In morte di Dolores O’Riordan

“A casa mia ci saranno un 18.000 dischi e nemmeno una canzone dei Cranberries. La banale verità è che non hanno mai voluto dire nulla per me. Ovviamente non mi piacevano, ma nemmeno li detestavo. Serena indifferenza. Così sono rimasto un po’ spiazzato, ieri sera, vedendo la mia home di Facebook riempirsi di messaggi non di circostanza per la scomparsa di Dolores O’Riordan. Scoprendo che ha voluto dire tanto anche per miei coetanei, o per gente appena più giovane di me.”

Eddy Cilìa

“Come i Nirvana, come gli Suede (di cui i Cranberries furono spalla nel 1993), come gli Smashing Punpkins, il gruppo irlandese ha saputo stravolgere la grammatica e le regole musicali e ad impadronirsi della programmazione di Mtv, dando un calcio simbolico a Madonna e Michael Jackson, per dirne un paio, o, nel caso dei Cranberries, ai Chieftains e ai Clannad.”

Paolo Romano, HuffPost

“Erano gli anni dei ritornelli violenti, Zombie si contendeva lo scettro di canzone-manifesto di una generazione con Smells Like Teen Spirit dei Nirvana. (…) Gli eroi musicali degli anni Novanta camminavano al passo con la morte, scherzavano con essa, la sfidavano (pensate ai salti folli di Eddie Vedder dalle torri dei palchi). Non esistono altre epoche della storia del rock che siano state falcidiate dalle morti tanto come i Nineties, morti per suicidio o per forme subliminali di suicidio: (…)”

Andrea Pomella, Il Fatto Quotidiano

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Qualche mese fa mi è capitato di risentire The Reason degli Hoobastank e mi ci sono fomentato abbastanza da decidere seduta stante di cimentarmi nella titanica impresa di realizzare la mia compilation FM-rock definitiva. È una cosa molto più difficile di quel che sembri: 20 pezzi che stiano perfettamente assieme e mi parlino della mia vita. L’FM-rock è un non-genere caro soprattutto a quelli della mia generazione: si tratta di tutto quel novero di gruppi, preferibilmente ottenuti in provetta, che venivano aggregati al carrozzone dei nuovi generi che spopolavano tra i giovani (grunge, pop punk, nu metal, garage rock) sulla base di uno-massimo-due singoloni da battaglia. Quindi gruppi come Stiltskin, 4 Non Blondes, K’s Choice, Spin Doctors, Goo Goo Dolls e simili, ad esempio. Ma anche singoli di incredibile successo di gruppi/artisti con una credibilità (casi clamorosi sono Soul Asylum o Liquido) e gruppi one-shot che si sono rivelati grandiosi. Questa roba ha un tratto comune: nella sua miglior incarnazione è praticamente invisibile al pubblico specializzato. È musica che vende bene nel mercato generico, spinta da radio e TV, confezionata a modo, su cui esiste una sorta di franchigia critica. Negli anni novanta andava ancora la vodka alla pesca e credo di averne bevuta una discreta quantità. Poi ho scoperto la vodka liscia e non ho più voluto sentir parlare di vodka alla pesca, e poi ho scoperto la vodka buona e non ho più voluto sentir parlare di vodka cattiva. Se non c’è altro intorno la vodka alla pesca è meglio che niente, e poi decidi che è meglio niente. Perché coi gruppi dovrebbe essere diverso? Ma la franchigia critica di cui sopra è stata applicata con troppa leggerezza, e a un certo punto ti trovi a riascoltare un singolino alla radio, e a cercare di rimettere insieme i pezzi, cercare di ricostruire una storia, qualcosa del genere. È uno dei motivi per cui la musica è così affascinante. Ho valutato decine-centinaia di canzoni, nel tentativo di arrivare a un totale di venti. Le regole si inventano sul momento: i pezzi troppo caricaturali (tipo Mmm mmm mmm mmm) non vanno bene, e bisogna cercare di inserire uno-due pezzi al massimo per ogni sottogenere, e cercare di tenere al minimo indispensabile i singoli fatti da gruppi buoni (gli Weezer sono il miglior gruppo FM-rock della storia, ma sono talmente buoni che inserirli è un po’ come dare uno schiaffo a tutti gli altri), e soprattutto bisogna cercare un flusso continuo che ti porti da una canzone all’altra senza traumi. Zombie l’ho scartata.

