Il disco dei Messthetics e quel modo di stare al mondo in generale

Ai banchetti delle distro DIY era pieno di dischi, soprattutto italiani, soprattutto di area crust accacì o pop-punk, in cui il gruppo si era curato di mettere sul fronte o sul retro la scritta “NON PAGARE QUESTO DISCO PIÙ DI 20MILA LIRE”, poi corretti a 10 euro. Nell’ottica del critico musicale erano dischi che mediamente non valevano manco quelle 20mila lire lì, ma immagino che questo genere di mentalità sia uno dei motivi fondamentali per cui i critici musicali dovrebbero venire uccisi a colpi di vanga. Oggi vedere un disco con scritto “non pagare più di 10 euro” avrebbe un senso relativo, più che altro per via del fatto che in generale l’idea di vendere dischi si sta estinguendo, e in particolare Amazon sta facendo giusto ora una promo “6 CD a 30 euro” con dentro un botto di dischi belli. Sono cose della vita, vanno prese un po’ così (Friedrich Nietzsche). L’idea originale dietro a quel disclaimer era diversa, e si rifà ad un’ideologia che fu imposta da un gruppo di Washington DC dalla fine degli anni ottanta all’inizio dei duemila. In sostanza, l’idea di fare tutto quel che fosse umanamente possibile per tenere i dischi e i biglietti dei concerti ad un prezzo accessibile a tutti, a costo di tagliarsi i cachet e precludersi certi contratti o canali distributivi. Il fatto che quel gruppo fosse anche uno dei migliori in attività fece sì che quell’ideologia diventasse un modo di pensare la musica.

Per certi versi è una contraddizione in termini, molto americana sia nelle modalità che nei toni. Un esempio classico riguarda lo sport: gli statunitensi sono relativamente inclini a perdonare gli atleti eccentrici e contrari al sistema, ma solo finché vincono le partite. Il cestista nero di mezza tacca E riottoso tende a venir purgato dal sistema: la sua media a canestro non basta a giustificare le grane che ti fa piovere addosso se sei il proprietario del club. Con la musica non è molto diverso. Se ci pensate, la cosa più dolorosa dello scioglimento dei Fugazi è che s’è portata via il modo di stare al mondo dei Fugazi. The Argument era già il disco da un gruppo che agiva al di fuori del suo ecosistema, a conti fatti, ma il giorno dell’uscita non sembrava. Un mesetto prima il disco degli Strokes aveva fatto tornare di moda il garage, New Slang stava per andare a finire nella pubblicità di McDonald’s, di lì a qualche anno i poster dei gruppi indiepop avrebbero imbrattato le camerette dei protagonisti di The OC. Contestualmente, tantissime indie avrebbero iniziato a farsi distribuire da multinazionali con accordi di lusso che (sbandierando ai quattro venti una “libertà creativa” fino ad allora sconosciuta) allargarono le maglie del possibile nel codice di autocensura che teneva a bada l’etica tra virgolette “indie”, oltre a smerdare in via definitiva il loro catalogo e costringerle alla chiusura nel giro di un lustro (che ne so, GSL). I Fugazi uscirono di scena, senza dichiarazioni pubbliche né altro, perché non avevano più stimoli. Difficile dire se le condizioni ambientali abbiano o meno influito: probabilmente era solo un fatto di vecchiaia. Sta di fatto che di lì a un lustro anche Dischord avrebbe sostanzialmente smesso di lavorare a nuove uscite, concentrandosi su una serie lunghissima di ristampe e su qualche occasionale album di inediti messo insieme da amici di lungo corso (recentemente The Effects, per dire).

Ci pensavo in questi giorni mentre ascoltavo a nastro il disco dei Messthetics. I Messthetics sono Brendan Canty e Joe Lally, assieme a un chitarrista di area jazz, tale Anthony Pirog. Non riesco a decidere davvero se quello dei Messthetics sia un disco bellissimo o una scoreggia epica, ci sono tanti argomenti a favore dell’una e dell’altra tesi. A memoria quello dei Messthetics è il primo disco in cui suonano due Fugazi dallo scioglimento dei Fugazi: già di per sé è una buona notizia, ma il materiale ritmico messo in campo è clamoroso. Quantum Path, per dire, è praticamente una cover Arpeggiator suonata con l’entusiasmo a tremila e anche il resto del disco si muove nelle stesse coordinate ritmiche di Argument e End Hits –segno tra l’altro di quanto quei dischi fossero soprattutto in mano al bassista e al batterista. Ma dall’altra parte The Messthetics (nomen omen) è un disco ampolloso che spesso si permette di varcare i limiti del fastidio, probabilmente perché a Pirog non frega nulla di star suonando con due ex-membri dei. Avete presente le cose masturbative dei Karate, o i dischi strumentali dei progetti di Geoff Farina, e la sensazione che lasciavano sapendo che chi suonava era quello che aveva fatto In Place of Real Insight? Ecco.  

Ciclicamente, diciamo una volta l’anno, si parla di una possibile reunion dei Fugazi. Succede quasi sempre per una questione di accenti: di tanto in tanto capita che uno dei membri (i quali hanno carriere piuttosto soddisfacenti al di fuori del gruppo) venga intervistato. Se chiedi a Ian MacKaye se i Fugazi si riformeranno, lui ti risponderà più o meno “non lo so, magari sì, magari no, dipende se avremo una ragione di farlo o no”. Di lì a un giorno esce il titolone su Pitchfork, o dove volete voi. “Fugazi: reunion imminente?”. È comprensibile. Nel linguaggio delle rockstar, una risposta del genere implica una reunion della lineup originale nel giro di un semestre. I Fugazi sono in “pausa indefinita”: per il momento non hanno cazzi di tornare a suonare assieme, magari un giorno lo faranno. Come potrebbe suonare un disco “nuovo” dei Fugazi, a vent’anni dall’ultimo? La mia fantasia: elegante, molto scarno, suonato in punta di dita. Un’altra ipotesi è quella di un disco strumentale molto teso e molto cervellotico, molto adulto e probabilmente eccessivo, come quello dei Messthetics. Non lo so. Un’altra domanda, che in realtà mi sembra ancora più importante: come si può essere i Fugazi in un mondo in cui essere i Fugazi sembra non avere molto senso? Non lo so. Non so se vorrò davvero esserci quando/se succederà. Così, la cosa che non riesco davvero a risolvere nel disco dei Messthetics è che, sotto ogni punto di vista, sembra davvero solo un disco di musica.

true believers: ARTO LINDSAY

When people talk about Arto Lindsay’s body of work, they often project a reductive dichotomy. There is Scary Arto and Sexy Arto. Scary Arto’s music is stormy and serrated and ruthless and almost deranged; evoking perhaps the glare and noise of New York City. Sexy Arto’s music is seductive and warm and textured and ethereal; evoking perhaps the dappled sunlight of Brazil. Both musics seem dreamlike. In the sense that there are many kinds of dreams.
(note biografiche)

