comprare magliette dei gruppi a 40 anni

Qualche sera fa ho comprato la maglietta di un gruppo che non mi piace, perché ho pensato che potrebbe essere una bella maglietta da mettere sotto una giacca o qualcosa del genere. Non che io porti giacche. Non voglio dire ovvietà sulle t-shirt dei gruppi, ma se ci pensate è uno dei pochissimi punti a favore dell’ossessione per la musica anche dopo i trent’anni. Per prima cosa costano poco: dieci massimo quindici euro per una t-shirt. Seconda cosa sono esclusive, nel senso che in giro non incontri mai nessuno con la tua stessa maglietta, a parte qualche situazione limite (tipo i concerti dei Pearl Jam in cui tutti si presentano con la maglietta di Alive). Terzo, le si utilizza molto di più di quanto si utilizzerebbe i vinili del gruppo.

E poi dopo i 30/35 è possibile saltare l’infausto ostacolo ideologico che ci impone di comprare magliette per sostenere, e quindi in qualche modo di legare il nostro acquisto a questioni di gradimento. Il più grande problema delle t-shirt dei gruppi, se ci fate caso, è che tendono a essere tanto più brutte quanto più il gruppo è buono, forse perché i gruppi buoni sono così fissati con la musica che non han tempo di pensare a quelle cagate, o forse perché i buoni designer influenzano in negativo la musica (ok, a parte quattro sfigati citati da chiunque). Qualcuno scriva un saggio su questa cosa. Così insomma, quando arrivi a una certa età puoi permetterti mentalmente di lasciare sul banchetto la maglietta brutta dei Melvins e magari comprare quell’altra bellissima degli M+A (o comunque cazzo si chiamino ora gli M+A), senza porsi il problema di cosa si chiederanno quelli che ti vedono con quella maglietta addosso (“NO! ASCOLTA VASCO ROSSI! non potrò mai avere un rapporto umano con quest’uomo”).

Bibliografia personale magliette di gruppi/FF: 

Sotto la maglietta (Prismo) (ad essere sincero è l’unico articolo leggibile che ho scritto sull’argomento)

10 magliette che ho indossato anche se assolutamente vergognose

10 magliette ad argomento musica a cui si dovrebbe dare fuoco

Ho visto un concerto dei Protomartyr

 

 

Il cantante assomiglia a Bob Mould periodo Workbook/Black Sheets of Rain/Sugar: ributtante, cianotico, completamente scoordinato, però alto; oppure a Bob Stinson, però vivo. Gli altri ai Mission Of Burma riformati – bruttissimi a prescindere dal contesto – però giovani e senza la carogna. Per qualche motivo importano a qualcuno. Musicalmente sembrano una copia della copia della copia della copia della copia della copia dei Fall ma senza i pezzi e con un tizio bolso e paonazzo e stremato al posto della cosa vera (ricordo di avere visto la cosa vera nell’ultima occasione dalle mie parti e dovrei sentirmi grato per avere gli anni che ho, ma ho come l’impressione di essere il meno vecchio nel locale). Infama qualche nemico invisibile come in una fiacca replica dell’hooligan degli Sleaford Mods senza la provenienza geografica, gli argomenti né tantomeno il flow, poi a una certa lascia perdere e si limita ad assecondare la marea. Probabilmente è il loro milionesimo concerto consecutivo senza manco un day off a fissare le pareti di qualche bettola. Comunque, è come se lo fosse: mi sento stanco io per loro, sulle spalle miliardi di kilometri, facce e posti che mi ricordano altre facce e posti, nelle orecchie l’eco di amplificatori come in un pezzo di Bob Seger, e nemmeno suono uno strumento. Detroit per chi non ci ha mai messo piede significa Motown Sound, Stooges, Ted Nugent, MC5, Underground Resistance, Eminem, Mick Collins; oggi, anche Protomartyr. È il 2018.

Lo scalpo

Tanto rumore per nulla?  

«Basta andare su un qualsiasi sito di secondary ticketing e dare un’occhiata ai nomi degli artisti e ai biglietti che vengono venduti(1). Non è cambiato nulla e non ci possiamo fare niente. In più, anche se per assurdo potessimo un giorno chiudere questi siti, che facciamo, chiudiamo Facebook dove i ragazzi (e non solo) vendono e rivendono biglietti tutti i giorni?(2)». 

