Lo scalpo

Tanto rumore per nulla?  

«Basta andare su un qualsiasi sito di secondary ticketing e dare un’occhiata ai nomi degli artisti e ai biglietti che vengono venduti(1). Non è cambiato nulla e non ci possiamo fare niente. In più, anche se per assurdo potessimo un giorno chiudere questi siti, che facciamo, chiudiamo Facebook dove i ragazzi (e non solo) vendono e rivendono biglietti tutti i giorni?(2)». 

Non c’è soluzione?  

«Ho la netta sensazione che il costo ufficiale dei biglietti sia troppo basso.(3) Se la gente continua imperterrita a comprarli sul mercato secondario vuol dire che ha i soldi per farlo. (4) (…) C’è confusione, chi compra sul secondary poi magari si rivolge agli organizzatori ufficiali perché i prezzi sono alti (5)». 

Quindi?  

«Ritengo logico che il biglietto possa avere un prezzo variabile, che possa cambiare nel tempo. Questo potrebbe sconfiggere il mercato secondario, il tanto strombazzato tagliando nominativo crea solo problemi e ulteriori costi. (6) La soluzione potrebbe essere il biglietto “dinamico”. Un settore può costare 100 euro e a seconda della richiesta, può essere variato in alto come in basso. Se ne vendono? Alzi il prezzo. Non se ne vendono? Lo abbassi, anche di 20 o 30 euro».(7)

A un annetto e mezzo di distanza da quel famoso servizio delle Iene, il boss di Live Nation risponde ad un’intervista sulla Stampa parlando del discorso del secondary ticketing. Cerchiamo di fare qualche punto partendo dalle frasi contrassegnate dai numeri in grassetto.

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1 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

2 Sembra che il problema legato al secondary ticketing si estenda alla gente che mette l’annuncio su FB “vendo due biglietti per Vasco a Firenze, dovevo andarci con la Cinci ma mi ha fatto le corna”. Naturalmente è corretto: formalmente si deve parlare di secondary ticketing per ogni caso in cui un biglietto viene venduto e poi rivenduto. Questo in realtà nasconde un problema più grosso: parlare di “secondary ticketing” permette di pulire un po’ la questione generale. Se lo si chiamasse ad esempio bagarinaggio si andrebbe più vicini a descrivere di cosa si sta parlando, immagino. Gli inglesi i bagarini li chiamano scalpers, e la parola mi piace così tanto che spesso sono propenso ad utilizzarla anche in italiano. Quindi ad esempio quando uno ti vende un biglietto dei Coldplay a 500 euro io dico che ti sta scalpando il biglietto.

3 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

4 Nel post di FB in cui ho letto originariamente l’intervista qualcuno ha già citato Berlusconi e “i ristoranti sono sempre pieni”. Una variazione sul tema: “mangino le brioche”. Quello che mi interessa non è tanto la spocchia di una o dell’altra persona, quanto il concetto di base su cui si regge tutto il sistema. E cioè, nella fattispecie, che il prezzo di un bene è destinato ad aumentare finché la domanda lo consente. In altre parole i Metallica si possono permettere di offrire un pacchetto VIP da 2400 euro per i loro concerti europei perché ai Metallica è consentito comportarsi come una grande azienda farmaceutica. È un’idea che ha tre grandi pilastri ideologici. Il primo è religioso: i Metallica sono i Metallica, vanno visti, sono imperdibili e bla bla bla. Il secondo è legato ad un’idea di crisi del settore sbandierata senza vergogna da 15 anni e passa: l’indotto della musica registrata sta diventando talmente ridicolo che agli artisti è consentito spremere il mercato dei concerti fino all’ultima lira. È ovvio poi che pagare 500 euro per Eminem ti può togliere i soldi per fare il viaggio a Berlino o per vedere Jay-Z, ma comunque Berlino e Jay-Z sono un po’ sopravvalutati. E l’altro grande pilastro ideologico in effetti è che un concerto grosso sia sempre e comunque un “evento”, una sorta di fondamentale dell’esistenza paragonabile alla prima sega. Questo forse è il punto fondamentale, e si contrappone ad un’idea alternativa (la quale sostiene che i concerti siano normalissimi modi di passare la serata e che si possa decidere di andare a vedere i Coldplay il giorno stesso del concerto, senza farsi delle paranoie sul fatto che si trovino o meno i biglietti) considerata pericolosissima sia dai Coldplay che da chi gli organizza il concerto. Se casca questa impalcatura non rimane un cazzo di niente.