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La Romagna è piena di posti incredibili dove ascoltare la musica. Incredibili nel senso letterale di non-credibili, di posti che prima di esistere qualcuno avrebbe fatto fatica perfino a pensarli. L’incontro tra passione per la musica e spirito imprenditoriale genera situazioni pazzesche, o è solo il mio preconcetto e l’amore per la terra, ma non so se altrove ci sono corrispondenti della Rocca di Cesena, dell’Hanabi di Marina, della (fu) Capannina a Diolaguardia o Rio Manzolo. Ma il più incredibile di tutti forse è un casolare di campagna situato in culo ai lupi, come si dice qui, nel primo appennino toscoromagnolo, un po’ fuori Meldola. Il paesino si chiama Ravaldino in Monte e non lo conosce manco chi ci abita, e la prima volta che ci vai ti perdi, e poi più o meno impari dove si trova e comincia la storia. Il posto si chiama Area Sismica, è un circolo, esiste dal ‘91 e continua ancora oggi a fare musica. Il concerto da cui inizia la mia storia con Arto Lindsay però non si era tenuto all’Area Sismica; era una specie di evento speciale, organizzato da quelli dell’Area Sismica al teatro comunale di Meldola, e che se non ricordo male inaugurava la stagione 2004/2005. Mi ci portarono un paio di amici, non ero convintissimo ma i bastardi mi hanno convinto mettendolo nel classico pacchetto concerto/cena/sbronza con cui sbavavo in quegli anni. Si può dire che a quell’epoca non conoscessi Arto Lindsay, o per essere esatti conoscevo a menadito un supereroe del postpunk di nome Arto Lindsay che avevo suonato e cantato in un gruppo chiamato DNA, la cui raccolta definitiva era uscita in quel periodo riportandoli agli onori delle cronache, e che a un certo punto s’era messo a fare questi dischi di world music del cazzo che avevo sentito di sbriscio, concludendo che non mi riguardassero. Il quale del resto è il concetto espresso dal corsivo sopra, forse il miglior modo di riassumere Arto Lindsay e il suo pubblico: a destra quelli per cui è il cantante dei DNA e dei Lounge Lizards dell’unico disco buono, che sopportano per carità cristiana gli Ambitious Lovers e manco considerano la sua carriera solista; a sinistra quelli per cui Arto Lindsay è un fine sperimentatore di linguaggi con un inspiegabile passato da nowaver.  

(Alla fine del concerto ero saltato da una parte all’altra: nel giro di un paio di mesi avevo recuperato tutti i dischi ed ero andato in heavy rotation. Curiosamente, poco prima di quel concerto Arto Lindsay aveva pubblicato il suo ultimo disco di studio, e non ne avrebbe pubblicati più)

Va da sé che entrambe le interpretazioni fanno un torto enorme al musicista. E del resto non è l’unico musicista di cui conosciamo un lato sexy e un lato scary -intendendo come sexy gli agganci col mondo avant e scary la roba cruenta. Ma la maggior parte degli artisti che vivono (di) questa dicotomia hanno un lato dominante a cui il suo pubblico si lega: ad esempio John Zorn è un musicista di estrazione classica (sexy) che di tanto in tanto ama farsi un giro nei bassifondi e vaneggiare sui limiti teorici dell’ascoltabile, mentre Stephen O’Malley dà più l’idea di un metallaro infoiato (scary) a cui di tanto in tanto viene lo schizzo di metter su un progetto ambient. Questo si può ripercuotere nell’impostazione delle loro opere, ad esempio il retrogusto artsy dei Naked City li rende molto più adatti ai fan di Zorn di quanto lo siano ai puristi del grind. Al contrario, per Arto Lindsay si ha l’impressione che ci siano due artisti con lo stesso nome che vanno in giro a farsi i dispetti a vicenda. È praticamente impossibile amare Sexy Arto e Scary Arto allo stesso modo: abbracciando un pezzo della sua discografia si tende a disconoscere parzialmente l’altro, o quantomeno a sopportarlo con quel sorrisetto stirato da non-capisco-ma-mi-adeguo, e questo fa sì che raccontare la sua storia da un punto di vista equilibrato sia sostanzialmente impossibile. Non tanto per la storia in sé quanto perchè gli strumenti cognitivi in nostro possesso non sono in grado di collocarlo in blocco dentro uno stereotipo, per quanto indicativo e aleatorio. Com’è potuto succedere che uno dei chitarristi più assurdi, allucinati ed incapaci della storia del rock sia diventato un marchio di eleganza e stile della musica bianca? O ancora meglio: com’è potuto succedere tutto questo senza che Arto Lindsay si sia mai preso il disturbo di imparare a suonare la sua chitarra?

È una storia un po’ bizzarra, e a dispetto della sua lunghezza (40 anni and counting) non contiene particolari appigli narrativi. Per convenzione utilizziamo il punto d’inizio più frequentato, una raccolta uscita nel 1978.

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All’inizio di quell’anno Brian Eno, uno dei produttori artistici più ascoltati e cool del momento, si trova a New York per registrare il suo primo disco assieme ai Talking Heads. Una sera, uscito dallo studio, gli capita di metter piede all’interno di una galleria d’arte in cui sta svolgendosi un festival di band indipendenti. Il cartellone mette in scena una dozzina di nomi in totale, divisi in più giornate: gruppi che pur suonando diversissimi l’uno dall’altro sembrano avere un sacco di caratteristiche comuni: musicisti ventenni o poco più, palesi pretese artsy, perizia musicale spesso dubbia. Tutti i gruppi sono sbilenchi e rumorosissimi, e tutti i gruppi vengono dai dintorni. Hanno nomi come Theoretical Girls, Gynecologists, Teenage Jesus and the Jerks, Contortions: Brian Eno esce di melone per la musica e si mette in testa di fare uscire un’antologia collettiva. L’etichetta (Antilles, divisione di Island) accetta ed Eno si chiude in studio con alcuni gruppi. Dopo una serie di discussioni e scremature, la lista delle band presenti nella scaletta del disco è stata ridotta a quattro nomi: Contortions, Teenage Jesus & The Jerks, Mars e DNA. Il disco si chiama No New York.

Da diverso tempo No New York è un disco obbligatorio, ma per una lunga fase il movimento a cui si prefiggeva di dare lustro (la no wave) non ha goduto di trattazioni particolarmente estese. Poi sono arrivati i duemila, le ristampe, l’internet e il culto, e cose come la retrospettiva di Mattioli su Blow Up 125/126/127 (anno 2008), da cui peraltro sto pescando a piene mani. Lo stesso No New York è un disco piuttosto controverso e disconosciuto sia dai gruppi inclusi (che lamentano la mano pesante di Eno nelle session di registrazione) che da quelli esclusi (che lamentano, beh, di non esserci). Più che la vetrina della no wave, No New York ne diventa la lapide. A dispetto di tutto, in ogni caso, No New York è uno dei culti del rock per antonomasia, e la classe intellettuale su cui punta i riflettori ha pochissimi eguali nella storia della musica occidentale. Da quel disco, e in generale dalla no wave, si inizia a parlare di gente come James Chance, Lydia Lunch, Rhys Chatham, Glenn Branca. E ovviamente di un nerd allampanato di nome Arto Lindsay, che canta (per così dire) e suona la chitarra (per così dire) nei DNA.

