“Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Da quella notte un mezzo mese è trascorso, e potrei dire altrettanto bene un mezzo secolo. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento. Rassegnazione? Direi proprio accettazione. Con intervalli di proterva ilarità, e di feroce sollievo.”
(Guido Morselli)
Il primo contatto dal cellulare di Chiara il 15 agosto 2014, al culmine dell’estate più fredda qui da quando calpesto questa terra; Bologna una succursale di Mordor, aveva da poco smesso di piovere mentre il device rivomitava un pezzo strumentale ancora senza titolo, molto lungo, molto lento. Una roba tra stoner e sludge se il primo fosse alimentato a eroina al posto di THC e il secondo una creatura atemporale, priva di connotazioni geografiche identitarie, non solo prerogativa di alcolisti ributtanti sparsi per la Louisiana. Chitarra-basso-batteria prendevano una piega mai sentita prima dallo stesso gruppo, riconsiderando un elemento fino ad allora sfiorato soltanto di striscio: la lentezza. Prendeva così forma una sassata psichica di quelle dove il dolore ci mette un po’ a trovare la strada, ma quando infine si irradia non concede tregua: colonizza ogni cellula, ogni fibra dell’essere, lasciando sfregi permanenti in zone della mente di cui non sospetteresti l’esistenza. Un’altra bestia, diversa da qualsiasi precedente incarnazione dei Lleroy; il risultato di un accumulo di schiaffi in faccia e calci in pancia da mandare l’anima al tappeto, in quantità e virulenza tali da dilatare oltre ogni possibile unità di misura le cognizioni stesse di tempo e dolore. Non finiva più, e poi sinceramente non volevo che succedesse. Era una versione embrionale del pezzo che chiude Dissipatio HC, allora poco più di un’idea ancora ben lontana dal formarsi. Alle mie orecchie era più che sufficiente, stava già tutta lì l’essenza del disco che sarebbe stato, che ancora non esisteva – per altro tempo esperimenti in sala prove, non un pezzo completo, figurarsi un titolo, una direzione, parole da urlare.
Premonizione? Sesto senso? Qualcosa che ho sentito solo io dentro la testa, che ho continuato a raccontarmi dal primo momento? Non me ne frega un cazzo. Qualunque cosa fosse, non è scomparsa. Nel tempo ha trovato una sua forma, come un pezzo di fango che ora è scultura, le parole giuste, il modo per arrivare a destinazione. E adesso ti seppellisce.
Bisogna partire dalla fine per raccontare Dissipatio HC, per i Lleroy lo scatto in avanti che è l’equivalente della differenza che passa tra Lungs e Atomizer, Land Speed Record e Zen Arcade (o, in un altro senso, tra Rocket To Russia e End Of The Century). Dissipatio, l’ultima occhiata prima di voltarsi e non guardare più indietro; a un amore che è morto, un’amicizia che non si ripara, una scena che ha perso il suo ultimo pezzo, un’era che sta finendo. La conclusione che non ammette repliche, oltre cui proseguire sarebbe solo cieca ostinazione e colpi a vuoto, spari nel buio in un luogo della mente dove la musica e il romanzo da cui viene vampirizzato il titolo si ricongiungono per un lunghissimo, terrificante istante prima di scomparire. Otto minuti che sono la trasposizione in musica della corsa fin dentro le viscere della terra ne Il tunnel di Dürrenmatt: stessa situazione, stesso annullamento, stesso epilogo.
Per affinità elettive cantato da Greg ex-Concrete, in assoluto la cosa migliore successa all’hc in Italia dal 1993 a oggi, dopodomani, da qui a trent’anni (lo spirito continua nei Rotadefero, dove la portata dello scontro viene elevata ai massimi livelli riscontrabili. Letteralmente: giù la chitarra, dentro la sega circolare. Via la batteria, avanti con martelli e lamiere). Che occupino lo stesso spazio all’interno dello stesso brano, più che una questione di stile: una necessità. Non sarebbe potuta andare altrimenti.