5 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

6 Qui forse non ho capito io ma mi sembra che stia dicendo “per sconfiggere il bagarinaggio dobbiamo legalizzarlo e gestirlo noi direttamente”. Per certi versi, a parte un po’ di fuffa gergale, bisognerebbe quasi lodare l’onestà. Ora io francamente non mi intendo molto di leggi antitrust, la mia impressione è che se Live Nation volesse implementare una mossa del genere non avrebbe tantissimi problemi a farlo, ma quel che non capisco è perché la vogliano vendere a mezzo stampa come un gesto di civiltà. Ho anche un’altra impressione, in realtà: se i biglietti dei concerti fossero venduti alla vecchia maniera, di biglietti scalpati non ne vedremmo poi così tanti. “Alla vecchia maniera”, se uno se lo stesse chiedendo, significa che se San Siro ha una capienza di 70mila persone io metto in vendita 70mila biglietti a 100 euro per il concerto di Pinco Pallino, magari mettendo un tetto agli acquisti individuali, e quando i biglietti sono finiti io ho fatto il mio incasso e gli altri si scannino pure. Probabilmente in questo punto pecco di ingenuità.

7 Anche qui probabilmente sono un po’ prevenuto, ma notate la chicca: si parla di ribassi del 20/30% e si glissa sui rialzi. Magari è rimasta fuori in sede di editing.

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Non è che voglio dirvi cosa fare o non fare con i vostri soldi: se pensate che Vasco Rossi valga 300 euro siete liberissimi di pagarlo (nota di colore: tra le altre cose che saltano fuori nell’intervista c’è che i concerti estivi di Vasco saranno organizzati da Live Nation). Suppongo anche che Live Nation abbia tutto il diritto, essendo Live Nation, di lavorare intorno all’idea di massimizzare il profitto e creare delle condizioni per alzarlo ancora di più in futuro. Mi dà fastidio indubbiamente che la cosa sia fatta con la complicità degli artisti, ma anche qui immagino che quando arrivi a un certo grado di popolarità sia naturale ascoltare il manager, pensare a chi ti ascolta come a un servo fedele, puntare all’ingrasso, interrompere pubblicamente i rapporti col tuo promoter e tornare sotto la sua ala la prima volta che c’è da organizzare un tour. Il problema credo sia un altro: questa gente dà l’impressione di agire e parlare sapendo che chi paga i loro eventi non abbia molto rispetto per se stesso. Ecco, questa cosa un po’ mi dà fastidio.

 

2016

2016

nota di servizio: questo sarebbe il post conclusivo dell’anno 2016 in musica, ma negli ultimi giorni ho avuto qualche casino personale e non sono riuscito a fare niente di meglio che tirar giù 10 punti su qualcosa che in altre condizioni -magari- sarei riuscito a scrivere in modo più organico.

1 Non ho mai avuto troppi problemi con l’idea che “il rock” prima o poi sarebbe morto -molti dicevano che era successo prima che lo conoscessi- ma quando avevo vent’anni pensavo che sarebbe stata una sorta di martirio organizzato con tutti i crismi, o quantomeno che ad ucciderlo sarebbe stato qualche altro genere giovanilista occidentale -hip hop, elettronica, boh. Non è successa né l’una né l’altra cosa, e così oggi il rock sta morendo di vecchiaia.