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Arto è nato a Richmond 25 anni prima, ma la sua famiglia si è trasferita in Brasile tre anni dopo, dove Lindsay rimarrà fino all’adolescenza. Arriva a New York assieme ad alcuni amici che hanno studiato arte in un college in Florida, intorno al ‘77. La città è sul lastrico, sventrata dalla crisi economica che ha falciato il mercato immobiliare, svuotato un sacco di appartamenti, alzato il numero di poveri in strada e il clima di tensione sociale. Intere zone di Manhattan sono precipitate nel degrado assoluto, le attività commerciali hanno tolto le tende, i loft del Lower East Side sono diventati una terra di conquista per una manica di sfaccendati che squattano i loft e li convertono in appartamenti/studio. Lindsay e compagni fiutano l’aria e si buttano quasi subito nella scena musicale: archiviata la prima stagione del CBGB’s, il punk sta cedendo il passo a forme di sperimentazione più radicali ed eccitanti. Gli amici di Lindsay formano un gruppo di nome Mars, di cui Lindsay sarà roadie; non ha un gruppo suo, e del resto non sa suonare uno strumento. Ma dopo un concerto dei Mars il gestore del Max’s Kansas City s’inchiacchiera con Lindsay e gli propone di far suonare lui e il suo gruppo il mese successivo: Arto accetta ed è costretto a formare un gruppo. Prende a bordo un performance artist di nome Robin Crutchfield e una ragazza giapponese di nome Ikue Mori. Neanche gli altri due sanno suonare (Ikue Mori non sa nemmeno parlare in inglese), ma si chiudono in uno stanzone e mettono insieme qualcosa. Si tratta di un pugno di quasi-canzoni, semimprovvisazioni dai ritmi frammentati, suonate a mille all’ora senza cura per il particolare: la band viene chiamata DNA e diventa quasi subito uno dei piatti principali della scena off del Lower East Side.

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Arto Lindsay è uno dei pochi musicisti di cui è sempre piacevole leggere un’intervista. Ha un atteggiamento piuttosto inusuale nei confronti della musica, né troppo serioso né troppo scanzonato. I decenni di militanza gli hanno dato più esperienza sul campo di quanta la maggior parte dei laureati al conservatorio potranno sperare di avere mai, ma è completamente digiuno delle più fondamentali nozioni musicali. Questo si ripercuote sovente in un atteggiamento molto serioso ed analitico nei confronti di certe minuscole cazzate, bilanciato da una gran nonchalance per questioni che altri considerano fondamentali. Quasi nulla nel mondo musicale di Arto Lindsay è scontato, quasi nulla è fatto per convenzione, quasi tutto ha una ragione biografica. Ripercorrendo all’indietro la sua carriera non è possibile trovare un punto d’inizio, un’epifania, un momento  in cui l’uomo inizia a ragionare in questi termini: per certi versi, anzi, i primi esperimenti musicali con i DNA si basano sullo stesso principio di scoperta costante che vent’anni dopo lo vedranno indottrinare decine di turnisti formatisi nei più prestigiosi conservatori al mondo. Nella sua visione gli stessi DNA sono un tentativo di ricontestualizzare la musica che lo aveva fatto uscire di melone da giovane (tropicalisti e cose simili) all’interno di un formato art-punk: testi in portoghese, tracce di batteria sono scopiazzate da dischi di alcuni eroi dell’infanzia del chitarrista. E in effetti a riascoltare il sopracitato DNA on DNA a distanza di qualche decennio dallo svolgersi dei fatti è abbastanza evidente che, dietro tutte le urla e le vangate, qualcuno in quella stanza sapesse cosa stava facendo, o che comunque ci fosse in ballo molto più che la classica espressione di rabbia e disagio con cui riempire le pagine delle punkzine. Lo stesso Lindsay negli ultimi anni del gruppo ha già evoluto il suo stile in una direzione ben precisa, ed estremamente sobria; le schitarrate sorde della sua Danelectro, per quanto scolorite nella melodia, hanno iniziato ad assumere un carattere ritmico che con un po’ di fantasia può essere utilizzata per mescolare le carte in ogni gruppo. Qualcuno a dire il vero ci aveva già pensato.

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“Non ho mai imparato a suonare. Lavoro coi campionamenti dall’84, e tuttora l’unica cosa che so fare con un computer è scrivere una mail. (…) Ho dovuto compensare a queste cose diventando bravo in altri campi, ad esempio imparando come si lavora con la gente e come convincere qualcun altro a fare quello che io da solo non saprei fare.”

La dichiarazione viene da un Q&A tenuto da Lindsay alla Red Bull Music Academy. Credo fosse lo stesso Brian Eno, più o meno negli anni in cui pubblicava No New York, a dire che il futuro della musica sarebbe stato in mano ai non-musicisti. Oggi sembra un’ovvietà: nella nostra epoca la tecnica, intesa come capacità di leggere e scrivere musica e/o allenamento fisico a suonare uno strumento, è comunemente intesa come un enorme limite al godimento, e persino alla capacità di interpretare, la musica. In effetti il passare degli anni ci ha costretto a fare i conti con l’evolversi dello stesso concetto in più generazioni. Un esempio banale: i primi esperimenti col giradischi, che poi si sono evoluti nell’hip hop, nascevano da un’idea musicale fatta in casa, che la maggior parte dei musicisti da strumento (conservatoristi o rockettari, poco conta) non riusciva manco ad intuire potesse richiedere qualsiasi tipo di abilità. Ma 20 fa, forse pure 30, nell’hip hop era già evidente una spaccatura tra i puristi del djing (inteso come abilità performativa generata da anni di pratica ossessiva) e gente che iniziava a comporre usando altre tecnologie. La stessa cosa è successa con generi tipo certe forme di rock dozzinale e/o con la musica fatta al computer (chi ascolta elettronica, tanto per dire, sa distinguere tra roba buona e roba di merda, e questa distinzione ha una base culturale abbastanza definibile). In questo senso dobbiamo arrenderci all’idea che tutta l’ideologia del non-musicista sarà destinata a naufragare in altre forme di, uhm, musicismo. Non è un problema la cosa in sè, ma il racconto di queste musiche (che quando escono sono, per loro natura, le più eccitanti su piazza) verrà necessariamente inchiodato, dal punto di vista storico, ai pochi mesi/anni in cui l’idea musicale su cui si basano non è ancora strutturata e di pubblico dominio. Così, ad esempio, quando oggi un musicista avant rock infila un cacciavite tra le corde della sua chitarra sappiamo che sta copiando qualcuno. O che ne so, un Greg Hetson che in American Hardcore dice “non ho mai imparato a suonare come Eddie Van Halen” non suona molto diverso dallo zio con la coda di cavallo che a un pranzo di matrimonio ti inchioda in una discussione sui Roxy Music.

Arto Lindsay che dice “non ho mai imparato a suonare” è una cosa diversa. Quel che sta dicendo è che a dispetto delle tante occasioni d’imparare e del senso comune associata a questa idea e dell’influenza delle persone attorno a lui, non è in grado di suonare il proprio strumento. Guardarlo suonare è più o meno come guardare mia figlia quando tenta di suonare il flauto dolce, o poco diverso. Il fatto che la suoni comunque, da quarant’anni, gli ha permesso di strutturare uno stile personale fatto di strappi controllati, che Lindsay ha imparato ad utilizzare con abbastanza parsimonia da dargli un’aria ricercata, ma non abbastanza da produrre imitatori. E in questo ha un profilo abbastanza anomalo, forse perfino fastidioso -se il pop fosse una città, Arto Lindsay sarebbe il matto della piazza o il professore di educazione fisica ipocondriaco che recita poesie al bar dei comunisti.

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È un po’ lo spirito con cui nasce il suo secondo gruppo. Mentre è ancora in giro con i DNA viene coinvolto in una specie di gag: un ensemble freejazz di musicisti in giacca e cravatta che fanno i fighi sul palco e contestualmente massacrano le orecchie di chi sta sotto. Il ruolo specifico di Lindsay è proprio rompere il cazzo agli altri membri del gruppo, intervenendo di quando in quando con le sue schitarrate assordanti: iniziano a suonare a nome Lounge Lizards e già ai primi concerti il pubblico ci va talmente sotto da trasformarli in un gruppo vero e proprio, con un contratto e tutto. Prima che chiunque possa chiedersi che cazzo stia succedendo i Lounge Lizards sono in studio con Teo Macero, che per capirci è il produttore di Kind of Blue, ma Lindsay sta già togliendo le tende, infastidito dal comportamento di John Lurie (che ha preso in mano le redini del progetto e sta per trasformarlo in una specie di solo act allargato). Assieme a lui uscirà il batterista Anton Fier, e i due daranno vita ai Golden Palominos. Che nel giro di un disco diventano per Fier quello che i Lounge Lizards erano per Lurie, e Arto toglie il disturbo.

