La cagnotta di Taylor Swift

Federico Pucci

Il mercato si regola da solo, è una massima che viene estratta — a quanto mi risulta — dall’opera dell’economista americano Premio Nobel Milton Friedman. Non ho mai letto un libro di economia, ma uno dei miei primi ricordi musicali è una battaglia contro il Capitale portata avanti dalla mia band del cuore quando ero ancora un pischellino. A metà anni ’90 i Pearl Jam lottarono contro il monopolio di Ticketmaster, in particolare per il loro controllo sui prezzi dei biglietti, finendo scornati con un tour nella periferia degli Stati Uniti. Le discussioni sul costo dei biglietti dei concerti mi sono sempre risultate un po’ ostiche: da una parte non ho alcuna conoscenza in campo economico e vivo distaccato dalla plebe nel mio mondo di accrediti; dall’altra mi sembra che l’approccio populista rischi di prevalere, propugnando l’idea che uno spettatore o un giornalista (cioè, spesso, nient’altro che uno spettatore dotato di diritto di parola a mezzo stampa) si intendano profondamente del meccanismo finanziario che sta dietro la produzione e promozione di un evento dal vivo. I promoter sanno quel che fanno, no? Il mercato si autoregolerà. Per niente, e il casino si è manifestato con il bubbone del “secondary ticketing”, scoppiato a novembre 2016: a quel punto, il ticketing non era più argomento da specialisti, frequentatori compulsivi di concerti e addetti ai lavori, ma oggetto di chiacchiere da bar. E dopotutto, nei siti come Seatwave, Stubhub e Viagogo a spopolare non sono live clandestini accacì sui palchi affollati di un centro sociale, ma i grandi eventi del pop italiano e internazionale che passa su RTL, per intendersi, tipo il concerto dei Coldplay a San Siro da cui è partito tutto*.

Uno degli adagi vagamente assolutori che sono girati in questi mesi è “se la gente è abbastanza pirla da pagare 300 euro per un biglietto dei Coldplay su Viagogo, affari suoi”. La logica, di nuovo, era che il mercato in qualche modo si sarebbe regolato da solo. In realtà, fortunatamente, sono arrivate leggi che prevedono multe e oscuramenti di siti, sanzioni che forse hanno preso di mira i bersagli errati tipo Ticketone, e iniziative come i biglietti nominali che ad esempio la Barley Arts di Claudio Trotta ha fatto debuttare per il concerto dei Queen con Adam Lambert. Dall’altra parte dell’oceano Ticketmaster (che dal 2014 è proprietaria del sito di bagarinaggio Seatwave e nel 2010 si è fusa con il colosso della produzione Live Nation) ha deciso di arginare questo fenomeno con un programma chiamato #VerifiedFan: attraverso codici che si possono ottenere solo tramite iscrizione al sito, il gigante del ticketing ha cercato di arginare i bot che portano biglietti sulle piattaforme di rivendita, un problema particolarmente sentito per i concerti di grandi artisti come Bruce Springsteen, ma anche per eventi ambitissimi come il musical Hamilton di Lin-Manuel Miranda, giusto per citare due dei pochi che finora hanno aderito. 

Dopo aver annunciato il suo ritorno con un singolo bruttino e slegato che dissa Kanye West, cita ‘I’m Too Sexy’ e professa la morte della vecchia sé stessa, Taylor Swift ha deciso di scendere in campo contro il secondary ticketing a proprio modo. Reduce dal record di 215 milioni di dollari incassati per The 1989 World Tour e in attesa del prossimo giro del mondo, la popstar ha stretto un accordo con Ticketmaster per la diffusione dei suoi biglietti tramite il programma #VerifiedFan, con qualche significativa correzione nel senso di un’avidità palese e francamente oscena.

La musica è un lavoro, un’economia, ma se perfino quel ricettacolo di tecnologie cool e inutili di Mashable chiama questo accordo una “truffa”, c’è da riflettere.

Spiego bene: per poter acquistare i biglietti del prossimo e non ancora annunciato tour di Taylor Swift bisogna registrarsi al sito Taylor Swift Tix, e fin qui tutto uguale alla solita procedura #VerifiedFan.