2 usare la parola “rock” è stupido, ma del resto usare qualsiasi altra parola lo è allo stesso modo. Musica di rottura con una storia vecchia di decenni. Il rap non è che sia messo molto meglio, eh. È solo che ha conservato un briciolo di spocchia autoaccomodante come genere musicale, e le dinamiche di appartenenza interne all’hip hop hanno ancora una certa capacità di autogiustificarsi senza suonare ridicole a se stesse -è una cosa che si può perfino apprezzare. Però, per dire, quando leggo gli osanna al disco degli A Tribe Called Quest nelle riviste più blasonate del pianeta io un paio di domande me le faccio. Ad esempio: pilota automatico per pilota automatico, non sarebbe più sensato metterci l’ultimo disco dei Megadeth? Almeno di Dave Mustaine è facile intuire la dimensione tragicomica, e comunque è un modo per non dare per scontata un’idea di musica popolare che non sia necessariamente il prodotto di una serie di ingredienti inidentificabili comprato negli sconti dell’Esselunga.

3 Dall’altra parte è meglio il reducismo ignorante a grado zero di Megadeth o Metallica e tutta quella roba (dei Metallica puoi pensare tutto il male possibile, quantomeno) rispetto a tutto l’immaginario rimasticato per la quinta o sesta volta che sta impedendo alla psichedelia di estinguersi -e anzi la sta continuando a mantenere sulla cresta dell’onda presso un pubblico di appassionati duri a morire, al pari di certi atteggiamenti funeral doom da cui ormai, non me ne si voglia, preferisco scappare a gambe levate non appena sento un odorino sospetto.

4 Mi è passata la voglia di scrivere di musica. Ho ascoltato più musica quest’anno rispetto agli anni precedenti, e mi sono trovato a rendermi protagonista di qualche episodio di fanatismo assoluto -saranno 15 anni che non ascolto un disco con la dedizione che ho dato all’ultimo degli Autechre, per dire. Ma se devo mettermi al tavolo e scrivere roba sensata sul nuovo disco degli Autechre, preferisco di no. Al di là del fatto che l’ho fatto per troppo tempo, mi sento come strozzato dalla grammatica -e intanto fuori ci sono paesi che votano per uscire dall’unione eropea, tanto per dire.

5 Sono genuinamente esaltato da ciò che il mercato dell’ascolto e la guerra dei formati sta diventando: lo strapotere dello streaming, per quanto non proprio la mia tazza di tè, ha generato una nuova idea di album con cui bene o male riesco a confrontarmi, e persino ad esserne esaltato (ne scrissi qui). Ma anche qui credo che sia più una cosa personale, una cosa che mi piace più guardare di quanto mi piaccia descrivere.

6 Quest’estate a un certo punto hanno iniziato ad uscire articoli sul fatto che Andiamo a comandare sia da salutare come una sorta di addio dell’Italia tutta a qualsiasi aspirazione intellettiva. Non è la prima volta che succede, e non riesco più ad appassionarmi a questo genere di supponenza del cazzo: l’unica colpa di Andiamo a comandare è quella di aver funzionato presso un pubblico che prova a farsi una risata ogni tanto e non sta lì a pensare a cosa si perde nel frattempo. Non trovo nemmeno particolarmente sbagliato che gente tipo Thegiornalisti o Cosmo riempia gli stessi locali che mi fa male al cuore trovare semivuoti quando ci vado io; come se poi qualcuno avesse puntato una pistola alla testa all’ascoltatore e gli avesse urlato in tono minaccioso “Cosmo o Phill Reynolds? SCEGLI”. L’unico difetto che ci posso vedere è che non mi piace la loro musica, o almeno non mi interessa particolarmente la musica di Cosmo (dei Thegiornalisti, per via di una specie di fioretto, non ho mai ascoltato un disco). Ma alla fine la mia opinione vale quanto quella degli altri. Di solito quando iniziano questi ragionamenti stile a ciascuno il suo è ora di appendere la tastiera al chiodo. Ho ancora qualche sussulto sporadico; ieri sera ho sentito la canzone nuova dei Baustelle e mi ha fatto girare talmente il cazzo che per spurgare ho dovuto guardarmi sul tubo trenta minuti di Napalm Death dal vivo in formazione Dorrian/Steer/Harris/Embury -esaltante. Ma anche questi sono discorsi che ho già fatto in passato e non ha molto senso star qui a ripetere.