È un periodo particolare per l’avant rock newyorkese. Il quieto scioglimento dei DNA, contemporaneo a questi eventi, è l’ennesimo funerale della no wave; il suo spirito resiste parzialmente in certe incarnazioni della mutant disco (cit) di gente come Liquid Liquid, e nel minimalismo noise rock dei progetti più organici di gente come Chatham e Branca, che comunque sono già un microuniverso a sé stante. Lindsay sta pensando di farsi il suo progetto solista, così da non farsi fregare il gruppo da sotto la sedia com’è successo per Lounge Lizards e Golden Palominos. La sua idea è di unire un po’ tutto quel che gira in città, minimalismo noise e mutant disco, aumentando il tasso di Brasile e magari iniziando a suonare e cantare come una persona normale. Fantastica persino di prendere qualche lezione di chitarra, un’idea che finirà nel cestino abbastanza presto. Ma i primi esperimenti con la voce iniziano a dare qualche risultato interessante. È ancora un guazzabuglio di idee, il cui potenziale esploderà all’incontro con il tastierista Peter Scherer. Scherer viene da un pianeta diverso da quello di Arto Lindsay: si è formato in Europa e ha fatto tutta la trafila del musicista classico; s’è trasferito a New York per studiare elettronica ed è finito nel giro di Ligeti e Nile Rodgers. L’alchimia tra i due è tale da convincere Lindsay a smettere le fantasie soliste e fondare l’ennesimo gruppo, che si rivelerà il più longevo della sua carriera.

Gli Ambitious Lovers Nella laconica definizione di intenti del cantante, “Al Green e samba”. L’idea alla base è quella di una specie di alternanza -anche piuttosto brutale- tra momenti di noise newyorkese e fughe di groove latino che al momento sono la cosa più quieta prodotta dal cantante, che per la prima volta può essere definito tale. Sexy Arto: un timbro eccitato e un po’ teatrale che blandisce l’ascoltatore, magari per prenderlo a mazzate il minuto successivo. Gli Ambitious Lovers hanno in mente un progetto poderoso: sette album, ognuno dedicato a un peccato capitale. Non andranno mai oltre al terzo, spompati dallo scarso successo commerciale e da questioni di mismanagement. La loro reputazione tra gli addetti ai lavori, però, si allarga a tal punto da far sì che alla corte di Lindsay e Scherer inizino a presentarsi turnisti e produttori artistici, alcuni per offrire aiuto e altri per chiederlo. E a un certo punto arriva Caetano Veloso.

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La relazione tra Lindsay e il Brasile è complicata. Nel 2004, l’anno in cui smette di incidere dischi a proprio nome, si ritrasferisce in Brasile; a un certo punto si sposta a Rio e comincia a farsi coinvolgere nella scena musicale locale. Prima di allora le sue frequentazioni sono da ascoltatore, e sebbene samba e derivati siano una costante di tutta la sua carriera -faceva sentire i suoi dischi preferiti ad Ikue Mori perchè copiasse le parti di batteria- per il chitarrista la musica si divide in quella di cui ha cognizione e quella a cui ha lavorato. Pur essendo un suo eroe giovanile, il lavoro di Lindsay su Caetano Veloso -che si è presentato alla porta degli Ambitious Lovers per produrre Estrangeiro– non ha niente del calligrafismo del musicista-barra-produttore che ha occasione di lavorare con un suo mito. Anzi, la mano di Lindsay e Scherer è piuttosto pesante, per certi versi non così diversa da quello che Arto faceva con i Lounge Lizards: porta se stesso e la sua idea di musica in una situazione per la quale teoricamente non sembra essere all’altezza, e a un certo punto si scopre che tutto funziona a meraviglia. Estrangeiro è un disco sensazionale: esce nell’89 e apre a Lindsay le porte del Brasile. Sciolta la partnership con Scherer comincia a lavorare da solo in veste di, boh, eminenza grigia. Un po’ produttore artistico, facilitatore, consulente, faccendiere, traduttore. Riesce a processare la musica di chiunque in un’idea personale, riesce a mettere la gente giusta al corrente di quell’idea, e alla fine ci tira fuori qualcosa di buono. È un punto di riferimento sia per gli occidentali in cerca di un boost tropicalista che per i mammasantissima brasiliani alla ricerca della grande occasione negli USA. È una fase fruttuosa: ad ogni nuovo lavoro guadagna contatti e street cred in entrambi i continenti.

Ma un ruolo da produttore in senso stretto non è fatto per lui: non sarà mai un Rick Rubin, in fondo, non ha quel tipo di senso del tempo. Forse è persino la sua incapacità a renderlo più adatto a un ruolo in primo piano. Avete presente John Lydon? Qualcosa di simile. Musicalmente quasi nulla in comune, ma entrambi hanno iniziato come ragazzacci, qualcuno ha cercato di inchiodarli a quell’immagine. E a un certo punto hanno pensato più in grande, e nessuno dei due ha mai imparato a suonare. Entrambi sono ideologi della musica, entrambi non hanno problemi a circondarsi di turnisti. Ma l’esposizione mediatica di Lydon nei primi giorni dei Pistols, e il ruolo generazionale che gli è piombato addosso, hanno reso praticamente impossibile al cantante inglese di diventare se stesso: per quanto si fosse curato di allontanarlo, Johnny Rotten è sempre comparso sullo sfondo della sua opera, e niente di ciò a cui Lydon ha lavorato dopo Flowers of Romance ha la radice quadrata dell’impatto culturale che ebbe a metà anni novanta l’annuncio della reunion del suo primo gruppo. Arto Lindsay in questo parte avvantaggiato rispetto a Lydon: il suo passato da terrorista sonoro è conosciuto ma non così ingombrante, ed essersi posizionato nella prima periferia del pop l’ha reso spendibile lungo tutta la carriera. Entrambi, in ogni caso, hanno esordito nello stesso periodo e seguiranno la loro parabola con risultati alterni, per lo stesso numero di anni. Fino ad andare incontro al loro destino, entrambi, nel ‘96. Per John Lydon è il momento della resa, della reunion del gruppo e del tornare ad essere quello che molti non hanno mai smesso di pensare di lui. Per Arto Lindsay è il momento in cui diventa Arto Lindsay.  

Sexy Arto è un fan della decontestualizzazione, come del resto Scary Arto, ma ha il vezzo intellettuale di sparire dentro la propria musica, un po’ come se stesse solo canticchiando sopra al rumore di tutte le cose. Il Sexy Arto degli Ambitious Lovers era un po’ limitato, non era arrivato a giocarsela come un carattere dominante, un po’ per via di Scherer e un po’ per via di Scary Arto. A vent’anni dall’inizio delle sue avventure discografiche, però, succede una cosa bizzarra: un’etichetta giapponese aggancia Ryuichi Sakamoto, il quale a sua volta aggancia Lindsay, per realizzare un disco di bossa nova da far circolare oltreoceano. Lindsay è solleticato dall’idea, e probabilmente in questa fase non ha nulla da perdere. Forse non ha le capacità per realizzare un classico disco di bossa nova in autonomia, ma la gente intorno a lui è motivata e lui ha la testa che scoppia di idee. La principale è quella di riagganciarsi all’idea originaria di “bossa nova”, e di quello che fu nella cultura brasiliana (una specie di samba meticcia sporcata di jazz e di altra musica occidentale), cancellarne quasi tutti gli aspetti musicali ed applicarla al pop dei suoi anni. Si immagina un disco molto rilassato, completamente privo delle asperità con cui ha sempre amato sporcare la musica. Si autoimpone di lasciare la chitarra dentro l’armadio e limitarsi a cantare le parti vocali, assieme al solito gruppo di turnisti che tesseranno le musiche. Per soddisfare le tentazioni rumoristiche e blandire l’ego di Scary Arto, lavora contemporaneamente a del materiale che andrà a comporre un secondo disco, fatto di chitarre durissime e brutali frammentazioni.

