Festivalbar 2.0 (Bastonate endorsa la cultura pop ma NON le compilation estive in free download, il tutto senza alcuna ragione alla base)

perchè c'è solo una cosa che conta nella vita.

Non so se vi è mai capitato di guardare il Festivalbar, intendo negli anni in cui una cosa come il Festivalbar aveva davvero il suo senso. Il Festivalbar è probabilmente la più grande espressione degli anni ottanta italiani che ha invaso gli anni novanta italiani: mefistofelico patto di sangue tra Fininvest e Radio Deejay che immaginiamo P2-approved e suggellato da continue botte di coca nel backstage durante gli stacchi pubblicitari –da cui le grida estatiche e sorridenti dei presentatori, quasi sempre un uomo e una donna più qualche intruso (perlopiù beccamorti di qualche amministrazione cittadina o sponsor fetidi o il sempiterno patron Vittorio Salvetti). Al Festivalbar passava tutto il meglio del peggior pop della nostra epoca, in modo più che altro casuale e scriteriato, rigorosamente in playback: a fine edizione vinceva chi aveva venduto più singoli e CD. L’eredità culturale del Festivalbar si riassume principalmente in due espressioni: la prima è una classe politica di presentatori senza spina dorsale che s’è fatta le ossa resistendo al vociare delle ragazzine in piazza del Plebiscito. Sotto questo aspetto è indimenticabile soprattutto il gruppo delle presentatrici, il cui protervo vociare al di sopra delle ragazzine ha richiesto di mettere in campo un parterre di stelle la più luminosa delle quali per capirci era Federica Panicucci ma anche gente tipo la Stefanenko o Laura Freddi o la forse incolpevole Alessia Marcuzzi, nonché Elenoire Casalegno della quale alcune voci dell’epoca davano per iscritta a Scienze Politiche a Forlì negli anni in cui ero iscritto anche io (voci non confermate peraltro dalla presenza della bionda starlette a qualche esame, anche se a volte il suo nome saltava fuori durante gli appelli –in genere scritto da certi amici miei assieme a quello di Karol Woityla e Paolo Ponzo, una gloria del Cesena dell’epoca). La seconda eredità era LA COMPILATION, grassetto maiuscolo, spacciata con chirurgica regolarità ad ogni stagione e sbattuta davanti alle telecamere sette volte a puntata dalla Panicucci di turno. La compilation in genere era un CD doppio con gli italiani da una parte e gli stranieri dall’altra, uno blu e uno rosso o sa il cazzo che altro. La grafica era a cura del cugino di qualcuno. La cosa più bella era il fatto che durante il Festivalbar la menavano ALL’INFINITO con moniti stile “solo la nostra compilation è quella originale! Guardate bene! Evitate le imitazioni!”, come se in qualche modo fosse reso necessario dagli eventi (immagino i supermercati invasi di compilation tarocche tipo Festivalburr ’95, o magari era necessario evitare che qualche rivenditore ributtassero fuori gli invenduti dell’anno prima).