Per chiarire subito un possibile equivoco, Taylor Swift Tix non è progettato per servizi premium tipo meet&greet, è semplicemente l’unico portale di accesso per l’acquisto. Nei mercati K e J-pop sono diffuse pratiche rivolte all’engagemente dei fan, possibilmente tramite acquisto di più copie di un album con la chance di vincere codici speciali per poter incontrare i propri artisti del cuore. Il sito qui invece parla chiaro: attività speciali e meet&greet saranno regolate in seguito, prevedibilmente con la consueta soluzione commerciale, cioè pacchetti più costosi e a numero chiuso. Comunque, per accedere alla possibilità di comprare biglietti (uff, è lungo da dire) ci sono attività «fun» la cui esecuzione comporta un aumento delle proprie chance, una vera e propria crescita del proprio status. Qualcuno ha detto gamification? Forse, ma nessuno ha spiegato esattamente quali coefficienti determinino la crescita del proprio status, detto anche “boost”. 

Quello che si sa è che l’attività privilegiata per ricevere un “boost” è l’acquisto in pre-order del nuovo album Reputation, possibilmente in formato fisico e con consegna UPS (Taylor Swift ha stretto un accordo anche con loro). Cosa impedisce a qualche malintenzionato di comprare decine di album per drogare il sistema? Tranquilli, c’è un tetto: TREDICI album per ciascuno. Dicevo delle lotterie coreane e giapponesi: in Giappone, ad esempio, il mercato dove in assoluto la musica su formato fisico tira di più al mondo, spesso l’incentivo per acquistare più di una copia sono booklet e artwork alternativi, o altri cazzilli variegati inseriti nelle confezioni. Attendiamo di sapere se e come l’artista americana premierà i fan che avranno acquistato 13 copie del suo disco. Un’altra attività “fun” è comprare merchandising autorizzato della serie #TaylorSwiftTix: chi più ne compra, più chance ha di poter comprare un biglietto. Sfortuntatamente per i genitori che avranno già speso 200 euro di copie di un cd, il campo del merchandising non conosce limite: chi vorrà comprare mille t-shirt, potrà farlo. Con tutta questa ROBA di Taylor Swift prodotta, venduta e consegnata da UPS ho come l’impressione che i regali di Natale a tema Taylor Swift saranno molto popolari.

Questa è sicuramente la parte più scottante, quella che dispiega una logica perversa secondo la quale la possibilità di acquistare un biglietto è qualcosa da meritarsi pagando un obolo all’artista. Ma per ricevere un “boost” ci sono anche quelli che chiamerei «lavoretti senza budget», iniziative di engagement gratuite che probabilmente molti fan avrebbero compiuto a prescindere: postare ogni giorno su diverse piattaforme social una notizia con apposito hashtag, possibilmente con una foto del furgone sponsorizzato UPS (non è dato sapere come sarà fatto, ma il sito assicura che “quando lo vedremo passare lo riconosceremo”). Un’altra tecnica, che risale ai gloriosi tempi del marketing multi-level, o vendita piramidale, è quello di far iscrivere al portale Taylor Swift Tix amici e familiari: il codice si può condividere una volta al giorno, ma non si parla di limite di iscrizioni, quindi preparatevi a essere impezzati. Infine, ultima tecnica a sbafo, si può guardare fino a 5 volte al giorno il lyric video sul portale: ma attenzione, senza skippare, ché Taylor vi osserva (davvero, il sito dice che il videoclip va visto dall’inizio alla fine, mi chiedo se controllino anche il volume come alcuni pre-roll inquietanti).

«Allora vedi, ci sono tanti modi gratuiti per poter comprare i biglietti!». Certo, però il “greatest boost” resta comprare il disco, e così il numero 1 dell’album in tutte le classifiche è assicurato.

«Vabè, ma mica sarà obbligatorio?». No, ma è caldamente consigliato: come le microtransazioni di molti videogame, che non sono necessarie e rompono le palle a tutti, ma fanno comodo e così fatturano comunque centinaia di milioni di euro all’anno solo in Italia.

