Piccoli fans: LAGO MORTO


cartolina

Dal punto di vista strutturale, una SCENA in una città del nord Italia con poco meno di trentamila abitanti è una sega mentale. Immaginatevi la SCENA di Desenzano sul Garda o di Bra o di Lugo o di Mondovì. Non ti meriti manco la targa sulle macchine, figurati una scena punk. Nico Vascellari comunque dà l’idea di uno che se n’è sempre sbattuto i coglioni del punto di vista strutturale. In che senso, direte voi? Grazie per la domanda. Lago Morto è un progetto che coinvolge membri di bands del giro Vittorio Veneto (With Love, Superlucertulas, A Flower Kollapsed) ed esiste solo dentro Vittorio Veneto. Vittorio Veneto, se non frequentate, è una città in provincia di Treviso, e leggo su Wiki che è molto famosa per un contest di cori provenienti da tutta Italia. Alla salute. Nel mese di maggio esce allo scoperto Lago Morto, musicalmente un gruppo old school con Nico alla voce, e si organizza un tour di quindici date TUTTE DENTRO A VITTORIO VENETO. Geniale. Youtube trabocca di video che documentano tutto quanto: concerti tiratissimi con la gente che vola in lavanderie a gettone, pizzerie da asporto, osterie becerissime, negozi di chincaglieria e roba simile. Ora io lo so che tendenzialmente uno che ha una buona idea se la tiene e tanti saluti. E capisco anche che ci sia qualche implicazione, ehm, politica -tipo reagire a un certo indirizzo culturale dell’amministrazione cittadina, o che so… riconcettualizzare la musica escludendo a priori tutta la dimensione worldwide dando alle fiamme i myspace e lastfm del caso- ma Lago Morto è roba da copiare a man bassa in blocchi da cento/duecento città, punto e basta. M’immagino che vado a pagare la bolletta del telefono all’ufficio postale di Gambettola e mi volano addosso sei tipi anoressici con la barba incolta -e cristo, sarebbe una gran giornata da raccontare ai nipotini. Allego il link a un pezzo da scaricare nel sito di Codalunga e se ci riesco embeddo anche un video. Oddio, in realtà ora c’è una data pianificata a Graz, ma fanno il pullman da Vittorio Veneto.

Brutal Truth @ Sottotetto, Bologna (19/6/2009)

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Se Henry Rollins avesse deciso di bere e drogarsi, e avesse continuato a farlo negli ultimi venticinque anni, oggi avrebbe le fattezze di Kevin Sharp. Le movenze, del resto, sono le stesse: gambe divaricate, piedi (nudi) ben piantati sulle assi del palcoscenico, calzoncini, pose da boss del quartiere. A fare la differenza sono lo stomaco tracimante, la maglietta “Sleep. Money. Food.” che scimmiotta la slayeriana “Sex. Murder. Art.”, il cappellaccio da mandriano mongoloide, la barba da redneck incestuoso appena uscito dal fienile. Dan Lilker, in compenso, non è cambiato di una virgola dai tempi del primo degli Anthrax; quasi due metri di pallore cadaverico, tatuaggi orribili e orbite scavate, fasciato da una lorda t-shirt senza maniche dei Rotten Sound, lo vediamo ciondolare dentro e fuori dal locale, fare la spola tra il bar e il banchetto del merchandise trangugiando una media dopo l’altra, chiacchierare svagato con qualcuno dei (pochissimi) presenti come con un roadie dall’aspetto ributtante, portando in giro con nonchalance oltre un quarto di secolo di leggenda. Mentre sfila l’obbligatoria parata di “guests” – annunciati ma non ben specificati nell’evasivo flyer – tutti più o meno gorgoglianti e sanamente ignoranti (i migliori ci sono sembrati i romani Tsubo), osservando l’incessante girovagare di Lilker ci viene spontaneo pensare: certo che ne avrà sentiti di gruppi-spalla, nella vita, questo qui. Un veloce cambio di palco – l’ultimo – giusto il tempo di notare che il chitarrista porta il grugno del cattivo di Star Wars tatuato su un polpaccio, e si comincia a Celebrare. Loro sono in bomba, perfino più carichi rispetto alla scorsa tornata di concerti (che ci vide muti testimoni, al Rock Planet di Cervia, di uno di quegli eventi in grado di cambiare profondamente un’esistenza), è tutto un mulinare di braccia e un susseguirsi di sputi e movenze da sex symbol mongoloide (Sharp) e un proliferare di smorfie e tic nervosi da omicida seriale del mostruoso Rich Hoak (storico batterista del gruppo); il set è generosissimo, oltre un’ora e un quarto tra i brani dell’ultimo Evolution Through Revolution (che viene riproposto quasi interamente) e le vecchie cose, alla fine suonano anche due pezzi che non erano previsti in scaletta, così, perché gli andava di farlo. Un sogno, non fosse stato per una deprecabile resa sonora assolutamente non all’altezza della situazione: non si capiva un cazzo, in poche parole, tra quel che succedeva sul palco e quello che arrivava all’orecchio c’era lo stesso scarto che potrebbe intercorrere tra vedere i Filarmonici di Berlino e sentire “Metal Machine Music“; eri fortunato se i brani riuscivi a intuirli, e il tutto spesso e volentieri si risolveva in un grottesco casino spaccatimpani senza causa né scopo. Il rimpianto alla fine è notevole considerando che, con un fonico capace o un impianto adeguato, sarebbe stato qualcosa di simile alla seconda venuta di Cristo; così è stato “solo” come assistere a una magistrale lezione di musica (e di vita) con la riproduzione di un 78 giri guasto al posto dell’audio. Peccato.