Non c’è soluzione?  

«Ho la netta sensazione che il costo ufficiale dei biglietti sia troppo basso.(3) Se la gente continua imperterrita a comprarli sul mercato secondario vuol dire che ha i soldi per farlo. (4) (…) C’è confusione, chi compra sul secondary poi magari si rivolge agli organizzatori ufficiali perché i prezzi sono alti (5)». 

Quindi?  

«Ritengo logico che il biglietto possa avere un prezzo variabile, che possa cambiare nel tempo. Questo potrebbe sconfiggere il mercato secondario, il tanto strombazzato tagliando nominativo crea solo problemi e ulteriori costi. (6) La soluzione potrebbe essere il biglietto “dinamico”. Un settore può costare 100 euro e a seconda della richiesta, può essere variato in alto come in basso. Se ne vendono? Alzi il prezzo. Non se ne vendono? Lo abbassi, anche di 20 o 30 euro».(7)

A un annetto e mezzo di distanza da quel famoso servizio delle Iene, il boss di Live Nation risponde ad un’intervista sulla Stampa parlando del discorso del secondary ticketing. Cerchiamo di fare qualche punto partendo dalle frasi contrassegnate dai numeri in grassetto.

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1 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

2 Sembra che il problema legato al secondary ticketing si estenda alla gente che mette l’annuncio su FB “vendo due biglietti per Vasco a Firenze, dovevo andarci con la Cinci ma mi ha fatto le corna”. Naturalmente è corretto: formalmente si deve parlare di secondary ticketing per ogni caso in cui un biglietto viene venduto e poi rivenduto. Questo in realtà nasconde un problema più grosso: parlare di “secondary ticketing” permette di pulire un po’ la questione generale. Se lo si chiamasse ad esempio bagarinaggio si andrebbe più vicini a descrivere di cosa si sta parlando, immagino. Gli inglesi i bagarini li chiamano scalpers, e la parola mi piace così tanto che spesso sono propenso ad utilizzarla anche in italiano. Quindi ad esempio quando uno ti vende un biglietto dei Coldplay a 500 euro io dico che ti sta scalpando il biglietto.

3 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

4 Nel post di FB in cui ho letto originariamente l’intervista qualcuno ha già citato Berlusconi e “i ristoranti sono sempre pieni”. Una variazione sul tema: “mangino le brioche”. Quello che mi interessa non è tanto la spocchia di una o dell’altra persona, quanto il concetto di base su cui si regge tutto il sistema. E cioè, nella fattispecie, che il prezzo di un bene è destinato ad aumentare finché la domanda lo consente. In altre parole i Metallica si possono permettere di offrire un pacchetto VIP da 2400 euro per i loro concerti europei perché ai Metallica è consentito comportarsi come una grande azienda farmaceutica. È un’idea che ha tre grandi pilastri ideologici. Il primo è religioso: i Metallica sono i Metallica, vanno visti, sono imperdibili e bla bla bla. Il secondo è legato ad un’idea di crisi del settore sbandierata senza vergogna da 15 anni e passa: l’indotto della musica registrata sta diventando talmente ridicolo che agli artisti è consentito spremere il mercato dei concerti fino all’ultima lira. È ovvio poi che pagare 500 euro per Eminem ti può togliere i soldi per fare il viaggio a Berlino o per vedere Jay-Z, ma comunque Berlino e Jay-Z sono un po’ sopravvalutati. E l’altro grande pilastro ideologico in effetti è che un concerto grosso sia sempre e comunque un “evento”, una sorta di fondamentale dell’esistenza paragonabile alla prima sega. Questo forse è il punto fondamentale, e si contrappone ad un’idea alternativa (la quale sostiene che i concerti siano normalissimi modi di passare la serata e che si possa decidere di andare a vedere i Coldplay il giorno stesso del concerto, senza farsi delle paranoie sul fatto che si trovino o meno i biglietti) considerata pericolosissima sia dai Coldplay che da chi gli organizza il concerto. Se casca questa impalcatura non rimane un cazzo di niente.