E tutto questo solo per poter comprare un biglietto, ripeto, non per meet&greet e altri servizi premium, che si pagheranno a parte. Ma che vuoi che sia? Non si scatenerà una corsa al biglietto per la popstar più popolare al mondo! Ah sì, perché la truffa di Taylor Swift Tix vale anche fuori dagli USA, ma non è ancora chiaro dove. Forse anche in Italia, dove il precedente The 1989 World Tour non è passato, e dove già da gennaio si attende il debutto di Ticketmaster Italia?

Tornando al principio del discorso, non avrei problemi a veder sobbollire nella loro idiozia i fan disposti a pagare centinaia di euro per poter avere l’umile privilegio di comprare un biglietto: che mi frega, in genere io a questo tipo di concerti vengo accreditato per lavoro. Quello che mi turba è la possibilità che il modello funzioni e si trasformi in un’arma pericolosissima per la diffusione della musica. In questo modo i bagarini sono combattuti con le loro stesse armi: esclusione e prezzi alti. Si gioca sull’idea che i veri fan siano disposti a tutto pur di vedere la loro icona, ed è vero, ed è — diciamo — bello, o affascinante, è ciò che rende la musica così vicina ai culti religiosi e così distante da tutte le altre forme d’arte. Eppure un limite deve esserci, e la truffa di Taylor mi lascia intravedere un mondo in cui la musica dal vivo è cosa per pochi, abbienti e fanatici, e sempre meno un’esperienza condivisa, la chiave di volta di un “poptimismo” che mi pare sempre meno dominante.

Alla fine i Pearl Jam sono tornati a farsi vendere i biglietti da Ticketmaster, si fanno produrre i concerti da Live Nation, e riempiono arene e stadi.  

 

 

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*Quest’estate sono andato alla prima delle due date al Meazza dei Coldplay: fuori dai cancelli ho intervistato 20 persone a caso e nessuna mi ha detto di aver nemmeno visto i siti di secondary ticketing. Al di là del campione statistico insignificante, mi chiedo: il bubbone era una bolla? O la gente paga centinaia di euro come votava Berlusconi e prima ancora la DC?

PAESE REALE: Sacri Cuori, Stearica, Frana, Chambers

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(non è proprio un PAESE REALE ortodosso, è che sono rimasto un po’ indietro coi dischi)

 

SACRI CUORI – DELONE Il principale problema dei Sacri Cuori è che rappresentano una tendenza culturale romagnola che un po’ snobbo e un po’ detesto: quella sottocultura che venera tutta la roba western-indie-southern (e simili) che va dai Calexico a Morricone e s’insinua nella musica dei gruppi locali sotto forma di trombe e riverberi di chitarra, come se fosse una specie di folk music di riserva a cui le nostre terre sembrano costrette a soggiacere (la folk music ufficiale è ancora il liscio). Il personaggio-simbolo di questa appropriazione culturale è tale Antonio Gramentieri, che qui organizza un festival di nome Strade Blu e porta a suonare nomi tipo Howe Gelb, Hugo Race, Lambchop e simili. Oltre ad avere messo insieme il progetto Sacri Cuori. Dicevo, io questa roba la detesto abbastanza e non vedo particolari motivi per cui i gruppi di queste parti dovrebbero suonarla; ciò non toglie che Delone sia una cosa vintage con canzoni così ispirate, e un piglio così osservante e bigotto, da sembrarmi una spanna e mezzo sopra qualunque altra cosa uscita in Italia su queste coordinate. Il che probabilmente significa che se a voi questa roba non dà nessun fastidio, potreste trovarvi di fronte al vostro disco dell’anno.

CHAMBERS – LA GUERRA DEI TRENT’ANNI I Chambers non sono il mio gruppo preferito ma mi piacciono molto in certi momenti. Il principale problema che hanno è legato al fatto che non sono ancora riusciti a far coesistere voce e strumenti nei dischi in modo fruttuoso, con il risultato che poi te li vedi dal vivo con le chitarre altissime e il cantante che urla come un pazzo per far sentire brandelli di testo e sul momento ti sembrano il gruppo più incredibile in attività. La guerra dei trent’anni si sposta abbastanza in queste zone di inintelligibilità complessiva, costruita al novanta per cento su un mare di vangate noise metal depresse un po’ Isis un po’ Down un po’ Alice In Chains, e al dieci per cento su momenti interlocutori che servono per dare la spinta alla vangata noise metal successiva. Suppongo sia roba che dal vivo funziona ancora meglio di quella prima.