Zombie è uno dei singoli più ascoltati del 1994. Era una canzone così perfetta per l’anno in cui usciva da far pensare che fosse stata messa insieme da un’intelligenza artificiale: aveva gli accordi di un pezzo rock come quelli che andavano allora, aveva una linea melodica fascinosa che si sposava agli accordi, aveva delle tonalità molto scure che puntellavano la linea melodica, aveva un testo sinistro che scuriva molto le tonalità, e aveva un retrogusto epic-folk irlandese che ammantava il tutto e –scoprimmo con una certa sorpresa- ci stava benissimo. Beh, i Cranberries erano irlandesi. Il loro principale plus rispetto al resto dei gruppi con quel suono era la voce della cantante, che definire peculiare era un eufemismo: una voce femminile così, in quel contesto, era difficile anche solo da pensare. I Cranberries furono tutt’altro che un gruppo da one shot: lo stesso disco, No Need To Argue, generò altri singoli di grandissimo successo –almeno uno, Ode To My Family, era migliore di Zombie– e il gruppo mantenne la propria visibilità anche negli anni successivi. Non generarono veri e propri epigoni, forse perché la loro caratteristica principale non era replicabile e tutte le loro caratteristiche secondarie potevano essere copiate meglio da altre parti.

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Tra le cose che più vengono lamentate a chi scrive di musica, una delle principali è l’eccesso di autoreferenzialità: chi scrive parla troppo dei cazzi propri e anche nella critica tende ad anteporre le questioni personali a un racconto che sia più professionale e rigoroso. Ma nel dare la notizia della morte di Lemmy, sul proprio canale Facebook, i Motorhead misero un invito: “share stories”. La trovai una cosa molto bella: stringi stringi, certi gruppi è meglio raccontarli per cosa hanno significato nella tua vita.

Il valore storico dei Cranberries, dal punto di vista artistico e soprattutto narrativo, può essere discutibile: non hanno generato epigoni, non hanno cambiato le regole del mercato, non hanno mandato affanculo il papa in diretta TV e non hanno fatto 300mila persone a Knebworth. Non hanno fatto altro che venire ascoltati. Quando muore una Dolores O’Riordan, celebrarla da un punto di vista giornalistico può presentare qualche problema.

Tra le altre cose lamentate a chi scrive di musica c’è che stiamo invecchiando a vista d’occhio. Quasi tutti quelli che scrivono di musica oggi hanno vissuto in prima persona almeno un pezzo degli anni ’90 e possono fornire esperienza diretta. Il racconto di quel decennio, in ogni caso, non ne ha guadagnato in profondità; la principale idea storica di quegli anni si è cristallizzata al punto da farci credere che sia vera. I Cranberries sono senza alcun dubbio un gruppo generazionale: se hai la mia età ne hai una cognizione abbastanza puntuale, altrimenti no. Raccontare i Cranberries è complicato perché è complicato raccontare in generale un decennio di musica, il sistema di valori su cui si reggeva quel decennio e le impurità culturali che si annidavano tra le pieghe di quel sistema.

Una cosa stupida: negli anni ottanta, e oggi, distinguere tra un gruppo “vero” e un gruppo costruito a tavolino non era una cosa così interessante; nel decennio che ha seguito l’esplosione dei Nirvana era diventata uno dei principali punti di discussione. C’erano dietro dei meccanismi di autodifesa molto banali: i modelli musicali di quel periodo erano molto facili da replicare, i gruppi con una reputazione venivano incoraggiati a suonare in modo più standard, e si cercava di scremare sulla base delle informazioni che c’erano: da una parte quelli veri, dall’altra gli Stiltskin. Per molti di quelli che hanno iniziato ad ascoltare musica a quei tempi quel tipo di street cred è diventato un dogma, che oggi continua a creare discussioni su cui molti alzano il sopracciglio e/o mandano in culo l’interlocutore.

I Cranberries stavano più o meno in mezzo alle due cose. Erano senz’altro un gruppo vero, ma esistevano in un contesto diverso, molto meno interconnesso di quello che poteva essere ad esempio il britpop (che esplose in contemporanea ai Cranberries, grossomodo). Avevano un singolo dal suono grungy ma era abbastanza evidente che non fossero il classico gruppo creato in vitro per una pubblicità della Levi’s. Erano riconoscibilissimi, irreplicabili, si poteva valutare un acquisto del disco. Ma non potevano vantare un passato fatto di dischi usciti per etichette a prova di bomba: come la giravi, qualcosa non tornava. Verrebbe da definirli mosche bianche, ma in quegli anni non era così infrequente imbattersi in un gruppo con uno status simile. Mi vengono in mente i Counting Crows, ad esempio, o gli Weezer (che si rivelarono solo dopo un gruppo con la favella inesauribile), o tutta la seconda-terza gratta del grunge, i vari Stone Temple Pilots/Bush/Silverchair.