5 Ricordiamoci sempre chi sta parlando, mi raccomando.

6 Qui forse non ho capito io ma mi sembra che stia dicendo “per sconfiggere il bagarinaggio dobbiamo legalizzarlo e gestirlo noi direttamente”. Per certi versi, a parte un po’ di fuffa gergale, bisognerebbe quasi lodare l’onestà. Ora io francamente non mi intendo molto di leggi antitrust, la mia impressione è che se Live Nation volesse implementare una mossa del genere non avrebbe tantissimi problemi a farlo, ma quel che non capisco è perché la vogliano vendere a mezzo stampa come un gesto di civiltà. Ho anche un’altra impressione, in realtà: se i biglietti dei concerti fossero venduti alla vecchia maniera, di biglietti scalpati non ne vedremmo poi così tanti. “Alla vecchia maniera”, se uno se lo stesse chiedendo, significa che se San Siro ha una capienza di 70mila persone io metto in vendita 70mila biglietti a 100 euro per il concerto di Pinco Pallino, magari mettendo un tetto agli acquisti individuali, e quando i biglietti sono finiti io ho fatto il mio incasso e gli altri si scannino pure. Probabilmente in questo punto pecco di ingenuità.

7 Anche qui probabilmente sono un po’ prevenuto, ma notate la chicca: si parla di ribassi del 20/30% e si glissa sui rialzi. Magari è rimasta fuori in sede di editing.

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Non è che voglio dirvi cosa fare o non fare con i vostri soldi: se pensate che Vasco Rossi valga 300 euro siete liberissimi di pagarlo (nota di colore: tra le altre cose che saltano fuori nell’intervista c’è che i concerti estivi di Vasco saranno organizzati da Live Nation). Suppongo anche che Live Nation abbia tutto il diritto, essendo Live Nation, di lavorare intorno all’idea di massimizzare il profitto e creare delle condizioni per alzarlo ancora di più in futuro. Mi dà fastidio indubbiamente che la cosa sia fatta con la complicità degli artisti, ma anche qui immagino che quando arrivi a un certo grado di popolarità sia naturale ascoltare il manager, pensare a chi ti ascolta come a un servo fedele, puntare all’ingrasso, interrompere pubblicamente i rapporti col tuo promoter e tornare sotto la sua ala la prima volta che c’è da organizzare un tour. Il problema credo sia un altro: questa gente dà l’impressione di agire e parlare sapendo che chi paga i loro eventi non abbia molto rispetto per se stesso. Ecco, questa cosa un po’ mi dà fastidio.

 

Il disco dei Messthetics e quel modo di stare al mondo in generale

Ai banchetti delle distro DIY era pieno di dischi, soprattutto italiani, soprattutto di area crust accacì o pop-punk, in cui il gruppo si era curato di mettere sul fronte o sul retro la scritta “NON PAGARE QUESTO DISCO PIÙ DI 20MILA LIRE”, poi corretti a 10 euro. Nell’ottica del critico musicale erano dischi che mediamente non valevano manco quelle 20mila lire lì, ma immagino che questo genere di mentalità sia uno dei motivi fondamentali per cui i critici musicali dovrebbero venire uccisi a colpi di vanga. Oggi vedere un disco con scritto “non pagare più di 10 euro” avrebbe un senso relativo, più che altro per via del fatto che in generale l’idea di vendere dischi si sta estinguendo, e in particolare Amazon sta facendo giusto ora una promo “6 CD a 30 euro” con dentro un botto di dischi belli. Sono cose della vita, vanno prese un po’ così (Friedrich Nietzsche). L’idea originale dietro a quel disclaimer era diversa, e si rifà ad un’ideologia che fu imposta da un gruppo di Washington DC dalla fine degli anni ottanta all’inizio dei duemila. In sostanza, l’idea di fare tutto quel che fosse umanamente possibile per tenere i dischi e i biglietti dei concerti ad un prezzo accessibile a tutti, a costo di tagliarsi i cachet e precludersi certi contratti o canali distributivi. Il fatto che quel gruppo fosse anche uno dei migliori in attività fece sì che quell’ideologia diventasse un modo di pensare la musica.