STEARICA – FERTILE Gli Stearica sono torinesi, escono su Monotreme, vantano collaborazioni con gente tipo Acid Mothers Temple, Nomeansno, Colin Stetson e simili, oltre ad inserimenti nel Wire Tapper e svariate altre cose che fanno curriculum, danno prestigio e riempiono le prime righe di tutte le recensioni del loro disco. La musica che fanno è questo (post) (kraut) rock cosmico strumentale e massimalista, tirato quanto più possibile e fondamentalmente privo di sbavature, messo insieme con un atteggiamento cafonissimo stile i Boris dei dischi dei Boris che non mi dicono niente. E quindi in realtà non mi dicono molto nemmeno gli Stearica, ma è comunque roba con una gran botta.

FRANA – ODDS AND ENDS è registrato come se fosse un disco Hydrahead, ma musicalmente tira più dalle parti di quella roba noise-rock’n’roll sbracatissima stile Jesus Lizard –o se vogliamo rimanere in italia diciamo Disquieted By o Inferno. È uno di quei dischi che mi piacciono perché dimostrano che se hai un tiro così non ha davvero importanza quanto sei monocorde o fuori moda.

STASH RAIDERS

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Sacha Tilotta, batteria per Three Second Kiss e santiddio Shannon Wright, e un sacco di altre cose così. Sacha Tilotta ha un progetto nuovo che si chiama Stash Raiders in cui canta e suona la chitarra. Pop rock, fondamentalmente, ma anche no. Vi ricordate cosa avete provato la prima volta che avete sentito gli Evens? E la seconda? Oddio, conosco gente che è ancora incazzata per via del fatto che gli Evens esistono e i Fugazi non più. Sta di fatto che esiste anche un modo per prendere degli strumenti, una chitarra elettrica una batteria e tutta quella roba lì, e mettersi a suonare cose tranquille senza necessariamente voler essere questo o quello. Ne viene fuori un disco che per ogni ragionevole standard critico attuale non è interessante: poco epico, pochi crescendo, niente smash hit, niente gioventù andata via in fiamme, niente meta. Il fatto è che in giro per il disco capita di incappare in certi momenti in cui la musica ti entra dentro, in un modo molto tranquillo e rilassato, senza spingere: una cosa che piace ascoltare guidando dentro i limiti di velocità come i Minutemen, finestrini abbassati, macchina scassata, lo stereo con le cassette, il fumo imboscato dentro al cruscotto, pomeriggio libero, un ristorante di pesce low-cost.

PAGARE LA MUSICA, DALLA PARTE DEI POTERI FORTI: IL PROMOTER

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La saga sul PAGARE LA MUSICA va continuata e fatta passare per un’altra figura paraistituzionale che è la prima a scriverti, la prima con cui contratti, la prima che ti accoglie, la prima che ti paga quello che c’è da pagare, la prima che finisce come oggetto di un beef-status su facebook se non è andata come ti aspettavi, l’ultima che viene ringraziata prima dell’ultimo pezzo.
Ho chiesto ad uno di quelli bravi che sta facendo cose grasse e bellone a Padova, Davide De Munari, cos’è un promoter e se si rimedia qualcosa.

Nell’immaginario comune, gretto e provinciale che mi piace, il promoter è quello che mentre stai guardando qualcuno suonare da qualche parte ti capita alle spalle ti attacca un pippone che comincia con “E allora? Ti piacciono i gruppochestasuonando?” Non succede sempre, però succede. Cioè, credo sia una delle cose che deve fare, deve sondare a lavoro compiuto. Partendo dall’inizio, invece, chi sei tu, cos’è un promoter, e se serve, perchè serve?
DDM: sono promoter dall’Ottobre 2009, e come dice il nome stesso, promuovo e organizzo concerti assieme ad altre persone che mi aiutano nelle varie fasi di preparazione: preproduzione, promozione, logistica e via dicendo. Per farla breve, un promoter è colui che decide che in quel posto suona quella band a quell’ora, e ne prepara ogni dettaglio. Un promoter penso serva principalmente per unire le band col pubblico, e far trovare ai lavoratori il giusto ambiente di lavoro. Ho cominciato come tanti altri per passione e un po’ anche per gioco, cercando di organizzare una festa di Halloween (in quello che all’epoca era l’Unwound) con 5 amici. La serata era strutturata con dei live ad inizio serata e il dj set electro poi (all’epoca andava così!).
Dopo poco mi son trovato ad essere tentato dal provare a trasformare questa cosa in un lavoro, di investirci molto, anzi, direi tutto: tempo, soldi, passione, provare a farlo diventare la mia vita.