La compilation del Festivalbar fa ancora bella mostra di sé nei cestoni dei dischi usati che nessuno guarda più. Stai rovistando in mezzo a badilate di dischi che già vedere insieme in una cesta è pura weltanschauung, tipo tiro su un pugno di dischi a caso e dentro ci sono Fausto Papetti, Kate Bush e i Paw, e ti trovi una specie monumento sporco e lugubre degli anni novanta, l’equivalente pop della statua della libertà in 1997 Fuga da NY. La compilation del Festivalbar mette New Order ed Ace of Base in scaletta senza alcun rispetto per la prospettiva storica, momenti di puro presente affastellati l’uno sull’altro a dare l’impressione di una continuità disruptiva che in qualche modo travalica le categorie di bello e brutto come è prassi per qualsiasi cosa sia cult, vale a dire per qualsiasi cosa sia esistita negli anni novanta. A quei tempi era diverso: tutti i singoli più famosi e obnubilanti dell’estate in un solo CD (registrabile in cassetta) per qualcuno era la cosa più vicina al paradiso dopo la possibilità di fumare nei locali, il che la rendeva scientificamente il disco più venduto dell’estate. La compilation, nel mio immaginario, ha smesso di esistere quando ha smesso di avere senso il Festivalbar. Nel corso della mia esistenza ne ho fatta qualcuna, ma non c’era il cuore dentro. Il colpo di grazia al concetto di compilation, per quanto mi riguarda, è stato inferto dall’introduzione in Italia del concetto di rivista con compilation-sampler mensile, tipo Rock Sound. Due o tre o quattro nomi di richiamo e tutti gli altri a remare dietro, un paio di pagine (presumo pagate) di intervista all’interno e una dozzina di nomi che scorrono su CD in busta cartonata (fatto dal cugino di qualcun altro) che possiedo ancora a casa e testimoniano il fatto che il rock alternativo di merda NON è un concetto inventato nella seconda metà degli anni duemila ma esisteva in dosi massicce già allora. Poi è arrivato il free download, e poi è arrivata l’ADSL. Oggi come oggi se dovessi attaccarmi al myspace di un gruppo ed ascoltare UN SOLO pezzo per artista mi verrebbe male e preferirei non provarci nemmeno (il che è paradossale, soprattutto considerato che della maggior parte dei dischi mi scarico l’album intero e lo cestino dopo aver sentito il primo pezzo). Da qualche anno, tuttavia, va di moda una cosa ancora più terrificante. I blog musicali, d’estate e sotto natale, mettono fuori una compilation a testa. È liberamente scaricabile, tiene conto del singolo gusto dell’autore, viene assemblata con cura e professionalità e contiene musica il più delle volte bellissima, eccitante e presa bene (d’altra parte se non sai mettere insieme dieci pezzi belli scegliendoli a caso per la tua compilation hai un problema grosso-grosso-grosso), spesso legata da una tematica, spesso messa insieme da una persona bella con cui mangerei volentieri anche stasera, ma quest’estate non ne ho ascoltata nessuna (se vi ho detto di averlo fatto stavo mentendo). Senza contare il fatto che ascoltando la musica via iTunes sono costretto a sentirmi i brani ordinati per artista e/o ritaggare tutte le canzoni della compilation e/o creare una playlist ex-novo e/o dargliela su (scelgo sempre la quarta). Però l’altra settimana, giusto per vedere che effetto faceva, ho comprato una cassetta da 60 e ho registrato il mio primo nastro da qualcosa come dieci anni. Una gran rottura di coglioni, alzarsi alla fine di ogni pezzo per stoppare il registratore e poi in macchina non ho manco più il mangianastri.

IL DOWNLOAD ILLEGALE DELLA SETTIMANA (special edition feat. Leolino Bongiorno): Battles – Gloss Drop

è ufficiale: questa è una delle più brutte copertine di sempre. Sembra macinato di carne di infima qualità, ma magari è solo lana rosa, Big Babol o ciò che resta del costume del Tenerone del Drive-In 1985 circa

C’è gente in giro per forum musicali et altri simpatici siti specializzati che si sta già divertendo a sparare a zero sul nuovo disco dei Battles, che esce a giugno ed è stato anticipato da un singolo non troppo in linea con quanto fatto in precedenza dalla band americana. C’è chi pregusta le duemila battute al vetriolo che scriverà a giugno (le pregusta oggi senza nemmeno aver sentito il disco, o magari avendo sentita la solita copia watermarked esclusiva – e allora scrivine adesso, non a giugno che fa caldo ed io non ho voglia di mettermi di fronte allo schermo a leggere duemila battute al vetriolo), c’è chi già parla di una svolta in stile Animal Collective (sempre senza aver sentito il disco, o magari dopo aver sentito un fake confezionato dagli stessi spacciatori degli Animal Collective apposta per disorientare la gente) e chi afferma di essere già andato oltre Battles perché i (inserire un nome a caso, magari un nome di un gruppo che non conosce nessuno e forse manco esiste) sono senz’altro meglio perché c’hanno più senso ritmico, il fumo più buono, più groove, suoni più ricercati, sono più belli, sono più giovani, sono parenti di, escono per, suonavano con. Il mondo è bello perché è vario ed ovviamente io da liberale rispetto sempre e comunque le opinioni altrui (vere o false che siano), però sono piuttosto perplesso. Mi sembrano giudizi sparati alla cazzo di cane tanto per aumentare la propria autostima e nel contempo fare una bella figura in una cerchia ristretta di persone dedite all’ascolto di dischi scaricati illegalmente, ma magari mi sbaglio perché quando lurko forum musicali et altri simpatici siti specializzati lo faccio molto in fretta perché temo di essere scoperto (se mi scoprono rischio di abbassare la mia autostima) e non afferro il senso di ciò che viene scritto. Dovrò soffermarmi di più e leggere meglio, magari imparo cose nuove ma soprattutto imparo come si giudica un disco a prescindere dall’averlo ascoltato o meno.