Per certi versi è una contraddizione in termini, molto americana sia nelle modalità che nei toni. Un esempio classico riguarda lo sport: gli statunitensi sono relativamente inclini a perdonare gli atleti eccentrici e contrari al sistema, ma solo finché vincono le partite. Il cestista nero di mezza tacca E riottoso tende a venir purgato dal sistema: la sua media a canestro non basta a giustificare le grane che ti fa piovere addosso se sei il proprietario del club. Con la musica non è molto diverso. Se ci pensate, la cosa più dolorosa dello scioglimento dei Fugazi è che s’è portata via il modo di stare al mondo dei Fugazi. The Argument era già il disco da un gruppo che agiva al di fuori del suo ecosistema, a conti fatti, ma il giorno dell’uscita non sembrava. Un mesetto prima il disco degli Strokes aveva fatto tornare di moda il garage, New Slang stava per andare a finire nella pubblicità di McDonald’s, di lì a qualche anno i poster dei gruppi indiepop avrebbero imbrattato le camerette dei protagonisti di The OC. Contestualmente, tantissime indie avrebbero iniziato a farsi distribuire da multinazionali con accordi di lusso che (sbandierando ai quattro venti una “libertà creativa” fino ad allora sconosciuta) allargarono le maglie del possibile nel codice di autocensura che teneva a bada l’etica tra virgolette “indie”, oltre a smerdare in via definitiva il loro catalogo e costringerle alla chiusura nel giro di un lustro (che ne so, GSL). I Fugazi uscirono di scena, senza dichiarazioni pubbliche né altro, perché non avevano più stimoli. Difficile dire se le condizioni ambientali abbiano o meno influito: probabilmente era solo un fatto di vecchiaia. Sta di fatto che di lì a un lustro anche Dischord avrebbe sostanzialmente smesso di lavorare a nuove uscite, concentrandosi su una serie lunghissima di ristampe e su qualche occasionale album di inediti messo insieme da amici di lungo corso (recentemente The Effects, per dire).

Ci pensavo in questi giorni mentre ascoltavo a nastro il disco dei Messthetics. I Messthetics sono Brendan Canty e Joe Lally, assieme a un chitarrista di area jazz, tale Anthony Pirog. Non riesco a decidere davvero se quello dei Messthetics sia un disco bellissimo o una scoreggia epica, ci sono tanti argomenti a favore dell’una e dell’altra tesi. A memoria quello dei Messthetics è il primo disco in cui suonano due Fugazi dallo scioglimento dei Fugazi: già di per sé è una buona notizia, ma il materiale ritmico messo in campo è clamoroso. Quantum Path, per dire, è praticamente una cover Arpeggiator suonata con l’entusiasmo a tremila e anche il resto del disco si muove nelle stesse coordinate ritmiche di Argument e End Hits –segno tra l’altro di quanto quei dischi fossero soprattutto in mano al bassista e al batterista. Ma dall’altra parte The Messthetics (nomen omen) è un disco ampolloso che spesso si permette di varcare i limiti del fastidio, probabilmente perché a Pirog non frega nulla di star suonando con due ex-membri dei. Avete presente le cose masturbative dei Karate, o i dischi strumentali dei progetti di Geoff Farina, e la sensazione che lasciavano sapendo che chi suonava era quello che aveva fatto In Place of Real Insight? Ecco.  