Che bello, hai nominato l’Unwound. Teniamo quella finestra aperta lì per dopo e andiamo avanti.
C’è l’assioma generale secondo cui chi scrive di musica di solito è un musicista fallito, lo si è sempre percepito un po’ così, come del sarcasmo ma non troppo.
Quindi se di solito uno che scrive di musica è un musicista fallito, uno che fa il promoter, secondo quello che dice la strada, è un wannabe Briatore con la maglia dei Bauhaus e la fissa della scena underground?

Il lavoro si svolge su alcune dinamiche alla base dell’imprenditoria: investimenti economici, domanda e offerta. Direi che sul Briatore, chi più chi meno, ci siamo.
Per quanto riguarda l’ambiente underground è la fascia di mercato più attiva in questo momento, girano molte band in questi anni. Allo stesso tempo è anche la più difficile nella quale lavorare, nel senso che i margini sono sempre molto bassi e di molte produzioni che facciamo il rischio di non riuscire a chiudere i conti a fine serata è sempre molto alto.

Chi ci fa veramente i soldi con quella scena lì? Nel senso, hai sottolineato che i margini sono molto molto bassi e credo sia incontestabile. Ma in questi anni di tasche vuote, a chi conviene? Ai locali? Ai promoter? Alle band? Alle agenzie stampa/booking/servizi vari? Alle etichette? Sembra sempre che dietro a tutto questo indotto di gente ci siano somme da beneficenza. E’ davvero così o c’è qualcuno che riesce davvero a pagarci le bollette? E’ una domanda un po’ ingenua, lo so, ma è paradossalmente una delle prime che chiunque sia stato in un qualsiasi locale si è posto almeno una volta. Poi magari si è vergognato, ma intanto ci ha pensato.
Chi li fa veramente, così a grandi linee, non saprei dirtelo con certezza. O meglio, pur se in maniera generalizzata, fa i soldi chi riesce a lavorare con continuità.
Sono in contatto con molte delle figure professionali che lavorano in questo ambiente, dagli uffici stampa ai tecnici specializzati, ma la ferma certezza che ci sia chi naviga nelle piscine piene di soldi non ce l’ho. Anzi, vedo molte persone dotate di una passione fuori dal comune, alle volte votata all’autolesionismo. Voglio dire, di soldi se ne muovono, ma in cassa ne restano sempre molti pochi come ti dicevo. Possiamo fare però una distinzione netta tra chi fornisce servizi e chi investe economicamente in questo ambiente.
C’è chi fornisce servizi, come possono essere le varie agenzie di booking, addetti stampa, tecnici e via dicendo, ai quali a servizio erogato viene corrisposta una retribuzione.
Poi c’è chi investe, in denaro o in ore lavorative, come le etichette discografiche o i promoter, dove non si ha la certezza di quanto e quando torneranno gli investimenti.

Ruota tutto attorno ad un locale però, rischio e possibilità concreta di guadagno, più che sui servizi.
Per quanto riguarda i locali (o forse è meglio dire gestori) c’è chi affitta la sala e si lava le mani di come andrà la serata e c’è chi (sempre più di rado) preferisce prodursi gli eventi, rischiando di tasca propria, per dare un’identità al suo locale e alla sua direzione artistica.