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I tre stralci che ho messo sopra testimoniano di un po’ di confusione generale nell’applicazione di questi valori. Ad esempio nella prospettiva culturale di un giornalista di reputazione granitica come Cilìa i Cranberries non sono praticamente mai esistiti, ed è stupefacente per lui accorgersi oggi che il ricordo del gruppo tra i suoi lettori è così vivo. L’intervento di Romano sembra orientarsi dall’altra parte dello spettro culturale, ma l’idea di base è la stessa –i Cranberries non erano gli Spin Doctors, e quindi erano i Nine Inch Nails. Una volta che hai deciso di sparare alto, tanto vale dichiarare che tra Zombie e Teen Spirit non c’era alcuna differenza e/o che nessun decennio come i novanta ha visto morire le rockstar.

Ecco, ai Cranberries va perlomeno dato atto di aver trasceso il racconto che la stampa più o meno specializzata sta facendo di loro. Di aver dato, sicuramente senza volerlo, una sfaccettatura di complessità in più a tutta questa faccenda, e di essere molto più saldamente custoditi nelle storie di chi li ha ascoltati. Forse non hanno avuto la capacità di definire davvero la propria epoca, ma Zombie ancora oggi ha una capacità di evocarla che non ha quasi nessun’altra canzone. Magari questa incapacità di parlarne in senso compiuto è indice del fatto che non siamo mai riusciti a risolvere davvero quel decennio, e magari la morte di Dolores O’Riordan è una buona occasione per riprovarci. Magari a questo giro andrà meglio. 

Il pezzo introspettivo

I Linkin Park erano un gruppo del cazzo. Le circostanze storiche li hanno inchiodati ad un periodo nel quale il crossover stava cercando una band che simboleggiasse il salto dello squalo, e il loro disco d’esordio arrivò semplicemente al momento più giusto, o al momento più sbagliato. Vendettero troppo e troppo in fretta e furono spremuti dall’etichetta come si conviene alle sensazioni del pop rock con la scadenza scritta davanti a caratteri cubitali. La loro carriera è continuata fino ad oggi, e se me lo chiedete non saprei davvero dire perchè. Hybrid Theory era talmente sputtanato e melodico che quando uscì il primo singolo dell’album successivo s’era tutti pronti a cacargli sopra; non c’era già quasi più gusto a farlo. E in effetti il primo singolo di Meteora, Somewhere I Belong, era davvero una merda improponibile

o no. Mi ritrovai ad ascoltarla in condizioni al limite dell’umano: sei o sette pasaggi uno in fila all’altro, presa bene sull’ultimo break con Bennington che si scortica le corde vocali, e tutto questo impianto fragile nel testo che s’accompagnava ai chitarroni. Era un pezzo introspettivo. “Introspettivo” è proprio l’aggettivo che usai, durante una telefonata con Matteo, non so chi dei due fosse più stupito che l’ultima canzoncina di un gruppo del cazzo come i Linkin Park ci prendesse così bene. “Introspettivo” è una parola improbabile, una po’ da critico musicale: in prospettiva mi sono vergognato talmente tanto di averla usata che ancora oggi se mi capita sotto gli occhi ripenso alla canzone dei Linkin Park.

La buona notizia è che il resto di Meteora non era un granché. La critica ci pisciò sopra senza fare una piega, i Linkin Park si accontentarono di venderlo ai ragazzetti, portarono a casa un altro record di vendita e dissero addio al sogno umido di un’immortalità artistica che a scapito del singolo  introspettivo non avevano il cervello manco per immaginare.