7 Quando leggo articoli sulla Dark Polo Gang o Sfera Ebbasta, Ghali e tutta quella gente, quasi sempre scritta in modalità “c’è più di quel che pensate in questa roba”, mi viene voglia di prendere una mazza da baseball. Grazie al cazzo, lo so che c’è più di quel che penso, è roba che ascoltano milioni di persone. Perchè qualcuno intossicato da vent’anni di cultura musicale dovrebbe negare a mia nipote il diritto di sentirsi speciale? In nome di cosa? Tipo delle FONTI? Della CULTURA? Diocristo, non è il caso di smetterla e ricominciare ad avvelenarci il fegato in privato? Quando uno di noi (35 anni o più) pensa che grime o trap o nuovo rap o EDM (o sa dio cos’altro) siano musiche poco interessanti, solitamente sbagliando di grossissimo, rende a questa roba l’unico servizio che gli è dato di renderle. Se io penso che sia “tutta musica di merda” e mi tolgo dal dibattito la colpa è mia; se riesco a capirla e contestualizzarla nella storia della musica, è colpa della musica. O anche: se un fan di dj Gruff ascolta Ghali, è ragionevole pensare che uno tra Gruff o Ghali abbia sbagliato qualcosa. In questo, almeno, sarebbe importante non fingere. Un altro conto è darne conto, naturalmente: se uno è fuori dal dibattito, è fuori dal dibattito. Non è la fine del mondo. Potrei persino ricominciare a fare del clubbing saltuario dopo una dozzina d’anni di break, magari quelle riserve per palati buoni patrocinate dagli enti pubblici o qualche serata carina di quelle che fanno qui in giro; giusto per sentirmi una volta tanto il matto del paese, il vecchietto che ha perso gli amici e la brocca e se ne va a fare l’uomo vissuto coi ragazzini che gli ridono dietro. Avrebbe un suo senso. Ci sono tre o quattro persone così che osservavo a 17/18 anni e sono uno dei miei spauracchi principali come essere umano (ho sempre avuto la fobia di diventare il matto del paese). O magari continuerò ad andarmene nei posti dove mi sento al sicuro, i circoli Endas con il vino buono e il concerto weirdfolk che inizia presto e a una cert’ora almeno si torna a casa, relegando l’occasionale voglia di contemporaneità ai festival di elettronica patrocinati dall’assessorato e cuciti addosso all’identikit che ha fatto di me l’algoritmo di spotify, e alla fine non c’è niente di stupefacente in questa cosa.

8 La principale caratteristica dell’oggi, musicalmente parlando, è che le narrative si sono sfilacciate al punto da rendere impossibile anche solo pensare un’idea di “musica popolare” omnicomprensiva. 5 anni fa non era così, tanto per dire. E se sparisce questo ideale, sparisce la legittimazione di tutto quello che sta ai margini, tutto quanto va ripensato più o meno dall’inizio e credo la critica non sia ancora prontissima a farlo, per cui la musica esce molto spesso con la parte critica già svolta al suo interno. Un grande esempio di questa cosa è il disco di Kanye West, che concettualmente direi essere l’album più ambizioso da diverso tempo a questa parte -ma in realtà è un’idea comune. Lo stesso attaccamento estetico del rock o della black music a se stessi è considerabile come un precipitato secondario di questa storia. Il namedropping non funziona più come un tempo, sia in senso positivo che negativo. È possibile al contempo ragionare su un ideale di contemporaneità che sparare Bowie al primo posto delle classifiche, un po’ honoris causa e un po’ per reali motivi di merito, e anche perchè comunque l’idea della morte nel 2016 è abbastanza centrale -spero nel 2017 sia centrale il bisogno di codificare un modo decente di elaborare il lutto. O anche, tanto per dire, l’idea di ricominciare a prendere una posizione su qualcosa.