Restando sui locali e riaprendo la finestra sull’Unwound. L’Unwound è stato uno di quei posti che secondo me ha fatto un po’ da apripista, da lì tutta la provincia di Padova, ma anche il Veneto, ha visto che si poteva fare. Cioè che si poteva replicare in qualche modo il modello dell’Emilia Romagna e del Bolognese (ma anche milanese, romano, noi siamo arrivati dopo e in quel momento lì gli altri erano tutti più avanti) nel veicolare un certo tipo di pubblico e un certo tipo di eventi in maniera più continuativa e regolare. Tu che hai visto e vissuto questa cosa più da vicino, com’era e com’è ora questo processo?
Parto con una premessa: a Padova di locali che hanno portato avanti una direzione artistica simile all’Unwound ce ne sono stati nel tempo, posti come il Plan 9 e il Banale, che negli anni lavorarono molto e bene. L’unico problema che col tempo ho notato è che nessuno di questi è durato più di un quinquennio (chi più chi meno) mantenendo alto il livello dei live che portavano.
Vuoi per la poca sostenibilità dei concerti, vuoi per la voglia di far cassa in modo facile (ma non penso sia questo il caso specifico) con delle feste, ma pare quasi che si sia “passato il testimone” di volta in volta. Non c’è mai stata continuità nel lungo termine.
Io ho cominciato a frequentare l’Unwound nel tardo 2008, ricordo di averci visto molti live che mi hanno colpito: Massimo Volume, Giardini di Mirò, Liars, A place to bury Strangers e molti altri. È stato un locale fondamentale per la mia formazione. La sua presenza ci permetteva di non dover andare a Bologna o Milano per poter vedere concerti.
Però ho sempre riconosciuto un suo limite, nel quale riconosco anche uno dei miei, che è quello di aver sempre fatto comunicazione solo sul bacino d’utenza legato alle band che suonavano.
Mi spiego: per mancanza di risorse e/o di tempo, non si riesce mai a portare quella fetta di pubblico disinteressata alla band, ma alla quale potenzialmente quella band può piacere; insomma fare propedeutica all’ascolto (passami il termine, ma non so proprio come spiegarlo meglio).
L’Unwound ha chiuso perché si trovava in una zona dirimpettaia ad un polo residenziale, dove si trovavano altri 5 circoli e una discoteca, le lamentele dei residenti sul disagio che che creavano tutte queste attività notturne ha fatto sì che tutte fossero colpite da un’ordinanza e fatte chiudere.
Logicamente all’amministrazione frega poco che in quel posto ci siano passati i Melvins o i Current 93 e ha fatto di tutta l’erba un fascio

Noi qui si soffre ogni singola volta che c’è da imbastire anche un festivalino di due giorni, nonostante si sia in campagna, si abbia il comune più piccolo e quindi la minore distanza con l’istituzione locale. A Padova, città universitaria e polo culturale, com’è il rapporto col comune, col territorio? Una roba tipo il RADAR FESTIVAL a cui tu stai dietro com’è vista? Vi supportano o pensano sia la solita roba per drogarsi in un angolo buio?
Il rapporto col territorio non è sempre così buono, come dappertutto.Puoi trovarti il vicino che passando in bicicletta ti offende e ti intima di andare a casa tua a far casino, come chi loda iniziative culturali come quelle che facciamo. Diciamo che dopo un po’ cominci a fare il pelo sullo stomaco a riguardo, mentre per quanto riguarda l’amministrazione invece devo dire che il supporto benché sia sempre stato molto contingentato c’è sempre stato, ma le nostre iniziative son sempre nate spontaneamente.
Per l’edizione di Radar Festival di quest’anno abbiamo chiesto uno sforzo importante da parte dell’amministrazione, che fortunatamente non c’ha sbattuto la porta in faccia, ed è già un buon punto di partenza.
Vogliamo far crescere la manifestazione e vogliamo che la città goda delle possibilità che una manifestazione di questo tipo porta in termini di indotto e di profilo culturale.
Poi, nel momento in cui non ci sarà da parte dell’amministrazione la volontà di promuovere il festival, abbiamo tutti delle gambe e con quelle possiamo tranquillamente muoverci verso altri lidi.

Vediamo se riusciamo a farci arrivare banane dagli spalti o taglieggiamenti. Ti devo per forza chiedere un’opinione.
C’è questa scusa per cui in Italia si suona poco perché alla gente piace la merda e i locali non sanno investire bene nella scelta di chi far suonare. Ma vogliamo anche dire che succede spesso che qualcuno con cinque pezzi in streaming su SITODIMUSICAMOLTOLETTO si senta nella posizione di chiedere cachet poco sotto i mille euro?