Da lì in poi non ci ho più voluto avere a che fare. Per quanto possibile, almeno: i Linkin Park, come tutti i gruppi del cazzo di straordinario successo commerciale, erano talmente pimpati e pompati che la loro musica s’è trovata a far da colonna sonora nelle situazioni più disparate. Uno non può scegliere il modo in cui entra nella storia, e di solito si consola pensando che la maggior parte degli altri nella storia non ci finisce proprio. Ma i Linkin Park se li prese in carico un visionario. Nel 2006 usò una loro canzone, Numb/Encore, per musicare la scena di apertura del remake di una serie TV che lo aveva reso famoso negli anni ottanta. In maniera probabilmente accidentale si tratta di una delle più belle scene mai viste al cinema, e del film più bello degli anni duemila. Io tendo a sopravvalutare tutto quel che dice Michael Mann, così negli ultimi dieci anni ho ripreso in mano i Linkin Park e di tanto in tanto mi riascolto qualcosa. La mia canzone preferita dei Linkin Park è Somewhere I Belong, il pezzo introspettivo. La seconda che preferisco è Numb/Encore, che è sempre  introspettiva, e riascoltando i Linkin Park te ne accorgi subito che di introspettivi come loro ce n’erano pochi, e che lo erano quasi sempre e almeno avevano il coraggio di esserlo senza enfatizzare troppo. È ragionevole pensare che il suicidio di Chester Bennington non farà un granché per ridimensionarli artisticamente: erano un gruppo del cazzo. Se solo tutti i gruppi del cazzo fossero come loro. 

Una cosa che non c’entra con Fantozzi

Avevo iniziato a raccogliere mentalmente  le espressioni che uso correntemente e che vengono dai film di Fantozzi, tipo che so, “coglionazzo” o “accento svedese”, “rutto libero” o “crocifisso in sala mensa”, ma in realtà le espressioni sono tantissime -tutte le volte che sbagliamo apposta un congiuntivo, in fondo, stiamo rendendo omaggio. Poi ho pensato ai ganci con la musica, ad esempio Crocefisso in sala mensa degli Encore Fou, e poi mi è venuta in mente una cosa stupida.

Se mi chiedete qual è il pezzo di giornalismo musicale più bello che ho mai letto, quello che mi ha influenzato di più e quello che mi ha fatto capire quanto cazzo può essere bello scrivere di musica, non ho nessun dubbio. È un pezzo a più mani uscito su Rumore vent’anni fa, per l’esattezza -se non erro- era il numero di gennaio del ’98, quello con gli Shellac in copertina. Non era l’intervista agli Shellac. Era un altro articolo, una cosa che forse già a quei tempi avevo imparato si chiamasse divertissement. Dicono sia stato un’idea di Fabio De Luca: prendiamo un mostro sacro, uno di quegli intoccabili della musica colta di cui leggerete benissimo tra due pagine, e lo facciamo a polpette. Uno a testa. Quello che ognuno disprezza di più. A dispetto di un paio di episodi più deboli, e dei pericoli che potrebbero essere insiti in un’idea del genere (gratuità, conti personali da saldare, eccetera) quelle pagine vibrano di una tensione meravigliosa in cui quasi tutte le firme di Rumore, chissà perché, si esprimono al meglio. Nel tritacarne finisce gente tipo Frank Zappa, Ramones, Smiths, Pistols, Brian Eno, Doors, Sonic Youth. A sentire qualche biascicato commento, la redazione viene invasa di lettere di fan infuriati per il trattamento subito dai loro beniamini. I miei due preferiti sono un pezzo cortissimo in cui Luca Frazzi sparla di CCCP e CSI tirando fuori in maniera quasi incidentale la più bella e lucida analisi mai scritta da chicchessia sull’alternative italiano, e soprattutto un monumentale sproloquio (Deconstructing Henry), firmato da Bordone e Vettori, che si fa beffe di Henry Rollins. L’articolo si chiama La corazzata Potiomkin.  

L’unica volta che ho visto i Pan Sonic

(RIP Mika Vainio)