Ciclicamente, diciamo una volta l’anno, si parla di una possibile reunion dei Fugazi. Succede quasi sempre per una questione di accenti: di tanto in tanto capita che uno dei membri (i quali hanno carriere piuttosto soddisfacenti al di fuori del gruppo) venga intervistato. Se chiedi a Ian MacKaye se i Fugazi si riformeranno, lui ti risponderà più o meno “non lo so, magari sì, magari no, dipende se avremo una ragione di farlo o no”. Di lì a un giorno esce il titolone su Pitchfork, o dove volete voi. “Fugazi: reunion imminente?”. È comprensibile. Nel linguaggio delle rockstar, una risposta del genere implica una reunion della lineup originale nel giro di un semestre. I Fugazi sono in “pausa indefinita”: per il momento non hanno cazzi di tornare a suonare assieme, magari un giorno lo faranno. Come potrebbe suonare un disco “nuovo” dei Fugazi, a vent’anni dall’ultimo? La mia fantasia: elegante, molto scarno, suonato in punta di dita. Un’altra ipotesi è quella di un disco strumentale molto teso e molto cervellotico, molto adulto e probabilmente eccessivo, come quello dei Messthetics. Non lo so. Un’altra domanda, che in realtà mi sembra ancora più importante: come si può essere i Fugazi in un mondo in cui essere i Fugazi sembra non avere molto senso? Non lo so. Non so se vorrò davvero esserci quando/se succederà. Così, la cosa che non riesco davvero a risolvere nel disco dei Messthetics è che, sotto ogni punto di vista, sembra davvero solo un disco di musica.

100 canzoni italiane: AD OGNI COSTO

Se mi si parla di canzoni inglesi riproposte in italiano da un artista nazionale, io penso ad una pratica comune negli anni sessanta che oggi fortunatamente si è estinta. Se andate a spulciare gli elenchi online in cui le cover in italiano di successi inglesi sono listate, in realtà, vi trovate a contatto con un pianeta delle cui dimensioni ero quasi completamente all’oscuro: migliaia e migliaia di titoli, a scorrere i quali ancora oggi trovo un botto di sorprese -canzoni che non sapevo avessero corrispettivi in inglese, canzoni che non sapevo fossero state coverizzate, cover italiane anche recenti a cui, semplicemente, non penso mai.

È una pratica vecchia quanto la musica pop, grossomodo, che ha incontrato le sue maggiori fortune nella stagione degli urlatori -gancetti con il rock’n’roll e tutto il resto. Il grosso della faccenda coinvolge artisti italiani di seconda categoria che coverizzano canzoni inglesi/americane di seconda categoria, ma c’è spazio per tante sorprese. Un sacco di autori o interpreti di importanza più o meno marginale, tanto per dire, non hanno avuto problemi a confrontarsi con dei classiconi palesemente al di fuori della loro portata -esempio: esiste una Me and Bobby McGee in italiano cantata da Gianna Nannini. Ma anche certi mostri sacri non hanno resistito al prurito di rileggere degli standard anglosassoni che che ogni storico della musica popolare definisce intoccabili, senza averci molto da guadagnare e con tutto da perdere al cambio. Uno degli esempi più clamorosi è la bruttissima Via della Povertà, delirante decalcomania en italiano di Desolation Row che il FABER piazzò su vinile con la complicità di De Gregori. Ascoltare Via della Povertà per quanto mi riguarda è la rappresentazione acustica del concetto di anticlimax; si può dire anzi che la cover di De Andrè ha dato inizio a tutto un effetto farfalla che nel giro di qualche anno mi ha portato a guardare con disprezzo all’opera omnia di Fabrizio De Andrè e di Bob Dylan. Ma se è vero che persino Via della Povertà ha qualche sparuto tifoso qui e là -perlopiù gente pronta a farsi esporre a delle radiazioni tossiche pur di non ammettere che persino Fabrizio De André nella sua carriera ha pestato qualche merda- è più difficile spiegare quale sia il processo mentale che spinge artisti ben inquadrati come possono essere Marco Masini o Ligabue, cimentarsi con celeberrimi singoli di Metallica e REM (considerato anche il caso che soprattutto nel primo caso parliamo di una fanbase abbastanza aggressiva), senza che nessun membro del loro staff riesca a fermarli.

Le ragioni sono tante. Sicuramente qualcuno ha deliri di onnipotenza, ma credo che ci sia anche una cognizione diversa di cosa possa essere un classico del pop, di quanto possa essere intoccabile e di quanto possa funzionare nell’economia del cantante. Voglio dire: nella testa di un fan di Ligabue, credo che A che ora è la fine del mondo funzioni alla grande. Molto più problematica e complessa, invece, è la storia di una canzone pubblicata da Vasco Rossi nel 2009, intitolata Ad ogni costo. Con ogni probabilità il più grosso backlash mai occorso al cantante di Zocca, e per questo -forse- uno dei più emblematici pezzi di storia della canzone italiana. Come minimo, una storia affascinante. Partiamo dall’inizio.