Su questo discorso potremmo fare un articolo a parte! (scherzo, ma cercherò di non farmi linciare o di essere troppo prolisso)
Parto facendo il punto su alcune situazioni comuni che le band devono affrontare: ossia le spese di trasporto, il numero di tecnici che ogni produzione si porta al seguito e noleggi.
Queste sono spese vive, che quando torni a casa, bene o male sia andato il concerto, devi pagare.
Ora, sia chiaro, non voglio giustificare le richieste folli di certe band, ma penso che il senso della misura sia andato perso molto tempo fa, ma non solo qua in Italia.
L’hype, ahimè, è una brutta bestia: per me devono esserci prima di tutto sostenibilità e riconoscimento nel valore della band, non solo in termini artistici e di coinvolgimento del pubblico.

D’altra parte deve esserci la comprensione da parte dell’agente che tratta la band che alla festa della birra, che ti chiama la band in auge una volta all’anno, di certo non puoi parlare di continuità lungo 365 giorni, quindi di certo non è a loro che devono fare gli “sconti”.
E se ti trovi a lavorare in contesti più sinceri (faccio l’esempio di Zoom Zoom Festival, col quale ho collaborato per 3 anni, dove tutti i ragazzi oltre che essere di casa son tutti volontari, non han mai portato a casa un soldo) trovo giusto incontrarsi ad una cifra ragionevole, prima di tutto per l’onestà dei promoter che offrono il loro tempo e il loro impegno per portare qualcosa di bello in un posto al quale loro tengono.
Sul suonare poco posso dirti che in media una band se suona in ogni locale può fare dalle 40 alle 60 date in un anno. Se ci metti in mezzo anche i festival estivi di ogni tipologia si sfondano pure le 80 date, e ciò significa che hai suonano in ogni dove. La bravura di un agente sta nel riuscire a capire quando ha senso tornare nello stesso posto, e a distanza di quanto, e non attaccare due date a 60km di distanza per contenere le spese di produzione.
Sui locali che non sanno investire torniamo al discorso di prima, ci sono i locali coi promoter esterni, e ci sono i locali che producono eventi in autonomia.
Chiudendo, io sono dell’idea che tutte le band debbano essere trattate con rispetto. Si tratta pur sempre di lavoro, anche se agli occhi esterni tante volte non è percepito così.
Però davanti ad una richiesta troppo alta o si trova un accordo oppure si finisce con un niente di fatto e amici come prima. Di band valide ce ne sono sempre di più.

Dai che ti faccio la domanda classica scontatissima come il “continuare così” nell’intervista postpartita alla squadra che ha vinto, proprio la battuta finale.
“Un gruppo che vorresti far suonare ma non ce la farai mai?” (e poi tipo il prossimo anno lo fai)

Così a bruciapelo?
Sulla nuca proprio
Weezer Old Time Relijun

PAESE REALE: la mafia dell’ufficio stampa

salaparto
salaparto

Non ero ancora un giornalista musicale quando si usava spedire i demo, ma credo che in qualche modo ci fosse dietro una certa religiosità che oggi tende a saltare. La mia casella email inizia ad abbondare di dischi inviati su mediafire, dropbox, bandcamp, soundcloud e direttamente (grazie) nella casella di posta. È incredibile quanti musicisti si affidino ad un promoter per fare un lavoro che nel settanta per cento dei casi farebbero meglio per conto loro, risparmiando soldi e figure di merda. D’altra parte pure io potrei leggere la recensione su un altro sito e risparmiare tempo e figure di merda, quindi in qualche modo mi sento di dover accettare che qui ci siano forze in atto più grandi di voi e di me. Andiamo con i dischi:

BOBSLEIGH BABY – IMPROVED

A questo giro parto sparando alto, nel senso che questi vengono da Roma e fanno garage slabbrato con la tastierina, prendendo probabilmente le mosse da Cramps (che già di per sé cosa vuoi dirgli) e Birthday Party, ma con molti riferimenti ai primi anni duemila di quella roba stile Get Hustle o Love Life o Afrirampo (ok, quando canta una donna ho poca fantasia) o The Vanishing. Esce il 18 marzo e potrebbe tranquillamente stare su In The Red, per capirci.