Ho visto i Pan Sonic una volta sola, nell’ottobre del 2004. La storia è così: i Pan Sonic suonano al TPO di Bologna, avevo saputo della serata il giorno stesso, mi ero organizzato con Nicola e avevo addosso una gran fotta. Il concerto inizia alle 10 e io per i concerti sono sempre stato mediamente in apprensione. Partiamo sulle otto e mezzo, dico, se c’è poco casino per strada al limite facciamo un bicchiere di vino lì fuori dal TPO. Quando il TPO era nella sede vecchia, un paio di km fuori da Porta Stocazzo, c’era un’enoteca bellissima/scrausa sull’incrocio, o almeno è così che mi ricordo le cose. Arriviamo sulle 9.30, e per evitare di romperci troppo il cazzo dentro al TPO andiamo davvero a bere un bicchiere di vino nell’enoteca ancora deserta. Mezz’ora dopo ci presentiamo alla cassa e ci vuol poco a capire che siamo i primi paganti della serata. Entriamo comunque, “magari queste serate iniziano un po’ più tardi”. Alle 11 il posto è ancora deserto e noi abbiamo fatto tutto quel che c’è da fare quando aspetti un concerto -birra, banchetto dei dischi, un’occhiata ai flyer. Dopo un’altra mezz’ora siamo a parlare seduti sul lato destro del palco, assieme ad un altro paio di amici che abbiamo incontrato. Si avvicina un tizio esattamente a metà tra il fricchettone e il punkabbestia, cioè un normale bolognese intorno ai 25, attacca un po’ bottone, ci dice che è dell’organizzazione e che dobbiamo andare a bere o il concerto non inizia. Lo guardo un po’ stralunato. Lui mi pianta gli occhi addosso e poi mi spiega come funziona la politica economica del Teatro Polivalente Occupato di Bologna: il cachet dei Pan Sonic è tot mila euro, e finchè non siamo riusciti a tirarli su tra ingressi e bar il gruppo non comincia. Gli chiedo se sta scherzando e lui mi guarda come se avessi detto che Pasolini stava con gli sbirri. Nel suo surrealismo la situazione ha un lato divertente: è un’ora e mezzo che siamo in questo posto a romperci il cazzo nella speranza che prima ci sia un concerto dei Pan Sonic, e d’un tratto arriva un tizio a dirti che il concerto dei Pan Sonic potrebbe non esserci mai. Sul momento sono tentato di vedere il suo bluff: che succede se non vado a bere? Stiamo qui a cagarci il cazzo fino a ora di colazione? D’altra parte è l’ottobre del 2004, ho 27 anni, sono single, non guido e l’idea di disobbedire a qualcuno che ti intima di bere un’altra birra è sconosciuta al mio paradigma ideologico. Così vado al bar e mi sparo un’altra consumazione o due. A un certo punto il TPO raggiunge il break even, sarà circa l’una e mezza di notte, e a quel punto i Pan Sonic possono suonare. 

Non è una gran storia, ok. Il concerto poi però fu una cosa epica: quelli che c’erano ne han parlato per anni come della massima cosa musicale mai successa. Qualche mese dopo dal TPO ci passò la reunion degli Slint: puzzava di cazzata ma c’erano i Radian di spalla, così mi organizzai per andare. Però mi dissi “col cazzo che stavolta mi fregano, loro e le loro attese infinite” e salii a Bologna con la massima comodità. Quando riuscii ad entrare i Radian stavano finendo l’ultimo pezzo.

MATTONI: Willard Grant Conspiracy (in morte di Robert Fisher)

La rubrica MATTONI, ormai caduta in disgrazia, parla di canzoni lunghe dieci minuti e passa. Di solito è roba che compete alla sfera del metallo estremo o dell’elettronica militante ma non sempre. Oggi, ad esempio,

