MATTONI: Willard Grant Conspiracy (in morte di Robert Fisher)

La rubrica MATTONI, ormai caduta in disgrazia, parla di canzoni lunghe dieci minuti e passa. Di solito è roba che compete alla sfera del metallo estremo o dell’elettronica militante ma non sempre. Oggi, ad esempio,

___

Come tutti quelli flippati coi dischi ho anche io un sacco di psicosi assurde legate alla musica. Una delle più bizzarre, a cui non penso spesso, è questa: se una persona che ne sa meno di me mi fa scoprire un disco bello, soffro fisicamente. Sono stato chiaro? Mi sa di no. Cerco di spiegare.
Durante la vita ho passato un sacco di tempo a scandagliare riviste e siti internet alla ricerca di qualunque tipo di buona musica. Una delle spinte iniziali, quando diventi un fanatico di questa roba, è saperne più di quelli che vivono nel tuo condominio, e così cominci: concerti, dischi, concerti, dischi, fanze, riviste, concerti, dischi, forum eccetera. Personalmente ho anche una lista di persone che in anni di preadolescenza mi hanno sfottuto per qualche macroscopica lacuna musicale, quelli che ti sfottono perché a 13 anni non sai chi sono i Led Zeppelin, eccetera. L’indiretto protagonista di questa storia non mi ha mai sfottuto, anzi è una delle migliori persone che abbiano mai incrociato la mia vita, ma non ha passato gli ultimi vent’anni a comprare leggere scaricare. Però negli anni del liceo mi ha fatto un po’ cominciare ad ascoltare certa musica –gli devo i Pantera, Danzig, i primissimi Litfiba, qualche roba crossover, il Wu Tang, i Negu Gorriak, diverse cose hardcore vecchie. Negli anni di formazione in provincia avere a che fare con questa roba è abbastanza insolito e può portare a tracciare una specie di solco su cui poi si va a costruire un po’ tutta una narrativa personale. Oddio, sto facendo un pippone. Ricomincio.
Col mio amico andavo al liceo ed ero innamorato di lui perché aveva una testa pensante anche a 15 o 16 anni, una cosa che almeno alla mia epoca era abbastanza una rarità. Nei primi anni di università abbiamo finito per perderci, come del resto era fin troppo auspicabile, e quando ci siamo ritrovati s’era formata più o meno la nostra personalità, o quantomeno la nostra sfera di interessi. Io avevo passato gli ultimi 7 o 8 anni ad ascoltare musica di ogni tipo in modo ossessivo ed enciclopedico, lui no; lui svolgeva il lavoro per cui aveva studiato, io no; sia io che lui eravamo piuttosto ossessionati dall’idea di mangiare bene e bere bene, così insomma, un terreno comune e tante serate. Succede più o meno dieci anni fa: sono in macchina con lui diretto in qualche cazzo di ristorante in collina, lui ha lo stereo acceso con la musica bassa che viene da qualche CD fatto con gli mp3, e chiacchieriamo di cose che non ricordo, e a un certo punto inizio a prestare attenzione alla musica. È una specie di giro allucinato di rockettone psichedelico che se non sbaglio sta andando avanti da cinque o sei minuti senza cambiare mai, e ogni tanto la musica si stacca e c’è un tizio col vocione che canta, quelle voci scurissime che t’immagini nascondano un tizio di mezza età col barbone e i capelli corti, una certa qual intonazione alcolica, e poi a un certo punto la strofa finisce e mentre la musica ricomincia a suonare la voce continua a ripetere Let it roll, let it roll, let it roll e via di questo passo finchè non inizia a urlare. Non riconosco il cantante né il gruppo e questa cosa mi fa MALISSIMO, dieci anni di studio buttati nel cestino, ora dio cristo devo chiedergli che disco è, e io non voglio chiederglielo, voglio saperlo prima e magari dire “ma questo chi è, Smog?”, e lui saprebbe quanto cazzo sono serio. Vabbè. Gli chiedo chi è, e lui mi dice che sono i Willard Grant Conspiracy, che da poco hanno suonato qui in giro e io non solo me li sono persi ma manco lo sapevo perché non avevo idea che fossero fighi. Così. Gli dico di alzare, poi c’è da dire che l’altra roba secondo me funziona un po’ meno o almeno in quella macchina non funziona così bene quanto il tiratone di prima. Vabbè. Non ricordo come è andata la cena ma era la sua macchina, quindi io mi sarò ubriacato. Il giorno successivo ho scaricato il disco e l’ho messo su.
Poi da allora sono successe svariate cose, soprattutto col mio amico –io ho cambiato città, lui si è sposato e non è più facilissimo vedersi coi miei bambini e i suoi orari lavorativi eccetera, ma tutte le volte che ci vediamo per me è una cosa speciale. I Willard Grant Conspiracy li ho ascoltati per bene: il disco che contiene Let It Roll si chiama Let It Roll e come quasi tutta la loro produzione è perlopiù acustico. La voce è di un tale di nome Robert Fisher, che poi è l’unico vero e proprio membro del gruppo, il quale nel corso della sua esistenza ha operato con una cinquantina di musicisti diversi. Sono riuscito a vederlo anche dal vivo, una serata strana e molto raccolta a metà settimana. Era uscito un altro disco del gruppo, Pilgrim Road, e il palco era diviso a metà con Cesare Basile in non so quale progetto estemporaneo. C’era anche il mio amico. Fisher era pazzesco: un armadio di un quintale e mezzo seduto a lato del palco, manco un millimetro di barba, una voce assurda. Ieri s’è saputo che è morto di cancro: la sua musica qui è arrivata ma non ha fatto poi troppo clamore, quindi magari –almeno per i fanatici del folk- vale la pena perderci un’oretta e mettersi in pari. Se lo chiedete a me, conviene partire con Let It Roll: dieci minuti di folk elettrico allucinato e rumorosissimo, la voce ubriaca di Fisher che sul finale urla in un modo da far paura.