9 i dischi: Autechre, Rihanna, Kanye West, Antico, Not Waving, Gqom Oh!, Deerhoof, WWWings, Holden/Luke Abbott, Lady Gaga, Ital Tek, Mykki Blanco, KatieE, Lorenzo Senni, Bowie, Aphex Twin, A Tribe Called Quest (ovviamente), Jute Gyte, Amnesia Scanner, Ben Seretan, Fatima Al Qadiri, Car Seat Headrest, Powell, ELM, . C’è un’infinità di roba che mi sento di voler citare e al contempo mi sembra stupido star qua a fare la classifica di fine anno. Quel che è meglio, sembra una partita continuamente aperta: all’epoca di consegnare la mia prima playlist, non avevo manco ascoltato ancora il mio disco preferito del 2016. oggi sentivo il nuovo Run The Jewels, ieri ho ascoltato L.U.C.A., non c’è giorno che non arrivino stimoli. L’anno scorso feci questo pippone infinito su quanto le classifiche si somiglino troppo, e quest’anno la mia classifica è uguale a quella di tutti gli altri. Più di tutti non so dire esattamente perchè questi dischi e non altri, e non ho voglia di scrivere un pippone su nessuno di loro.

10 Contrariamente ad ogni mia aspettativa, questo blog è sopravvissuto anche a quest’anno. È ragionevole pensare che nel 2017 ci sarà qualche cambiamento, in ogni caso. Magari inizierò a scrivere di roba che non c’entra nulla con la musica, giusto per tenere un po’ il ritmo, e vediamo dove si va a finire.

In sacrilega lode di Nitri

Michele Nitri conosce a memoria i settecento mantra della Scuola del Vuoto Sotterraneo. Li sciorina come il rosario blasfemo e sudato che sono, tavola per tavola, vignetta su vignetta, frammentando le linee già inchiostrate. Settecento estensioni di nero codice e blasfema sintassi visuale. Se ne nutre e ve li sputa in gola e lì restano a gonfiarvi il gargarozzo.

Germinato nottetempo, in quel di Walpurga, dall’incontro tra la belladonna e la radice di mandragora, Michele ha ingollato per anni un quantitativo di fumetti e narrativa degenere tale da preoccupare ogni bravo psichiatra in grado di sottolinearne le qualità deleterie, caratteristiche così devianti da scatenare disordini sociali e comportamentali nel lettore più pacifico o nel semplice passante. Da quell’antro oscuro del nostro conscio, fuori dalle logiche bieche e instupidite dalle necessità relazionali, Nitri si è mosso per mettere a soqquadro il panorama; troppo lindo e ordinato quest’ultimo, intimista e pastellato dalle legioni di paesaggisti in fregola primaverile e con un conto di troppo da pagare.

Ha aspettato, Michele, facendo le sue cose, perseguendo la sua passione senza che questo significasse mettersi nelle mani di sudati e vergognosi e meschini e tumescenti esemplari di “addetti ai lavori” (NOI), impresari con l’anima facile e il culo abusato dalla vita. Ha atteso, affilando l’intenzione.

Poi è scattato, la lama massiccia che cade veloce per il suo stesso peso, tranciando arti e cervella, sbudellando deserti del reale e presunzioni ideologiche. Ha colpito senza aspettare il cadavere nel fiume, ma riempiendoci il mare, mugulando mantra blasfemi a dèi troppi antichi per essere ignorati. Ha messo in piedi Hollow Press.