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Come tutti quelli flippati coi dischi ho anche io un sacco di psicosi assurde legate alla musica. Una delle più bizzarre, a cui non penso spesso, è questa: se una persona che ne sa meno di me mi fa scoprire un disco bello, soffro fisicamente. Sono stato chiaro? Mi sa di no. Cerco di spiegare.
Durante la vita ho passato un sacco di tempo a scandagliare riviste e siti internet alla ricerca di qualunque tipo di buona musica. Una delle spinte iniziali, quando diventi un fanatico di questa roba, è saperne più di quelli che vivono nel tuo condominio, e così cominci: concerti, dischi, concerti, dischi, fanze, riviste, concerti, dischi, forum eccetera. Personalmente ho anche una lista di persone che in anni di preadolescenza mi hanno sfottuto per qualche macroscopica lacuna musicale, quelli che ti sfottono perché a 13 anni non sai chi sono i Led Zeppelin, eccetera. L’indiretto protagonista di questa storia non mi ha mai sfottuto, anzi è una delle migliori persone che abbiano mai incrociato la mia vita, ma non ha passato gli ultimi vent’anni a comprare leggere scaricare. Però negli anni del liceo mi ha fatto un po’ cominciare ad ascoltare certa musica –gli devo i Pantera, Danzig, i primissimi Litfiba, qualche roba crossover, il Wu Tang, i Negu Gorriak, diverse cose hardcore vecchie. Negli anni di formazione in provincia avere a che fare con questa roba è abbastanza insolito e può portare a tracciare una specie di solco su cui poi si va a costruire un po’ tutta una narrativa personale. Oddio, sto facendo un pippone. Ricomincio.
Col mio amico andavo al liceo ed ero innamorato di lui perché aveva una testa pensante anche a 15 o 16 anni, una cosa che almeno alla mia epoca era abbastanza una rarità. Nei primi anni di università abbiamo finito per perderci, come del resto era fin troppo auspicabile, e quando ci siamo ritrovati s’era formata più o meno la nostra personalità, o quantomeno la nostra sfera di interessi. Io avevo passato gli ultimi 7 o 8 anni ad ascoltare musica di ogni tipo in modo ossessivo ed enciclopedico, lui no; lui svolgeva il lavoro per cui aveva studiato, io no; sia io che lui eravamo piuttosto ossessionati dall’idea di mangiare bene e bere bene, così insomma, un terreno comune e tante serate. Succede più o meno dieci anni fa: sono in macchina con lui diretto in qualche cazzo di ristorante in collina, lui ha lo stereo acceso con la musica bassa che viene da qualche CD fatto con gli mp3, e chiacchieriamo di cose che non ricordo, e a un certo punto inizio a prestare attenzione alla musica. È una specie di giro allucinato di rockettone psichedelico che se non sbaglio sta andando avanti da cinque o sei minuti senza cambiare mai, e ogni tanto la musica si stacca e c’è un tizio col vocione che canta, quelle voci scurissime che t’immagini nascondano un tizio di mezza età col barbone e i capelli corti, una certa qual intonazione alcolica, e poi a un certo punto la strofa finisce e mentre la musica ricomincia a suonare la voce continua a ripetere Let it roll, let it roll, let it roll e via di questo passo finchè non inizia a urlare. Non riconosco il cantante né il gruppo e questa cosa mi fa MALISSIMO, dieci anni di studio buttati nel cestino, ora dio cristo devo chiedergli che disco è, e io non voglio chiederglielo, voglio saperlo prima e magari dire “ma questo chi è, Smog?”, e lui saprebbe quanto cazzo sono serio. Vabbè. Gli chiedo chi è, e lui mi dice che sono i Willard Grant Conspiracy, che da poco hanno suonato qui in giro e io non solo me li sono persi ma manco lo sapevo perché non avevo idea che fossero fighi. Così. Gli dico di alzare, poi c’è da dire che l’altra roba secondo me funziona un po’ meno o almeno in quella macchina non funziona così bene quanto il tiratone di prima. Vabbè. Non ricordo come è andata la cena ma era la sua macchina, quindi io mi sarò ubriacato. Il giorno successivo ho scaricato il disco e l’ho messo su.
Poi da allora sono successe svariate cose, soprattutto col mio amico –io ho cambiato città, lui si è sposato e non è più facilissimo vedersi coi miei bambini e i suoi orari lavorativi eccetera, ma tutte le volte che ci vediamo per me è una cosa speciale. I Willard Grant Conspiracy li ho ascoltati per bene: il disco che contiene Let It Roll si chiama Let It Roll e come quasi tutta la loro produzione è perlopiù acustico. La voce è di un tale di nome Robert Fisher, che poi è l’unico vero e proprio membro del gruppo, il quale nel corso della sua esistenza ha operato con una cinquantina di musicisti diversi. Sono riuscito a vederlo anche dal vivo, una serata strana e molto raccolta a metà settimana. Era uscito un altro disco del gruppo, Pilgrim Road, e il palco era diviso a metà con Cesare Basile in non so quale progetto estemporaneo. C’era anche il mio amico. Fisher era pazzesco: un armadio di un quintale e mezzo seduto a lato del palco, manco un millimetro di barba, una voce assurda. Ieri s’è saputo che è morto di cancro: la sua musica qui è arrivata ma non ha fatto poi troppo clamore, quindi magari –almeno per i fanatici del folk- vale la pena perderci un’oretta e mettersi in pari. Se lo chiedete a me, conviene partire con Let It Roll: dieci minuti di folk elettrico allucinato e rumorosissimo, la voce ubriaca di Fisher che sul finale urla in un modo da far paura.