl ha messo in fila 3 puntate che ridi.
Agents of Shield avevo ragione io.
Sons of Anarchy doveva finire almeno 4 morti grosse fa.
Gotham mi fa pensare che Bruno Heller non è del tutto rincoglionito.
The Knick mi fa pensare che Steven Soderbergh non è del tutto rincoglionito.
Flash è una serie adolescenziale fatta neanche male, ma vabbè.
Bones adesso che Bones e Angel scopano chissenefrega.
Elementary è bello, sucate.