 

 

Abbassare il livello: BRUTAL TRUTH/BASTARD NOISE – The Axiom of Post Inhumanity

I Brutal Truth sono una delle cose più belle successe alla musica dall’invenzione dell’elettricità a oggi; implosi dopo una breve serie di dischi che dire monumentali è sminuire la categoria dei dischi monumentali, hanno capito che non era il caso e da qualche anno sono tornati, e per qualche miracolo che evidentemente non è dato comprendere ma solo accettare muti e grati i dischi nuovi sono buoni quasi quanto quelli vecchi. I Bastard Noise all’inizio erano i Man Is The Bastard che cazzeggiavano coi rumorini, poi i Man Is The Bastard si sono sciolti, Eric Wood ha continuato e sono rimasti loro; l’ultima volta che li ho visti c’era una tipa alla voce (devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo). The Axiom Of Post Inhumanity documenta l’incontro tra questi grandi spiriti (sia detto senza la minima ironia). Sulla carta qualcosa di epocale, mastodontico, definitivo, roba che ha a che fare molto da vicino con il concetto di history in the making e che solletica l’immaginazione prefigurando scontri titanici alla Thor contro Galactus, Alien contro Predator, Godzilla contro Gamera; nella pratica una cosetta neppure troppo fastidiosa e men che meno ostica o perturbante.