Comunque io Gloss Drop, il disco nuovo dei Battles, l’ho già sentito e posso dire che è una figata. Me ne ha passata una copia esclusiva il buon Leolino Bongiorno (il figlio di Mike Bongiorno che hanno fermato ubriaco fradicio al volante della Porsche di un amico), raccomandandosi di non metterla assolutamente il rete altrimenti i Battles non lo avrebbero aiutato a ritrovare la salma di suo padre Miles (il correttore automatico di OpenOffice® sta iniziando a scrivere Miles Bongiorno, non capisco perché deve per forza tirare in ballo Miles Davis – o forse sì: Miles Davis e Miles Bongiorno andavano dallo stesso parrucchiere, Rolando il parrucchiere delle dive). Io sulle prime sono rimasto perplesso perché non capivo il nesso tra la salma di Miles Bongiorno, Rolando il parrucchiere delle dive e i Battles ma poi ho ascoltato meglio e mi sono addirittura entusiasmato perché il nuovo disco dei Battles suona esattamente come un qualcosa che sta a metà tra Miles Davis e l’edizione 1997 del Festival di Sanremo condotta da Bongiorno e vinta dai Jalisse (pettinati anche loro da Rolando, che cazzo di capelli avevano quando hanno vinto Sanremo???). Non ci credevo nemmeno ed invece i Battles sono vivi e lottano insieme a noi, ed oltretutto hanno avuto pure il coraggio di cambiare e di non replicarsi. Davvero bravi, ed un grazie a Leolino Bongiorno che mi ha regalato un copia esclusiva del loro cd ed ha migliorato notevolmente la qualità della mia vita attuale.

Piacerebbero anche a Miles Bongiorno, se solo potesse ascoltarli.

il download legale della settimana: GIRL TALK – ALL DAY (Illegal Art)

Nel comune di Cesena si chiama sfunezzo, con la Z di zanzara (da noi si dice ZZANZZARA, non DZANDZARA). È intraducibile, ma è quando arriva una persona e fa un gran casino senza chiedersi troppo di fino il motivo per cui lo sta facendo. Oppure quando qualcuno mostra di lavorare a una cosa senza realmente arrivare a un risultato finale compiuto e specifico, oppure un milione di altre descrizio
ni che si avvicinerebbero al concetto senza infilarlo. Comunque da noi è una specie di dispregiativo, tipo fai solo un gran sfunezzo ma alla fine diobò ti potevi anche stare a casa tua, cose che la figa lessa standard di Cesena non v’insegna (probabilmente perchè sullo sfunezzo non si può rosicare).

Ok, allora Girl Talk è il leader maximo dello sfunezzo applicato al pop. Dj Pikkio in chat lo definisce un riccardone del pop concettuale e/o una specie di Steve Vai del taglia/incolla. Sostanzialmente è un tizio che monta un pezzo con venti campionamenti da altri pezzi, perlopiù sgamabilissimi –anzi proprio in bella vista. Ne mette insieme venti e ci tira fuori un disco, lo mette in download gratuito e fa parlare di sé per un paio di giorni. Girl Talk è uno strano. A parte avere l’aspetto di una persona orribile, fino ad oggi il sampling è stato perlopiù affare del rap, all’interno del quale veniva disciplinato secondo regole non scritte (ma credo comunemente accettate) secondo le quali i break vanno presi e ricontestualizzati altrimenti è facile. Per così dire. Poi sono arrivati veri e propri generi di pop legati alla ricontestualizzazione millelire e/o alla reincisione di un pezzo rap con un ritornello dei Police, mentre più o meno la old school si barricava all’interno di un sistema sempre più autistico e schizofrenico (il che non è necessariamente un male, sia ben chiaro, tutt’altro). Nel nuovo millennio il campionamento è diventato più o meno uno sport, e allo stato attuale non è facilissimo capire cosa distingua il mash-up più becero da un furto ideologico dei Gang Of Four a caso o da un disco di cover country degli AC/DC piuttosto che da un mixone dei Soulwax con due ore di inizi di canzoni a caso. C’è anche tutta una letteratura che cerca di contestualizzare la cosa dal punto di vista degli affari legali e/o politici, problemi di difficile o difficilissima soluzione in qualsiasi caso. In tutto questo Girl Talk sembra semplicemente il più sciolto di tutti. Oggi esce il suo ultimo All Day, anche questo in download omaggio, e contiene dodici pezzi che mischiano una selezione più o meno casuale di tutto il pop in commercio senza troppi problemi di discernimento e con un’arroganza riccardona (grazie Pikkio) per nulla priva di gusto. Probabilmente a conti fatti il suo disco migliore, quello in cui anche la minima preoccupazione per la credibilità se ne va affanculo. Il tutto fatto per LO SFUNEZZO, ovviamente, ma se c’è un disco più carico da ascoltare in questi giorni me lo si segnali via mail. Grazie.

piccoli fans + download illegali: HAVAH – Adriatic Sea No Surf

L’ideale sarebbe avere un nome un po’ storto, così quando lo cerchi su Google esce fuori subito e non si devono sbattere” (cit.)