Uscirà prima quest’ultimo: si intitola Aggregates 1-26 ed è accreditato ad un fantomatico Arto Lindsay Trio. Gli altri due membri, oltre al chitarrista, sono Dougie Browne e Melvin Gibbs. Gibbs, bassista, è il più importante incontro musicale della carriera di Arto Lindsay. Ha un passato nei Defunkt e un presente da turnista che lo vede impegnato, tra le altre cose, nella miglior formazione di sempre della Rollins Band (quella di Come In And Burn). È già da tempo nell’orbita di Lindsay, ha lavorato con gli Ambitious Lovers e nei dischi prodotti da Arto, ma da qui in poi diverrà l’anima musicale della sua carriera solista. A cominciare dall’altro disco, quello di bossa nova per il mercato giapponese, che esce a stretto giro. Il nome in copertina per la prima volta è semplicemente Arto Lindsay, ed il titolo O Corpo Sutil / The Subtle Body. È l’esordio solista di Sexy Arto, e forse gli è uscito un po’ meglio di quanto si aspettasse.  

A riascoltarlo oggi, O Corpo Sutil, lo capisci subito che è un game changer. Dentro al disco esplode tutto quel che fino ad allora per Arto Lindsay era stato chiuso in una stanza di ipotesi, congetture e promesse mancate: chitarre morbide, percussioni latine, voci suadenti, elettronichina del cazzo, qualche cover in portoghese, tutto perfettamente amalgamato e  tutto di profilo bassissimo. Ma a stupire più che la musica è l’interprete: l’Arto Lindsay di O Corpo Sutil è talmente in parte da cancellare in via quasi definitiva il ricordo di qualunque altra sua incarnazione. A posteriori non stupisce né che abbia deciso di fare di O Corpo Sutil il primo disco a proprio nome, né tantomeno che in questa incarnazione Lindsay si metta a produrre dischi con una velocità che nessuno gli conosce. Sembra quasi posseduto: linee vocali appena accennate, o cover di vecchi standard brasiliani; Gibbs e gli altri ad arrangiare, qualche strizzata d’occhio alle ultime tendenze del pop (certa elettronica inglese, certi atteggiamenti da world music ad ogni costo), mai uno svacco, controllo totale dei propri mezzi. È così che un esperimento casuale di bossa nova diventa una striscia vincente lunga sei dischi, dal ‘96 al 2004. E poi, dopo Salt, semplicemente smette di pubblicare.

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La sera in cui lo vedo è al suo apice. Con lui ci sono Melvin Gibbs e Micah Gaugh (un musicista straordinario anche lui, un po’ un turnista e un po’ un arnese del giro avant rock, fa un paio di comparse anche con gli Storm&Stress): Gibbs è un armadio di due metri a sinistra del palco, l’altro swagga dall’altro lato con addosso gli occhiali da sole e una marsina. Gaugh piazza le basi, suona la tastiera con la sinistra e il sax con la destra. Gibbs spacca la gruva col basso. Arto imbraccia la chitarra, finge di suonarla mentre canta, di tanto in tanto schiaccia il pedale e fa partire un fischio. Non è tanto la musica, è che tutto quanto sembra teso coscientemente allo scopo di stare bene, e la sensazione s’irradia in giro per il teatro. A un certo punto ci chiede “are you beautiful?”. Non ho una risposta pronta sul momento. È solito chiederlo, scoprirò in seguito.

Da allora l’ho visto una dozzina di volte. Sembra avere un buon rapporto con l’Italia, qui è stato possibile vederlo con ogni tipo di formazione, compresa una puntata con orchestra di 50 elementi dietro di lui, una cosa che se non sbaglio fu organizzata da Angelica, nove o dieci anni fa (fu clamoroso). Sul mio calendario è segnato in rosso: ci si assicura di essere al concerto di Sexy Arto, tutto il resto può anche saltare. È un po’ un casino perchè il suo sito non è mai stato aggiornato. Sopporto anche le occasionali puntate di Scary Arto, invero ringalluzzito negli ultimi anni (se ne sta in giro a improvvisare con Paal Nilssen-Love alla batteria, dalla collaborazione tra i due è venuto fuori anche un disco). Anzi, durante l’assenza discografica di Sexy Arto, Scary Arto ha dato alle stampe il suo capolavoro. E anche qui penso sia successo un po’ per caso.

L’etichetta italiana Ponderosa s’è imbarcata nella selezione di una specie di best of di Arto Lindsay, intitolato Encyclopedia of Arto, anno 2014. Un opera non proprio sensatissima: pesca solo dai dischi solisti, tralasciando 20 anni di musica, e anche di quei dischi fornisce un ritratto falsato (cose come Mundo Civilizado hanno un equilibrio interno che va ben oltre la qualità dei brani ospitati). Poi qualcuno ha un’idea: prendiamo gli stessi brani e facciamo un secondo disco, inciso live, e suonato dal solo Arto Lindsay, chitarra e voce. Così succede che il volume 2 dell’Encyclopedia diventi una sorta di Scary Arto plays Sexy Arto. Incredibilmente, il disco sta in piedi: una delle più assurde e disturbate raccolte di canzoni folk mai sentite, roba che ricorda indifferentemente qualche bluesman scalcinato o uno youtuber particolarmente disturbato di mente. Lo vedremo anche dal vivo, più volte, ad eseguire i brani da solo nei tour successivi, col pubblico di fedelissimi girato di fianco a chiacchierare col vicino. Un killer.

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I miei dischi preferiti sono quasi tutti realizzati da gente con gravi psicosi e terribili drammi in corso. Le mie storie di musica preferite parlano di gente che a un certo punto ha trovato la quadra. Forse non sono un granché da raccontare, ma mi mettono in pace con l’idea che alla fine di tutto la musica possa davvero salvarci. In rarissimi casi qualcuno riesce a trovare la quadra e continuare a fare dischi bellissimi, e in quel caso -paradossalmente- non c’è molto di interessante da raccontare, è un po’ tutto alla luce del sole. Dopo quarant’anni di musica sali sul palco, guardi la tua chitarra e non hai la più pallida idea di come funziona. Sorridi un po’, qualcuno è venuto a vederti, forse a qualcuno di loro hai cambiato la vita, nel banchetto c’è un bel disco nuovo che è uscito da poco, il brutto è rimasto fuori dalla porta del locale. Il tizio alla tua destra fa partire la base, chiudi gli occhi, inizi a sussurrare qualcosa al microfono.

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Cuidado Madame è il primo disco di Arto Lindsay da 13 anni a questa parte. È uscito il 21 aprile, è meraviglioso, la recensione non ho voglia di scriverla.