(sono passati NOVE ANNI. A volte mi sembravano sei mesi)

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Creep è la storia di un personaggio sfuggente che parla in prima persona a una ragazza bellissima che sta di fronte a lui ma non lo nota. È un testo bizzarro, tendenzialmente rabbioso o quantomeno passivo-aggressivo, probabilmente è una storia di stalking. Viene scritta da qualche parte alla fine degli anni ottanta dal cantante di un gruppo che tra poco cambierà nome in Radiohead e strapperà un contratto EMI. La canzone è la migliore, e di gran lunga, tra quelle che andranno a comporre il primo disco lungo del gruppo, Pablo Honey. Viene registrata in un solo take, durante le session del disco; Jonny Greenwood improvvisa in diretta i due strapponi di chitarra prima del ritornello, così a sfregio, e il gruppo decide di lasciarli dentro. Creep esce anche come singolo, prima del disco, ma per mesi e mesi rimane a stagnare nell’indifferenza di chiunque. Anche Pablo Honey, che esce nel ‘93, sembra andare incontro allo stesso destino, ma mentre EMI sta iniziando a pensare di scaricare i Radiohead, Creep inizia ad entrare nelle playlist americane. Inizialmente è una cosa più che altro legata al passaparola nei canali periferici (college radio e simili), poi la canzone si trova ad aggredire il mainstream. Sono gli anni in cui il pop rock introverso, passivo-aggressivo e con le chitarre alte viaggia in corsia preferenziale. L’etichetta coglie l’occasione per capitalizzare tutto il capitalizzabile intorno a ad un’unica canzone: il gruppo viene riscalato a meteora con video in heavy rotation, spedito negli Stati Uniti per un tour interminabile e spremuto fino all’ultima goccia.

E qui inizia tutto quel percorso di auto-sabotaggio costruttivo che renderà i Radiohead il più blasonato gruppo pop degli anni duemila. Alla fine del tour americano i membri del gruppo sono ai ferri corti e in procinto di sciogliersi; all’orizzonte ci sono le session per il disco nuovo, con l’etichetta che chiede un’altra Creep e magari un po’ di ciccia per fare da contorno. Curiosamente le condizioni ambientali rimangono favorevolissime alla band: passata la moda dei tristoni grunge arriva il momento del britpop, e il gruppo di Thom Yorke è una delle prime scelte per coloro che non hanno cazzi di star dietro alla battaglia Oasis/Blur. I Radiohead hanno l’intelligenza di sfruttare al meglio le condizioni ambientali: il gruppo inizia a mettersi dietro alla musica, la quale diventa sempre più complessa ed articolata, molto sopra gli standard intellettuali del pop rock dell’epoca. The Bends è un successo di critica e pubblico, ma è solo l’avvisaglia di quel che succederà da lì in poi: un processo di sparizione ed intellettualizzazione della band, costruito su una rigida politica dell’inclusione dei materiali promozionali del gruppo -artwork, dichiarazioni, materiali video eccetera- all’interno del discorso artistico. E nelle fasi iniziali di questo processo Creep è il più grande ostacolo alla libertà del gruppo. 

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“Forse anche toccare una canzone così, così diciamo così che poi in realtà io pensavo che fosse conosciuta un po’ da pochi, fosse di nicchia, e invece in realtà era un pezzo che era conosciuto da molti.”