Esce in due formati come le edizioni platinum della Marvel, CD e vinile con copertine di diverso colore e scalette differenti; come è logico che sia in entrambi i casi la porzione che compete ai Bastard Noise è quella che suona meglio (anni di pratica, strumenti autocostruiti e impalcature concettuali che ai Brutal Truth mancano quasi del tutto – dettaglio non da poco: il quasi è Prey, pezzo che chiude Sounds of the Animal Kingdom e che in 22 minuti dice sul rumore e sul caos più di quanto questo e qualsiasi altro disco potranno dire mai), ma è l’unica differenza: tanto nella versione LP quanto su CD il contenuto è parimenti tristo, baracconesco e deleterio. Una parata di sfrigolii, scrocchi e sibili di quelli che vengono fuori smanettando con la manopola della sintonia di una radio con l’antenna rotta, tetraggine da film horror di serie Q con pretese, scricchiolii e arricciamenti digitali tipo il modem a 56k quando non prende bene e fa fatica a connettersi (Mantis colony), folate minacciose, sirene che precedono i bombardamenti a tappeto (Preemptive epitaph), anatemi con vocione sepolcrale-orchesco, sfarfallii fruscii e pernacchiette (The antenna galaxies), ancora sirene pre-bombardamenti, urla di tregenda e scricchiolii più fastidiosi del solito (Frack baby frack, è più appassionante il film di Gus Van Sant). I pezzi dei Brutal Truth stessa sbobba ma più minimale e alla vecchia. Control room: peace is the victory mix: stasi da dopobomba, una voce che gracchia cose in un walkie talkie distrutto, uno scheletro percussivo carpito chissà dove – forse il batterista che si sta scaldando in sala prove – presto risucchiato nel gorgo di bruma digitale, ululati di fantasmi nella notte, casino montante, ronzii da tinnito permanente, batterista sempre più lanciato, climax, rilascio. Diciotto minuti. Control room: smoke grind and sleep mix: altri acufeni, il suono delle pale di un elicottero che girano a vuoto riprocessato in modo da sembrare una grattugia che sfrega contro una barra di tungsteno, il ‘beep’ che segnala quando qualcuno ha lasciato lo sportello aperto in macchina, gli stessi ululati di cui sopra però sepolti sotto coltri di rumore di fondo e con un fastidioso ronzio persistente tipo trapano del dentista rimasto acceso in uno studio vuoto, segnali acustici a sfare, parte pure il campionamento di un pezzo sul danzereccio arrogante, lento ma violento avrebbe detto Albertino, ma è un attimo, poi voci a random tipo disco di Peter Sotos ma incomprensibili che diventano urla che diventano latrati. Venticinque minuti. The Stroy, la più rumorosa, bruma digitale più aggressiva del solito (forse sono le onde corte invece delle onde medie, non so, non faccio l’antennista) e fischio tipo volatile incarognito o antifurto guasto di quelli veramente molesti, poi un urlo tipo suicida che si lancia dal balcone e infine le sole note suonate dell’intero programma, l’attacco di un pezzo che diresti sul doom-cazzeggio in sala prove ma filtrato e distorto come attraverso un software di quindici anni fa, tipo Fruity Loops ma ancora più basilare. Magari è pure un pezzo vecchio dei Brutal Truth, comunque non lo riconoscerebbe nessuno. Poi tutto si sgretola in un’orgia di feedback e ampli in saturazione. Sette minuti. È il 2013 e che questo disco esca a due settimane dalla morte di Lou Reed in qualche maniera strana e perversa ha un senso.

MATTONI issue #20: BEDHEAD

A tanti che ci hanno provato, ad essere gentili, li impiccheresti. (cit.) Uno dei miei assunti preferiti a firma m.c. è quello secondo cui il concetto di slowcore non esiste al di là di The White Birch, e io non discuto quasi mai gli assunti di m.c. perché nel novantotto per cento dei casi mi aiutano a vivere meglio il mio rapporto con la musica. E tuttavia, per una questione di casi fortuiti, mi è capitato di ripescare Transaction de Novo dei Bedhead dopo un sacco di tempo, nello stesso periodo in cui la primavera ha smesso di farci sniffare sole e venticello caldo e ha iniziato a spinger nuvole e pioggia nel cielo. Ora niente, capita solo che il disco io non lo riesca materialmente a togliere dal lettore manco per ascoltare i notiziari e questa cosa, in un cambio di stagione del genere, con i Bedhead non m’era capitata manco a venticinque anni.

The Present è l’ultima traccia dell’ultimo disco a nome Bedhead. Matt e Bubba Kadane hanno sciolto il gruppo e formato i New Year (una cosa di tutto rispetto, ma comunque un’altra cosa); ma non è difficile considerarla per suoni e parole il testamento spirituale di una maniera di pensare scrivere e suonare la musica; una maniera così emotivamente lancinata che nonostante le declinazioni simili non si contino, in qualche modo sembra essere andata perduta per sempre con lo scioglimento della band. Non è un vero e proprio mattone perché i MATTONI secondo regola sono i pezzi che superano i venti minuti e questa qua ne dura solo sette, ma tutto sommato abbiamo deciso qualche tempo fa che col nostro blog ci facciamo il cazzo che ci pare e il testo di The Present fa venire abbastanza voglia di morire. Ci sta da dio pure la luna a scatto fisso nel video pirata che ho trovato sul tubo, anche se il consiglio è di andarvi a comprare/masterizzare il disco e suonarlo in auto a volumi indecenti.