(bandcamp)

LLEROY – “Dissipatio HC”. Bologna, 2017

Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Da quella notte un mezzo mese è trascorso, e potrei dire altrettanto bene un mezzo secolo. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento. Rassegnazione? Direi proprio accettazione. Con intervalli di proterva ilarità, e di feroce sollievo.
(Guido Morselli)

Il primo contatto dal cellulare di Chiara il 15 agosto 2014, al culmine dell’estate più fredda qui da quando calpesto questa terra; Bologna una succursale di Mordor, aveva da poco smesso di piovere mentre il device rivomitava un pezzo strumentale ancora senza titolo, molto lungo, molto lento. Una roba tra stoner e sludge se il primo fosse alimentato a eroina al posto di THC e il secondo una creatura atemporale, priva di connotazioni geografiche identitarie, non solo prerogativa di alcolisti ributtanti sparsi per la Louisiana. Chitarra-basso-batteria prendevano una piega mai sentita prima dallo stesso gruppo, riconsiderando un elemento fino ad allora sfiorato soltanto di striscio: la lentezza. Prendeva così forma una sassata psichica di quelle dove il dolore ci mette un po’ a trovare la strada, ma quando infine si irradia non concede tregua: colonizza ogni cellula, ogni fibra dell’essere, lasciando sfregi permanenti in zone della mente di cui non sospetteresti l’esistenza. Un’altra bestia, diversa da qualsiasi precedente incarnazione dei Lleroy; il risultato di un accumulo di schiaffi in faccia e calci in pancia da mandare l’anima al tappeto, in quantità e virulenza tali da dilatare oltre ogni possibile unità di misura le cognizioni stesse di tempo e dolore. Non finiva più, e poi sinceramente non volevo che succedesse. Era una versione embrionale del pezzo che chiude Dissipatio HC, allora poco più di un’idea ancora ben lontana dal formarsi. Alle mie orecchie era più che sufficiente, stava già tutta lì l’essenza del disco che sarebbe stato, che ancora non esisteva – per altro tempo esperimenti in sala prove, non un pezzo completo, figurarsi un titolo, una direzione, parole da urlare.
Premonizione? Sesto senso? Qualcosa che ho sentito solo io dentro la testa, che ho continuato a raccontarmi dal primo momento? Non me ne frega un cazzo. Qualunque cosa fosse, non è scomparsa. Nel tempo ha trovato una sua forma, come un pezzo di fango che ora è scultura, le parole giuste, il modo per arrivare a destinazione. E adesso ti seppellisce.

Bisogna partire dalla fine per raccontare Dissipatio HC, per i Lleroy lo scatto in avanti che è l’equivalente della differenza che passa tra Lungs e Atomizer, Land Speed Record e Zen Arcade (o, in un altro senso, tra Rocket To Russia e End Of The Century). Dissipatio, l’ultima occhiata prima di voltarsi e non guardare più indietro; a un amore che è morto, un’amicizia che non si ripara, una scena che ha perso il suo ultimo pezzo, un’era che sta finendo. La conclusione che non ammette repliche, oltre cui proseguire sarebbe solo cieca ostinazione e colpi a vuoto, spari nel buio in un luogo della mente dove la musica e il romanzo da cui viene vampirizzato il titolo si ricongiungono per un lunghissimo, terrificante istante prima di scomparire. Otto minuti che sono la trasposizione in musica della corsa fin dentro le viscere della terra ne Il tunnel di Dürrenmatt: stessa situazione, stesso annullamento, stesso epilogo.
Per affinità elettive cantato da Greg ex-Concrete, in assoluto la cosa migliore successa all’hc in Italia dal 1993 a oggi, dopodomani, da qui a trent’anni (lo spirito continua nei Rotadefero, dove la portata dello scontro viene elevata ai massimi livelli riscontrabili. Letteralmente: giù la chitarra, dentro la sega circolare. Via la batteria, avanti con martelli e lamiere). Che occupino lo stesso spazio all’interno dello stesso brano, più che una questione di stile: una necessità. Non sarebbe potuta andare altrimenti.

Per affinità elettive l’artwork di Thomas Ott, tra legioni il solo che sia riuscito a rendere il correlativo oggettivo di quel che si sente nel disco: nero oltre la pece, il dettaglio che disorienta nascosto dietro l’angolo. Occhi immobili sul panorama già scomparso, davanti e dietro la scatola cranica.
Dettagli come gli archi in 2 di 1 (l’altro pezzo lungo), l’ascensione a spirale di Non ti sento che esplode in un sample dove rivivono i peggiori istinti di Sacchi Giulio in Milano Odia, ma il cubano de Roma qua sta (la voce è di Francesco, mostrificata in serial killer assetto), o il cowbell in Càtonia che del resto è l’anticamera di Dissipatio, la penultima stazione; oltre a infinite altre storie che emergono, ascolto dopo ascolto, come cadaveri dalle acque del fiume in un romanzo di James Lee Burke.

Doveva uscire come doppio, in un primo momento, Dissipatio HC; sorta di Each One Teach One malvagio, o Twin Infinitives con la batteria e i pezzi, o Zen Arcade senza il concept dietro, o (inserire doppio album con un significato, immaginarselo dopo una cura a base di dischi AmRep ascoltati senza soluzione di continuità dal 2000 a oggi). Poi l’idea è stata abbandonata, le tracce ridistribuite – alcune sono andate a finire nello split coi Gerda, altre compariranno da qualche altra parte, forse – ma da qui, per me, è ancora così. Quando tutti i pezzi avranno infine trovato una loro collocazione, se succederà, allora scatterà il mio personale assemblaggio. Ancora non è arrivato il momento, chissà se mai arriverà; ma io a quel doppio monumentale che mai è stato continuo a credere. Sarà quello, il “mio” Dissipatio HC. Per ora un equivalente di Winter Comes Home di David Thomas (che secondo l’autore, autoproclamatosi Authorized View, “non è mai esistito, e quindi mai esisterà”), o una tra le possibili combinazioni di Zaireeka, ma con una pacca e una carogna che David Thomas e Wayne Coyne probabilmente non sapranno mai.

Dall’atto finale di Morselli non ha mutuato solo il titolo. Dissipatio HC è un disco che parla (anche) a chi a Bologna è nato e vive, fatto da chi a Bologna è arrivato e ha deciso di restarci. Gran parte del contesto dentro cui è maturato, ora semplicemente non esiste più. Luoghi che sono scomparsi o stanno scomparendo, al loro posto parcheggi, portoni murati, ovunque intorno strade ripavimentate, muri ridipinti, nuovi palazzi che col cazzo che crollano; geografie che cambiano come in un pessimo trip ma reale, grattacieli che invece di collassare e accartocciarsi stile Inception restano lì, conclusi a metà nel cantiere perenne, incombenti e disabitati. I pochi sopravvissuti, compressi nello scenario che cambia; guardarsi intorno e trovare solo macerie ed estranei. Un deserto mentale da linea piatta. Con la gentrificazione la città si è riempita di stronzi. Nuovi palazzi dappertutto. Prezzi alle stelle. La gente che vive qui adesso non riesco a capire chi sia. Ci sono volte che camminando per strada mi metto letteralmente a piangere perché vedo i fantasmi di tutti quelli con cui vivevo. (Alan Vega)
La differenza è che Dissipatio HC non esce postumo: in questo dato passano galassie. Ora più che mai, qualcosa sopravvive anche se a rischio di estinzione. È semplice: fino a quando esisteranno persone a registrare questa roba, a stamparla, a metterla in circolazione, ad ascoltarla, questo posto, per quanto deformato, assediato, pedonalizzato, tirato a lucido, militarizzato dalla gastrodittatura, svuotato di senso, retrocesso a bieco luna park dell’esistere, nonostante tutto sarà ancora abitato da esseri umani (quali e quanti, altro discorso. Ma intanto).