Nel 2015 Vasco Rossi viene intervistato nel programma radio di Silvia Boschero, la quale gli chiede di Creep. Lui si giustifica nel modo più sensato possibile: forse ha peccato di innocenza, e per sicurezza non farà mai più uscire una cover come singolo. Dice anche di avere ricevuto l’approvazione formale dal gruppo per quanto riguarda il testo. Nella versione di Vasco Rossi l’ipotesi è che il gruppo non avesse niente contro il testo; altre versioni ufficiali non ce ne sono. Magari la band ha firmato l’approvazione assieme ad altre dieci, o -più ragionevolmente- in quegli anni probabilmente i Radiohead consideravano Creep un po’ una palla persa. L’elenco di versioni sbagliate e merdose della canzone, in effetti, è a dir poco impressionante, a maggior ragione se pensiamo che l’unica buona versione del pezzo uscita da uno studio è stata registrata in un solo take, con il chitarrista che remava contro. Gli stessi Radiohead la reincidono in una versione acustica -e molto più brutta- che trovate dentro My Iron Lung. La cover più inascoltabile è probabilmente quella dei Korn, inclusa nell’unplugged del gruppo. Jonathan Davis la introduce come “un pezzo che mi ha sempre dato una grande forza”, dedicandola a tutti i ragazzi che si sentono schiacciati e inadeguati; al di là delle implicazioni del testo, fa specie perché il successo commerciale dei Korn è successivo a quello dei Radiohead di pochi mesi. OK, il successo commerciale non è indice di felicità, e i Korn hanno sempre avuto questa cosa schizofrenica di un frontman che cantava l’inadeguatezza e il disagio mentre con l’altra mano sposava una pornostar, ma la cosa più orribile continua ad essere la versione della canzone: i Korn in acustico sono già di loro difficilini da accettare, e su Creep in particolare sembrano una cover band dei Counting Crows al terzo giorno di prove. Rimanendo sul nu metal c’è una versione quasi-pirata dei Powerman 5000, registrata (credo) quando ancora erano un buon gruppo senza le menate industrial-brutte. Dal vivo l’hanno cantata in tantissimi, anche gente grossa tipo Moby (sta sul tubo ma non guardatela), Amanda Palmer, ovviamente Tori Amos (la sua versione ricorda un futuro possibile in cui i Radiohead si sono sciolti dopo Pablo Honey e Thom Yorke stesse ancora girando i bar statunitensi a suonarla in acustico). Abbastanza geniale la versione di Prince, che la risuona dal vivo aggiungendo gruva casuale e rovesciando il testo (“IO fluttuo come in una piuma in questo bellissimo pianeta, TU sei una sfigatona, che cazzo ci fai qui, che cazzo c’entri”). Si può proseguire con la lista per centinaia di pagine, in realtà, coprendo un arco di tempo che arriva ad oggi (recentissima la disputa legale con Lana del Rey, che ne ha fatto una versione apocrifa e -tra l’altro- per nulla disprezzabile e ora sta litigando per i diritti) e parte da prima della versione originale (i Radiohead pagano una percentuale dei diritti agli autori di The Air That I Breathe, un brano inciso dagli Hollies vent’anni prima).
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È tutto un po’ legato a quei discorsi infiniti sulla ciclicità del pop. Il successo di The Bends basta da solo ad elevare i Radiohead dal rango di one-shot band a gruppo vero e importante; alla vigilia dell’uscita di OK Computer, in piena risacca britpop, il gruppo è atteso con fiducia. Il disco va oltre ogni aspettativa, imponendoli come uno standard del pop di quegli anni e una delle massime incarnazioni della musica di fine millennio. Ma quando inizia il tour, Creep è già uscita dalle scalette. La cosa passa tutt’altro che inosservata, e del resto è una mossa piuttosto arrogante: Creep è ancora il loro singolo più famoso e lo resterà per sempre. Yorke e gli altri si schermano alla meno peggio, non amano più la canzone e probabilmente ne percepiscono ancora il pericolo -la lista dei gruppi uccisi dal successo del loro primo singolo è fin troppo lunga. La carriera successiva dei Radiohead passa a disegnare la schizofrenia di un gruppo perennemente indeciso se essere un gruppo progjazz da cameretta o la più influente voce mainstream a predicare il superamento delle logiche industriali legate al pop. Che fossero l’una o l’altra cosa, Creep era inadatta a descriverli. La qualità dei dischi ed il favore del loro pubblico hanno consentito loro di diventare più grandi e cancellare l’onta. 