 
It’s always this year’s gift
Is it ever what I wanted
Was I unhappy living in the past
Has my growth been that stunted
When to be ashamed is to be defined
And all this self awareness
The blind led by the blind
An empty conscience is sensitivity
I have to pretend I’m overcome with humility
It always comes on time
Not a second before the instant
But this year I think I’d rather be a relic
Than part of the present

America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America.

Negli ultimi mesi sono stato più volte preso per pazzo mentre venivo sgamato (al lavoro, in giro per i locali, pranzi familiari, in treno, dentro i negozi) a sussurrare parti casuali del testo della traccia numero 3 dell’ultimo disco di Bill Callahan.
Non è la traccia più bella e nemmeno la più geniale né tantomeno la più rappresentativa del disco. È solamente un delirio semiacustico di tipo sei minuti nei quali l’artista precedentemente conosciuto come Smog continua a cantare “AMERICA” nello stesso tono come un ubriaco aggiungendo parti di testo che per metà sono slogan e per metà sono riflessioni amare a buffo. Ai primi due o tre passaggi del disco sembra una ciofeca messa in scaletta per farne una sbagliata, poi ti si attacca alle orecchie e ti entra dentro e ti svuota tipo La Cosa.
Scopro che –immagino per via del 4 luglio- è stato fatto un video, con il quale spero che questa sorta di MATTONE compresso nella durata di un pezzo normale invada MTV e le menti dei giovani ascoltatori fighetti con la stessa virulenza con la quale sta hauntando il mio cervello. Lo trovate qui sotto. Condividetelo tutti ed aiutate la Cosa a conquistare la terra. Tutti pazzi.

 

MATTONI issue #18: THE ATOMIC BITCHWAX

Beccati questa Fritz Lang.

Eccolo dunque il colpetto da stronzo, la Prova Di Forza, la dimostrazione di prevaricazione gratuita e assolutamente non richiesta. Io ti spiezzo, il mio uccello è più grosso del tuo, e chi sarà mai questo Jimi Hendrix, io ho fatto 975.000 dollari l’anno scorso tu quanto hai fatto?, guarda come vado a canestro, il mio SUV è più ingombrante di una portaerei e inquina quanto Fukushima all’ora di punta, ho le palle grosse come cocomeri e mi sono appena scopato tuo padre. The Local Fuzz è la trasposizione in musica del teppista più antipatico e pieno di sé che alle elementari ti rubava la merenda umiliandoti fino alle lacrime durante la ricreazione; se fosse un film sarebbe Novecento (grandeur epocale e durata estenuante e bestemmie di bambini e cazzi barzotti di De Niro e Depardieu compresi), se fosse un libro sarebbe l’Ulisse, però lungo il doppio e senza punteggiatura. Somiglia piuttosto a un film porno o a una partita di calcio infinita, gesto atletico allo stato puro, con la differenza che qui è divertente: quarantadue minuti di stoner blues rock psichedelico e tastierato alla vecchia, un monumento al fuzzbox che Mark Arm al confronto è un dilettante piagnucoloso, motivato e animato da una carica di testosterone come manco un plotone di camionisti in un bordello dopo un viaggio non-stop di sei mesi. Gli Atomic Bitchwax, fino ad oggi poco più di un simpatico gruppetto di onesta manovalanza stoner delle retrovie, noti più che altro per essere partiti come side-project del biondo Ed Mundell (chitarra stordente nei Monster Magnet migliori), hanno scritto con The Local Fuzz il loro Presence, il loro Time Does Not Heal, però tutto condensato (si fa per dire) in un unico pezzo. Soprattutto, ci risparmiano l’immenso strazio di dover subire qualche bolso clone del cazzo di Robert Plant che latra BABY BABY BABY BABY BABY nei momenti più atroci (il disco è interamente strumentale), e anche soltanto per questo RISPETTO a prescindere. Certo ci sono alcuni momenti (per la precisione ai minuti 18, 23, 29, 35 e 38) in cui la continuità cede e si passa brutalmente da una sequenza di riff a un’altra senza apparente costrutto, ma questo succede comunque senza mai pregiudicare lo scopo principale del pezzo, che è mettere simpaticamente i piedi in testa a chiunque sia convinto di saper suonare in modo più viscerale, stronzo e drogato dei tre cazzoni sballoni qui presenti. The Local Fuzz è sicuramente il MATTONE più divertente intercettato finora.