Ma la mia valle, che risalgo, è deserta, le case non hanno luci. Posso spegnere anche le luci dell’auto, non incontrerò nessuno, nessuno dovrà farsi da parte. Non vedrò un viso, non udrò una voce. E mi sembra ingiusto e cattivo. In città ero spettatore, qui io devo vivere. Dove sono andati. Perché sono andati.
(sempre Morselli)

“Stasera sono felice di essere vecchio” (un concerto degli Oxbow, nel 2017)

Chiara Viola Donati

Un mese fa al Gucci Hub di Milano c’è stato uno spin-off del Club To Club. Era una serata gratuita con open bar in cui ci si registrava all’evento e ci si beccava concerti di Gaika, Amnesia Scanner, Arca e gente così così. Il giorno dopo ho letto un articolo su Soundwall, firmato da Mirko Carera si lamentava del numero di presenzialisti e gonzi del fashion milanese che invadevano l’area fumatori e l’open bar dell’evento, berciando contro i musicisti, come se questa cosa -ad una serata open bar sponsorizzata da Gucci con i musicisti più hip sulla piazza- fosse in qualche modo evitabile. Sul momento mi è sembrato un atteggiamento da stronzi, nel senso, a me sarebbe piaciuto essere a quel concerto, era pure gratis, che cazzo hai da lamentarti. No? A posteriori ci ho un po’ ripensato. Non voglio dire di essere d’accordo, ma tutto sommato capisco che negli ultimi anni il modo di ascoltare la musica sia cambiato molto più di quanto sia cambiata la musica, e che questo per qualcuno come lui -e me- rappresenti in una certa misura un problema.

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A un certo punto nella propria vita di ascoltatori inizia una fase diciamo così adulta, in cui la musica smette di essere un’ossessione e diventa un’abitudine. A un certo punto si smette di investire tutta quell’emotività addosso a un concerto: non passi due settimane a ripassare la discografia dell’artista che vuoi vedere, non pensi a che vestito indossare, non fai un vero e proprio piano logistico per riuscire a mangiare comodo e arrivare in prima fila. Funziona più o meno come con l’eroina; l’anno prima avevi visto dieci concerti, l’anno dopo sei passato a due/tre a settimana -e se hai fortuna alla fine dell’anno ne hai visti sei o sette di davvero indimenticabili. L’idea di musica si espande al punto di metter giù un calendario di cose “assolutamente imperdibili”, grossomodo 30 date lungo l’anno (quasi tutte perdibilissime). È un modo di vivere come un altro: ci sono quelli che il mercoledì non escono per via di X-Factor e ci sono quelli che il mercoledì non sono disponibili perché al Circolo Endas di Ponte Sul Gommino c’è la rassegna dei cantautori acustici. La principale differenza tra il 2017 e il ’97, in questa cosa, è che nel ’97 era uno stile di vita inadatto alla vecchiaia: potevi frequentare i locali per tre o quattro anni, e poi toccava capire che cosa fare della propria vita. Succede come a quelli con la dipendenza da X-Factor, nel senso, a volte ti capita di perdere una puntata e capisci che tutto sommato si può vivere senza. E poi di solito si passava ad una fase adulta nella quale se eri fortunato tornavi a vedere una decina di concerti all’anno, perché la musica è ancora una passione ma c’è da incastrarla col lavoro la famiglia e il calcetto (il calcetto non puoi smetterlo perchè serve a trovare lavoro). Oppure decidi di continuare ad libitum ma per farlo dovevi renderla un lavoro, organizzi serate, gestisci un club, impari a fare il fonico, i più sfigati diventano giornalisti.

È una scelta che i trentenni del ’97 erano costretti a fare, diciamo così: farne la propria vita o smettere. I più scelgono la seconda, e se rimangono in giro per il circuito può capitare che finiscano per sovrastimare l’importanza culturale della merda che gli veniva propinata nella post-adolescenza, ad addobbarla di significati che universalizzare veniva quasi automatico. Un paio di settimane fa ero a una cena e parlavo con questo mio amico, vive nella mia città, fa questi dischi avant clamorosi. E boh, ci siamo messi lì a parlare di musica e dischi e concerti, lui mi parlava con un gran entusiasmo di quella volta che è scappato di casa per vedere i Bauhaus, o di quando i CCCP con Fatur Annarella e tutto l’ambaradan passarono da Ravenna e fecero cagar sotto tutti quanti dalla paura. Una bella chiacchierata. “È che ti vedi queste cose e poi i gruppi che vedi dopo non reggono il confronto”. Io naturalmente ho il mio corrispettivo di quella cosa lì, con dei gruppi degli anni novanta che mi è capitato di vedere ai tempi, e poi mai più. Non ne parlo con tantissimo piacere perchè so che anche se nel mio cuore è la stessa cosa, li rivedessi oggi starebbero sul sei e mezzo a dir tanto. 

Nel 2017 invece si può essere quarantenni e passare la vita a guardare sei concerti a settimana, e non farci manco la figura dello scemo del villaggio. Io ho dovuto smettere, e spesso mi dispiace, ma a guardare le cose da fuori capisco che non ha molto senso. Che so, apri twitter e ti becchi gli status di questi coetanei che si sparano un concerto a sera, sempre esaltati, sempre in fotta. Non discuto che lo siano davvero, ma mi sembra una stortura, non riesco a credere a quest’idea della musica che continua a stupire, ad esaltare ad libitum. Ma d’altra parte parlare di musica è una cosa da vecchi, o almeno credo. Voglio dire, non è che ci siano tutti ‘sti diciassettenni che scrivono di musica, no? Non conosco personalmente Mirko Carera, ma il suo resoconto sulla serata del C2C milanese è la tipica cosa che potrebbe scrivere uno della mia età, uno che si è visto i concerti quando li vedevo io. (Ho chiesto conferma, è così). L’idea base di andare a un concerto in cui, a prescindere dalla situazione, ci siano quasi solo persone interessate alla musica. Poi Arca rimane uno duro, cioè, la sua musica è dura, e questa cosa sfugge almeno in parte ai discorsi sul mecenatismo e sul fashion, rompe almeno un paio di cliché. E per uno che s’affaccia al mondo della musica oggi, immagino possa essere normale che Amnesia Scanner accettino i soldi di chiunque li paghi per fare la cosa che fanno. No? L’idea che ci siano problemi viene da un discorso che aveva rotto il cazzo nel ’97, forse anche nell’87. Noi da questa roba siamo segnati da ogni caso, abbiamo deciso tutti quanti di non accettare nessun compromesso, per nessuna ragione al mondo (questo finché non arriva qualcuno col libretto degli assegni).
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Leggendo quel che scrivo mi rendo conto di avere un’idea molto monetaria della musica. La ragione è che quando la musica era la mia massima passione, aveva un valore monetario molto puntuale. Un disco costava tot, un concerto costava tot –a seconda di dove andavi e di che gruppo era. Ho pisciato dei gruppi da isola deserta perchè li facevano allo Slego a 5 o 10mila lire più di quanto -secondo me- era giusto che costassero. Oggi i concerti costano cifre folli, oppure sono gratis. Io quando un concerto costa troppo non mi presento, e quando è gratis mi chiedo sempre da dove vengano i soldi. Semplificando: se il cachet del gruppo lo paga il bar mi sta bene, tutto il resto mi crea dei problemi etici. Sono consapevole che queste cose esistono solo nella mia testa, che ci siano altre chiavi di lettura, che oggi la musica è raccontata meglio da qualcuno che non sa bene quanto costi di preciso un compact disc in un negozio; mi giustifico con una scusa un po’ patetica, se passi di qui ti becchi le mie psicosi.