Ad ogni costo non è il primo tentativo di cover-en-italiano di Vasco Rossi. Non sono un esegeta dell’Uomo ma c’è almeno il precedente de Gli spari sopra (cover di Celebrate degli An Emotional Fish) che vendette un macello di copie e diede il titolo al disco che la ospitava. Ma Rossi con Gli spari sopra ebbe buon gioco: il pezzo originale era semisconosciuto. Quando uscì la cover di Creep fu un mezzo macello: l’Italia del Ruock si divise equamente tra chi trovava scandaloso il trattamento riservato ai Radiohead da Vasco Rossi e chi sosteneva che i Radiohead avrebbero dovuto ringraziare Vasco per aver fatto conoscere il gruppo in Italia. Verrebbe da dire che il livore congenito dei musicofili merita battaglie migliori di questa, ma gli snob amano fare un caso di tutto quel che succede. Anche Ad ogni costo rovescia la prospettiva del testo originale: la protagonista della canzone di Vasco Rossi è una donna che vive col protagonista, e con la quale il protagonista, nonostante la giudichi odiosa bugiarda ed infedele (nelle canzoni di Vasco Rossi capita abbastanza spesso), vuole continuare a stare. Creep era l’improbabile (e vagamente inquietante) inno di una generazione di nerd senza alcuna possibilità di redenzione, Ad ogni costo può essere tuttalpiù la decima canzone in scaletta in una data del Live Kom Tour XX: fuori dal bagaglio culturale dei fan di Vasco Rossi non ha moltissimo da dare, e i fan di Vasco Rossi possono essere abbastanza aggressivi nelle loro manifestazioni. Quello che è difficile da spiegare è l’ardore con cui ci si possa trovare a difendere la canzone-simbolo di un gruppo che, a conti fatti, ha ribadito più volte che con quella canzone non ci voleva più avere a che fare. Eppure lo stesso Vasco, nell’intervista a King Kong, sembra ricordarla come una sorta di debacle.

Ci sono tante spiegazioni anche a questo, ovviamente. La principale riguarda il sistema culturale in cui viviamo: Creep fa parte di una sorta di esperanto del pop, di un linguaggio comune ad una classe intellettuale allargatissima che da decenni è a caccia di una specie di terreno comune. È un po’ come gli infiniti articoli contro il doppiaggio dei film: forse i film in lingua originale sono meglio, ma quando ci si riesce a porre a distanza l’acrimonia di certe prese di posizione sembra sempre eccessiva. Quello che rivendichiamo quando chiediamo film in lingua originale, in realtà, è uno dei pochissimi progressi culturali di cui abbiamo una sorta di coscienza nazionale; in altre parole, abbiamo tutti un’infarinatura di inglese. Allo stesso modo la battaglia scatenata da Ad ogni costo fu perlopiù una resa dei conti tra rockettari generici italiani fermi a Vasco e rockettari generici italiani che avevano fatto il passo successivo a Vasco -e in questa contesa Vasco Rossi e il suo immaginario furono brutalmente sconfitti (da lì in poi Rossi in effetti battè in ritirata, costretto a battere bar e localini in patetici tour voce-e-chitarra per sbarcare il lunario). In questo Vasco Rossi sembra ancora (è una teoria molto frequentata, è vero) l’ultimo grande depositario dell’italianità rock’n’roll: ha continuato a marchiare a fuoco il proprio pubblico e fornire un’esperienza musicale il cui livello di totalità è paragonabile a quello degli anni ottanta, in un mondo del pop in cui gli artisti (Cremonini, Jovanotti, Syria o chi volete) si adoperano per mettere un piedino nei salotti buoni dello snobismo musicale. Mi piace pensare che ogni obbrobrio culturale ci dia la possibilità di imparare una lezione. Conosco fan degli Autechre che hanno avuto da ridire su Vasco che coverizza i Radiohead. Voglio dire, è una cosa che posso rispettare.

Una cosa curiosa: stando a Wiki, Ad ogni costo esce il 25 settembre del 2009. Nemmeno un mese prima, alla fine di agosto, i Radiohead salgono sul palco di Reading e suonano Creep per la prima volta da una decina d’anni. Oggi sembrano averci fatto pace; di tanto in tanto la ficcano in scaletta e la gente in platea si mette a urlare. Nelle scalette di Vasco Rossi credo che Ad ogni costo non compaia da anni.