L’operazione esoterica ha preso poi il nome in codice U.W.D.F.G. (da ora in poi UWDFG) e si è risolta in questo e nel secondo volume ad oggi disponibile. Una sequela di storie improbabili, improponibili, bellissime nella loro ostinata essenzialità, ritmica e narrativa. Cinque fra i più anomali illustratori del circondario alle prese con una forma marcescente di de-genere, impollinata nei cunicoli del sottosuolo come un interminabile partita di D&D per menti stonate, alienanti, genuinamente bizzarre. Nel secondo volume le storie continuano e non è auspicabile farne il resoconto, il riassuntino per il fogliaccio di stampa. Piuttosto: è fra le cose migliori che potessero capitare al fumetto: una versione contemporanea, fracassona, sincera e sentita del “pulp” che fu, nell’ottica che vede i generi copulare intensivamente in orge a più dimensioni, annidandosi dentro a libri e fumetti che raccolgono qualche milione di mondi, modi, tempi, evoluzioni: vi basti.

Un plauso sincero e riverente a un’operazione che continua, va crescendo e fa tornare il buonumore a tutti gli appestati.

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E perdio, buon U.W.D.F.G a tutti!

ps. entusiasmo addizionale va alla pubblicazione (sempre ad opera della Hollow Press di Nitri) di Industrial Revolution di Shintaro Kago, sottospecie di mutazione in salsa Cronenberg dell’immaginario fumettistico orientale, portato a colpi di destrutturazione contro corpi, personaggi, motivi, generi, vignette, ritmo, scansione delle pagine e via dicendo. In pochi in Italia (viene in mente 001 Comics) possono fregiarsi di aver portato questo Grandissimo fra noi. Non contento ha aggiunto una sorta di antologia di Tetsunori Tawaraya (già tra i cinque protagonisti del progetto), chiamandola Tetsupendium Tawarapedia.. Fa’ la cosa giusta, lettore!

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pps. da Hollow Press puoi persino acquistare tavole originali e spettacolare miscellanea. Affrettati, lettore!

Scott Walker

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Il disco coi Sunn poteva agevolmente non esistere. Nessuna deviazione dal tracciato: loro che cacciano dronate come un vecchio scorregge dopo avere ingerito una pignatta di fagioli alla Bud Spencer, lui che delira cose a caso con quella mostruosa voce da tenore in lacrime. Per me, Scott Walker è Farmer in the city. Fosse iniziata e finita con quel pezzo la sua carriera sarebbe stato uguale, anzi, pure meglio. Mi sarei risparmiato tutto il resto, da Climate of Hunter in poi in particolare (i dischi prima roba da oratorio), tutta la parata di giochini insensatamente arzigogolati, profondamente sgradevoli, totalmente autistici; ordigni escheriani spigolosi, respingenti, cacofonici, che disorientano e spiazzano, mettono a disagio ma in alcun modo arricchiscono, al contrario: ne esci depauperato, spossato, senza essere arrivato da qualche parte. Come correre da fermo. Con tutto il rispetto dovuto ai matti veri: palla al piede era e palla al piede resta.

a margine.

Non ho perso nemmeno un nanosecondo della mia vita dietro alla querelle Mark Kozelek vs. The War On Drugs. Probabilmente morirò senza sapere un cazzo di tutta la storia, a parte un vago e indefinito sentore di randomico e farsesco ex ante. Quel che conta: senza voler sapere. Sta tutta qui la differenza.

Magari un giorno proverò a quantificare con buona approssimazione le moli di tempo risparmiato decidendo scientemente di ignorare a priori una via via sempre più folta lista di persone/scene/gruppi/situazioni – mai ascoltata una nota, mai letto una riga al proposito, mai fregato un cazzo di formarmi un’opinione in merito, mai frequentato. Come il cartello che ho visto appeso all’entrata dell’edicola della stazione di Modena:

NO biglietti
NO informazioni
NO.

Stesso stato mentale. Censura preventiva. Tolleranza zero verso merda che so per certo mai nella vita sfiorerò, sia pure con un palo lungo trenta metri. Non è un granché, ma in qualche modo mi tranquillizza.