Così insomma, due sere fa sono andato a vedere uno dei gruppi della mia vita. Si chiamano Oxbow, non sto a spiegarvi un granché su chi sono e su cosa fanno. Era un concerto con un biglietto d’ingresso (15 euro, c’erano anche i Sumac, direi onesto), era un martedì sera, era in provincia. Le persone che si sono presentate a vederlo sono le stesse persone che si presentano sempre a vedere questo tipo di concerti: hanno la mia età, il mio aspetto fisico (OK, molti si tengono più in forma di me), i miei vestiti e un lavoro uguale al mio. A volte è fastidioso e a volte no. Stasera sto pensando che gli Oxbow avrebbero potuto fare lo stesso concerto nello stesso luogo e con lo stesso pubblico, nel 1997. Che poi anche gli Oxbow sono gli stessi di allora, e non lo so per certo ma do per scontato che a un certo punto abbiano mollato l’uccello e si siano trovati un lavoro. Di tanto in tanto prendono qualche settimana di ferie, caricano il furgone e mettono assieme un tour.

Questa cosa, nella musica pop, è nuova. Vent’anni fa, o anche dieci, ci sarebbero potuti essere concerti di gruppi con trent’anni di storia, ma l’età media del pubblico sarebbe stata 10/15 anni più bassa, magari con qualche reduce in sala. Oggi questi gruppi suonano per il loro pubblico di allora. La presenza di tutti questi quarantenni ai concerti basta e avanza a tranciare la speranza dei giornalisti che si auspicano un tanto-sospirato-cambio-generazionale nell’indierock: la stessa idea di ricambio generazionale si basa implicitamente su un’idea di musica vecchia come il cucco, su un’idea di concerto vecchia come il cucco, su dei valori etici vecchi come il cucco. Qualcuno l’ha intuito: i locali programmano roba per quarantenni, le riviste mettono ancora i gruppi degli anni ottanta in copertina, le etichette ammazzano il mercato di ristampe in vinile pesante.

Ho vissuto tre o quattro cicli musicali e so per certo che la storia non li ricorda come li ricordo io. Cerco di supplire cercando di raccontare le cose per come le vivo, e questo credo sia il motivo per cui qua dentro non abbiamo ancora chiuso. Di questi tempi si fa un gran parlare di “morte dell’indie rock”, ieri è uscito un bel post di Enzo Baruffaldi che raccoglie tanti editoriali che girano attorno all’argomento. L’argomento è anche più vasto del cortiletto indie, riguarda la musica in generale, l’idea di mercato musicale, forse anche l’idea di musica. Ma quando sarà ora di guardarci indietro e raccontare questi anni, credo che qualcuno invece di continuare a sfottere dovrà prendere atto che nessuna generazione di 35/40enni, prima della nostra, ha mantenuto l’entusiasmo che serve per conservare intatto un sistema di valori legato alla musica, e continuare a far girare un’economia musicale, per quanto piccola, senza parassitare l’immaginario di nessuno e senza menarla manco troppo ai giovani. E se non fate parte della mia generazione, vi assicuro che uscire di casa la sera, a 39 anni, per vedere un concerto, è una fatica boia. La maggior parte delle volte è anche frustrante: sacrifichi tempo ed energie che non hai e in cambio ti becchi un concerto che hai già visto in tutte le salse. A volte quello che vedi vale quel che hai speso in termini di soldi ed energie. E molto raramente vedi un concerto che giustifica tutte le serate a vuoto e le ore di sonno che perdi.

Ci penso la sera del due maggio. Gli Oxbow hanno iniziato il concerto da un quarto d’ora e io sono in prima fila. Alla mia sinistra c’è la Chiara Viola Donati, che scatta la foto che vedete in alto. Alla mia destra c’è Christopher, che a un certo punto mi si avvicina e mi dice una cosa sottovoce.

Stasera sono felice di essere vecchio”.

Sorrido. Sono d’accordo.

LAST YEAR I WAS TWENTY-ONE (struggimento relativo al settantesimo compleanno di Iggy Pop)

Questo ha gli stessi anni di mio padre!, dissi agli amici, nell’ilarità generale, a Torino, un’estate, quattordici o quindici anni fa. Mio padre era sui 55, io sui 24, ed era la prima volta che vedevo Iggy dal vivo, dal vivo con gli Stooges, band da cui ero stato ossessionato fin da ragazzino in quel modo strano (credo, strano) in cui mi ossessiono io alle cose, mi prendo l’impegno di essere ossessionato da qualcosa e ne parlo e ne straparlo finché non credo io stesso a quel che dico e finisce che l’ossessione diventa vera, e non so più neanch’io cos’ho inventato, cosa sia reale, o che differenza ci sia tra le due cose. Così, dopo aver letto su qualche rivista, sarà stato il ’94 e le riviste c’erano ancora, che Kurt Cobain era fan degli Stooges (lo diceva Iggy stesso, ricordo che era un’intervista a Iggy), decisi a tavolino che sarei stato ossessionato dagli Stooges e così fu, precisamente da quando, qualche tempo dopo, ero da Rinascita proprio con mio padre (un mio padre irrealmente sui 45) che mi chiese, vuoi un disco? e io dissi sì, gli Stooges, ma non seppi cosa scegliere tra l’omonimo e Fun House, i due che c’erano, e mio padre, buonissimo, me li prese tutti e due. Li ho ancora da qualche parte, uno dei due ha l’adesivo giallo col punto esclamativo che era uno dei modi per esprimere il prezzo speciale (15.000?) venticinque anni fa. Insomma, tanto ho detto, tanto ho fatto, che ho finito davvero per adorare gli Stooges non ascoltandoli neanche troppo, ma questo è perché io pur essendo in genere considerato un appassionato di musica la musica non l’ho mai ascoltata davvero tanto, ad adorarli al punto che mesi fa, da adulto, ho insultato un mio amico che si è comprato Fun House in vinile dandogli del modaiolo bastardo, al punto che mi trovo oggi a esprimere, in occasione del compleanno di Iggy, davvero un concetto banale come che non dimenticherò mai la prima volta che ho visto gli Stooges – rifletto ora sul fatto che probabilmente non vedrò mai più gli Stooges e probabilmente mio padre non mi regalerà più dischi, e c’è stata un’ultima volta nella mia vita che entrambe queste cose sono successe e come è ovvio non lo sapevo e mi ritrovo oggi così, vecchio e stanco e grasso, con l’età che avevano Iggy e mio padre quando avevano la mia età oggi, a non desiderare niente di più al mondo che ricordarmi esattamente l’ultimo pezzo che ho sentito suonare dagli Stooges dal vivo nella mia vita – un pezzo qualunque, un momento, una nota di quel concerto, che chissà quando si è tenuto e dove, poi – o il modo in cui mio padre era vestito quando mi regalò The Stooges (l’album) e Fun House – la sua faccia, i suoi colori, in uno dei tanti giorni che per me erano normali, tornavamo a casa, la stessa casa, lui leggeva carte di lavoro e io ascoltavo gli Stooges in tanti giorni tutti uguali, tutti banali, che non ho registrato per questo e che per riaverne uno darei tutto l’oro del mondo, tutti i dischi – ridarei la prima volta che ho ascoltato gli Stooges dal vivo, che invece mi ricordo bene, Iggy entrò a torso nudo, disse siamo i cazzo di Stooges!, scoppiò il caos, e io pensai che aveva gli stessi anni di mio padre.