Havah è un progetto sh^^gaze che fa capo a Michele Camorani, che sarebbe il batterista de La Quiete e il tenutario di Serimal, oltre che coinvolto a vario titolo in cose tipo Raein e/o insomma, quasi tutto quello che è esistito di figo nel postpunk italiano dal 2000 in poi. Havah è la sua cosa pop, ed è fatta di una serie di riverberi devastanti su canzoni appena abbozzate che sembrano la versione sh^^gaze dei Fuckemos, i quali se non lo sapete sono il miglior gruppo mai esistito. Nel senso di voce impastata bassissima, forse un po’ più funebre. Le uniche due cose che si trovano in rete al momento sembrano essere il myspace del gruppo e un bel post-fiume di Jacopo FBYC. Sia nell’uno che nell’altro caso viene postato il link al mediafire del primo disco, registrazione casalinga autoprodotta e gratuita -che è l’unico modo di fare queste cose, o magari siete fan dell’ultimo Wavves e io non voglio avere a che fare con voi- intitolato Adriatic Sea No Surf, che riporta le lancette indietro di un paio d’anni (o di decenni, a seconda di quale prospettiva vogliamo usare) ad un’epoca in cui tutto era puro incontaminato e sembrava che queste cose le avessero potute fare tutti. Fermo restando che qualcuno le fa meglio di altri, che Adriatic Sea No Surf è un disco FIGO. Che v’aspettavate, abbiamo pure citato i Fuckemos. Altre cose che potremmo citare sono Sisters Of Mercy, Banjo Or Freakout, Joy Division, Descendents, Evan Dando, persino certo Doug P, i Mats e svariati altri nomi a casaccio. L’altra settimana ha suonato a Forlì e me lo sono perso per cose di lavoro. Speriamo torni alla carica a breve. Lo farà.

Gruppi con nomi stupidi: MOANAA

 
Loro sono polacchi e sicuramente nella loro lingua “Moanaa” significa qualcosa di oscuro e tetro e introspettivo o comunque in tema con l’introverso e umbratile post metal che propongono, ma a chi di język polski non mastica nemmeno una parola, e magari è stato giovane in Italia intorno agli anni ottanta, il loro nome evocherà tutt’altro. O forse è soltanto una mia fissazione, la stessa che per esempio mi ha impedito di prendere minimamente sul serio il pastiche fantahorror-ultragore Il Labirinto del Fauno dal preciso istante in cui viene fuori che il nome di un personaggio era – per l’appunto – Moana. A scanso di equivoci, questi Moanaa sono quanto di più lontano possa esistere dal più vago odore di proibito e pornesco: musi lunghi, sguardi fissi verso il pavimento, magliette dei Minsk a tutto andare, e spesso e volentieri il temibile grugno dell’inquietante visual artist K-vass (una specie di Z’EV rasta se riuscite ad immaginarvelo) sbattuto in faccia ai concerti. Roba da ammazzare la libido anche al più infoiato dei camionisti dopo sei mesi passati ininterrottamente al volante. Lo scorso maggio hanno messo in rete un EP di tre pezzi che per qualche incomprensibile movimento della psiche mi ricorda Sweet Daisy degli Sludge (uno dei gruppi più criminalmente ignorati di sempre), chissà perchè, forse perchè dura mezz’ora; lo si può ascoltare su bandcamp o dal loro myspace. Non è male. Chitarre liquide alternate a legnate moderatamente cattive tipo versione blanda dei Mouth of the Architect, sporadici inserti di vocals filtrate (altrimenti il mood è sul sofferente andante), da qualche parte i santini dei Pelican, dei folli Isis e dei Neurosis post-A Sun that Never Sets (il che non è che sia esattamente una bellezza, ma fa lo stesso), qualche fuga psichedelica di tanto in tanto, ma roba tranquilla, da cannetta leggera poco prima di addormentarsi, e il disco termina veloce così come era iniziato, e ridendo e scherzando un ascolto tira l’altro mentre il sonno tarda ad arrivare. Con una produzione più sporca sarebbe stato un gioiellino. Sono giovani, si faranno.