AHO’))) – AKA : Pronto, c’è Gigggi?

SUNN 0)))
SUNN 0)))
SUNN 0)))“Monoliths and Dimensions”

Da queste parti una volta girava tale “Giggi er Pistone” (con due g, credo, l’ho sempre sentito pronunciare con tre però) che sgasava con il motorino smarmittato ai semafori. Che io sappia, non ha mai fatto parte di un gruppo drone, però cazzo, era almeno 15 anni in anticipo sui tempi, se solo avesse avuto quell’aura inquietante che i Sunn 0))) aggiungono a ricette in gran parte altrui. Che poi a ripensarci visto come usava armi da taglio la sua aura era ancora più inquietante, però non ha mai scopiazzato Dylan Carlson. In ogni caso il ritorno di O’Malley & co. riesce nella non facile impresa di aggiungere alle classiche sonorità della Vespa portata dal meccanico quelle che per pudore non chiamo “idee”, ma comunque fanno la loro figura. Soliti vocioni catacombali di quelli “Volevamo essere (e a volte siamo) Attila Csihar“, ma anche cori e/o tastiere e/o momenti dilatati/ambient con perfino una tromba (qualcosa degli Asva, pure), per carità, nulla di realmente nuovo, ma basta per evitare il disastro e rendere il disco meritevole di essere ascoltato. Certo, l’unica loro canzone degna di passare alla storia resta “My Wall”, ma di questi tempi anche riuscire a non ripetersi pedissequamente ottenendo buoni risultati è un buon traguardo.

A Gigggi sarebbe bastato.

Piccoli Fans – ON THE DOWN LOWA

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Membri di Morbid Angel, Forbidden, Grip Inc., Heathen, Testament, Manmade God e altri. Non è un’orchestra, sono in quattro (se suoni peso e stai nel giro inizi a collaborare di qua e di là e prima di accorgertene sei diventato Dan Lilker). Suonano roba stoner sudista tradizionale, tipo Crowbar meets Danzig II con Jimmy Bower alla batteria. Il miglior genere a disposizione dell’uomo contemporaneo. Li ho pescati via SludgeSwamp, il solo link che posso mettere è al loro myspace (dove stanno anche tutti i pezzi che si trovano in giro al momento). Le foto e i logo della band fanno talmente cagare che potresti mettere solo il nome del gruppo in times new roman photoshoppato e farlo sembrare un reboot finissimo.

PS questa è la prima rubrica di Bastonate, si chiama Piccoli Fans e parla di gruppi che non hanno ancora dieci dischi su Century Media

PS questa è la prima rubrica di Bastonate, si chiama Piccoli Fans e parla di gruppi che non hanno ancora dieci dischi su Century Media

Peter Mangalore – Decay of the Iron Man

COVER 

Peter Mangalore era un compagno di classe di Bukowski alla scuola media Mt. Justin. Aveva l’uccello lungo trenta centimetri, a riposo. Questa sua peculiarità viene citata più volte tra le pagine di “Panino Al Prosciutto”, amaro romanzo di formazione sui primi vent’anni di vita dell’alcolizzato di Andernach. Peter Mangalore era anche il più indisciplinato di tutto l’istituto: aveva collezionato 500 demeriti quando, se se ne avevano più di dieci e non li si scontava, non ci si poteva diplomare. Un giorno la compagna di classe Lilly Fischman (una che a undici anni era stata sverginata dal proprio padre), decide di provare il mostruoso uccello di Peter Mangalore, che misura trenta centimetri, a riposo. Si danno appuntamento dietro la scuola, dentro una macchina sfasciata a cui Pop Farnsworth, l’insegnante di applicazioni tecniche, aveva fatto togliere il motore; ma Peter è teso, ha paura che qualcuno li scopra, e non riesce a farlo rizzare completamente… I californiani Peter Mangalore devono aver pensato a questo episodio quando si trattò di decidere la scelta del monicker e del titolo da dare al loro primo e unico cinque pollici, “Decay of the Iron Man“, stampato in mille copie nel 1998 dalla conterranea Deep Six e andato ben presto esaurito. Non bastasse, il primo pezzo si intitola Disqualified as a Human Being, tanto per rincarare la dose. Il cortocircuito, per chiunque si ricordi chi fosse e cosa facesse quel Peter Mangalore, è devastante. Per tutti gli altri, rimane comunque una bella gragnuola di schegge implacabili di sano e robusto powerviolence come si faceva una volta, con gli Spazz come numi tutelari e la durata massima di un pezzo che non raggiunge il minuto (cinquantacinque secondi, per la precisione: è la seconda traccia, Eternal Life In Return of Obediance, non lo diresti mai, una furente disamina sui dispiaceri del Cristianesimo). Il disco è introvabile da anni, ma col tempo ha guadagnato una minuscola aura di culto e ogni tanto qualche scervellato con un senso dell’umorismo da potenziale serial killer rispolvera la sua copia, esegue un bel vinyl rip e lo sbatte su Internet. Questa cosa accade ciclicamente. Nota per i completisti: esiste anche un Peter Mangalore dj – base a Manchester, predilezione per le sonorità acid-techno da rave illegali stile Inghilterra primi anni novanta – segno evidente che il culto di Mangalore (e della sua nerchia asinina) è ben lungi dall’estinguersi.