Per affinità elettive l’artwork di Thomas Ott, tra legioni il solo che sia riuscito a rendere il correlativo oggettivo di quel che si sente nel disco: nero oltre la pece, il dettaglio che disorienta nascosto dietro l’angolo. Occhi immobili sul panorama già scomparso, davanti e dietro la scatola cranica.
Dettagli come gli archi in 2 di 1 (l’altro pezzo lungo), l’ascensione a spirale di Non ti sento che esplode in un sample dove rivivono i peggiori istinti di Sacchi Giulio in Milano Odia, ma il cubano de Roma qua sta (la voce è di Francesco, mostrificata in serial killer assetto), o il cowbell in Càtonia che del resto è l’anticamera di Dissipatio, la penultima stazione; oltre a infinite altre storie che emergono, ascolto dopo ascolto, come cadaveri dalle acque del fiume in un romanzo di James Lee Burke.
Doveva uscire come doppio, in un primo momento, Dissipatio HC; sorta di Each One Teach One malvagio, o Twin Infinitives con la batteria e i pezzi, o Zen Arcade senza il concept dietro, o (inserire doppio album con un significato, immaginarselo dopo una cura a base di dischi AmRep ascoltati senza soluzione di continuità dal 2000 a oggi). Poi l’idea è stata abbandonata, le tracce ridistribuite – alcune sono andate a finire nello split coi Gerda, altre compariranno da qualche altra parte, forse – ma da qui, per me, è ancora così. Quando tutti i pezzi avranno infine trovato una loro collocazione, se succederà, allora scatterà il mio personale assemblaggio. Ancora non è arrivato il momento, chissà se mai arriverà; ma io a quel doppio monumentale che mai è stato continuo a credere. Sarà quello, il “mio” Dissipatio HC. Per ora un equivalente di Winter Comes Home di David Thomas (che secondo l’autore, autoproclamatosi Authorized View, “non è mai esistito, e quindi mai esisterà”), o una tra le possibili combinazioni di Zaireeka, ma con una pacca e una carogna che David Thomas e Wayne Coyne probabilmente non sapranno mai.
Dall’atto finale di Morselli non ha mutuato solo il titolo. Dissipatio HC è un disco che parla (anche) a chi a Bologna è nato e vive, fatto da chi a Bologna è arrivato e ha deciso di restarci. Gran parte del contesto dentro cui è maturato, ora semplicemente non esiste più. Luoghi che sono scomparsi o stanno scomparendo, al loro posto parcheggi, portoni murati, ovunque intorno strade ripavimentate, muri ridipinti, nuovi palazzi che col cazzo che crollano; geografie che cambiano come in un pessimo trip ma reale, grattacieli che invece di collassare e accartocciarsi stile Inception restano lì, conclusi a metà nel cantiere perenne, incombenti e disabitati. I pochi sopravvissuti, compressi nello scenario che cambia; guardarsi intorno e trovare solo macerie ed estranei. Un deserto mentale da linea piatta. Con la gentrificazione la città si è riempita di stronzi. Nuovi palazzi dappertutto. Prezzi alle stelle. La gente che vive qui adesso non riesco a capire chi sia. Ci sono volte che camminando per strada mi metto letteralmente a piangere perché vedo i fantasmi di tutti quelli con cui vivevo. (Alan Vega)
La differenza è che Dissipatio HC non esce postumo: in questo dato passano galassie. Ora più che mai, qualcosa sopravvive anche se a rischio di estinzione. È semplice: fino a quando esisteranno persone a registrare questa roba, a stamparla, a metterla in circolazione, ad ascoltarla, questo posto, per quanto deformato, assediato, pedonalizzato, tirato a lucido, militarizzato dalla gastrodittatura, svuotato di senso, retrocesso a bieco luna park dell’esistere, nonostante tutto sarà ancora abitato da esseri umani (quali e quanti, altro discorso. Ma intanto).
“Ma la mia valle, che risalgo, è deserta, le case non hanno luci. Posso spegnere anche le luci dell’auto, non incontrerò nessuno, nessuno dovrà farsi da parte. Non vedrò un viso, non udrò una voce. E mi sembra ingiusto e cattivo. In città ero spettatore, qui io devo vivere. Dove sono andati. Perché sono andati.”
(sempre Morselli)