SPUTERÒ SULLE VOSTRE TOMBE – AL PIÙ GRANDE FIGLIO DI PUTTANA CHE HO MAI CONOSCIUTO, FIRMATO MAMMA 

Per una dozzina di minuti, qualche settimana fa, sembrava il gruppo col nome definitivo e il disco definitivo. Ora che ci sto riguardando non è nemmeno più su Bandcamp, comunque era tipo poppino elettronico che svaccava al secondo pezzo.

EVACALLS – SEASONS

Una produzione che trae ispirazione dalla musica alternativa degli ultimi dieci anni (anche se le radici dei suoni sono decisamente anni ’80) ma che non vuole sentirsi rinchiuso all’interno di un genere preciso

Parentesi importante: quando è successo che venire rinchiusi in un genere preciso è diventato un incubo distopico? Quand’è stato che fare rap o death metal è diventato noioso? Risposta: mai, anche se qualcuno pensa il contrario. Tra un gruppo che mi sa dire il genere che sta suonando e un gruppo che non me lo sa dire, si sceglie il primo tutti i giorni della settimana e dieci volte la domenica. Se non c’è un nome per il genere che state suonando, al novantanove per cento vuol dire che fate schifo.

MOOSTROO – S/T

Le parole sono pesanti per scelta, fotografano in immagini taglienti una provincia disanimata che è il Paese tutto, ma puntano anche l’obiettivo su chi canta e chi ascolta. Perché mostruosi lo siamo tutti, ed è l’amore l’unico atto di resistenza che ci può salvare. Agnellismo e ferrettismo a buttare, questo nei momenti interessanti. Negli altri momenti noia generica.

FEED ME MORE – S/T

è tipo una specie di techno-metal fatto bene (cioè death fino al buco del culo con qualche tastierina ininfluente), voglio dire, questi almeno LO SUONANO un genere e lo fanno pure onestamente.

CALL ME PLATYPUS – SHAME ON

Suppongo possa essere considerato la preview di un possibile buon disco di area post-wave-qualcosa. Devono indrittirsi un attimo e trovare un’altra soluzione per il cantato (che non preveda l’inglese).

VOLDO – STEPS

Metal moderno o postcore (nel ’97 era possibile individuare una differenza che andasse oltre la copertina del disco, poi si capiva solo dalla copertina, poi anche le copertine sono diventate più o meno uguali) un po’ sporcato di math. Non chiedetemi perché ma mi ricordano un gruppo forse pugliese che si chiamava Homer e che probabilmente ricordo solo io. Il disco è OK, non so se lo pagherei otto euro.

MOPE – S/T  

Un supergruppo di Genova, con dentro gente di Vanessa Van Basten e simili. È un disco di sludge metal col sassofono, la differenza con i gruppi tipo Zu è che hanno un impianto più roots, i tempi più dritti e il disco ha una registrazione pulitissima che lo fa sembrare un po’ irritante e gli fa perdere un sacco di fascino. Però è comunque un gran disco, suppongo che live siano roba esaltante.

POZDAM – LIVE FAST DIE OFTEN

Questi si presentano nel modo giusto, nel senso che uno ti scrive dicendo “ciao sono Marco e questo è il mio gruppo postpunk da Pordenone”, e tu sei invogliato ad ascoltare la musica invece che a lanciare il portatile dall’altra parte della stanza. Non che io voglia insegnarvi come si promuove un gruppo. Il disco è una roba molto scolastica, cassa dritta a metà tra quei gruppi brit con cui facevano le playlist al Plastic nel 2005 e qualcosa di un po’ più ruspante, tipo (boh) shitgaze o Blood Brothers. Ci sono modi molto peggiori di portarla a casa.

THE GLUTS – WARSAW

Credo che esista un momento preciso in cui quello che fai smette di avere un senso di cui si possa rendere conto dal punto di vista critico, e inizia ad essere piuttosto la manifestazione di un’assenza del gusto contro cui una persona che si approccia a te non ha semplicemente gli strumenti concettuali per combattere.  Forse detta così è complicata, ma questi The Gluts hanno un disco i cui primi tre pezzi (dopo non saprei) sono roba totalmente Joy Division-wannabe, e questa nel 2014 sarebbe una pratica ignobile già di suo, senza dover per forza chiamare il disco WARSAW. Magari dopo il terzo pezzo il disco migliora, la press-sheet minaccia elementi prog.