another dead hero

Titolo Dipinto_005

Non sono una persona servile, men che meno con gente che non conosco, che mai ho visto in carne e ossa. Ma esiste un motivo, uno solo, per cui ai Tool sarò grato finché respiro. Il motivo è Ænima. Non per il contenuto (il cervello me l’ha crepato comunque), non per le copertine finte (come sopra, il bello è che l’effetto è sempre lo stesso, come una barzelletta che non smette di fare ridere fino alle lacrime la prima come la cinquecentesima volta che viene raccontata. La mia preferita I Smell Urine, ma è come chiedere a un bambino davanti alla vetrina di una pasticceria quale dolce preferisca), non per i video strani e certo non per l’immagine pubblica che il gruppo proiettava ai tempi, quanto di più indisponente, respingente e genuinamente sgradevole (non in senso Lenny Bruce o GG Allin; sgradevole e basta) fosse umanamente possibile immaginare. La ragione sta tutta nel ritratto – o meglio il particolare di un ritratto, ma questo l’ho scoperto molti anni più tardi – sul retro del libretto, e corrispettiva didascalia a contestualizzare:

BILL HICKS
ANOTHER DEAD HERO

Non sapevo chi fosse Bill Hicks. Al massimo ero arrivato a Dante Hicks: Clerks l’avevo visto da poco. Per anni ho tormentato, sciorinando parola per parola battute o interi dialoghi, amici che non avevano la minima idea di cosa stessi dicendo. Alcuni hanno recepito. Ancora oggi un ricordo esplode all’improvviso, una frase a caso – tipo: Mille volte meglio un fottuto. Un bellissimo, dove non c’è un cazzo – basta a farmi stare bene per giorni. Ma Bill Hicks, ai tempi, ancora no. Relentless il primo contatto, VHS copia di una copia, niente sottotitoli, rimediata chissà dove, chissà come. Non ho capito tutto subito, quel che mi è arrivato è comunque bastato a cambiarmi la vita per sempre. Nel tempo tutto il resto. Mai smesso di ascoltarlo, mai ascoltato abbastanza. Il repertorio potrei mandarlo a memoria. È anche grazie a lui se adesso sono vivo.
Tante volte ho provato a prendere le distanze, a farmela passare. Non era possibile dicesse SEMPRE E SOLO cose giuste. Inutile, non c’era verso. Non c’è verso.
L’ultimo regalo in ordine di acquisizione; era il 2011 quando l’ho visto. Ricordo il periodo, ricordo che ho pianto.

Bill Hicks muore il 26 febbraio 1994. Ænima esce a settembre 1996, non ricordo il giorno preciso. Oggi tutto sommato un buon compromesso.

 

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 21-27 febbraio 2011

sapere cose.

Comunque stasera a parte Gianluca Grignani che sbasa al Teatro delle Celebrazioni e tali All Time Low all’Estragon (dalle 21, venti euro) in giro non c’è niente e si può restare in casa a guardare la pioggia cadere. Mercoledì MeryXM prosegue in grande stile con un omaggio a William Burroughs con annesso concerto sviaggioso (gratis, dalle 20); contemporaneamente, al Sant’Andrea degli amplificatori Luciano Maggiore e Francesco ‘Fuzz’ Brasini srotolano le loro distese di drones per la gioia del nostro telencefalo (o di quel che ne resta). Dalle 21.30. Giovedì Father Murphy in jam confidenziale a orario aperitivo, luogo ancora da verificare (ulteriori dettagli nei commenti appena scopro qualcosa); poi per ora niente. In compenso venerdì ce n’è per tutti i gusti: i reduci della vecchia guardia saranno tutti al Sottotetto a vedere i Crying Steel (cinque euro più altri cinque di tessera), mentre per gli amanti del metallaccio ridondante imperdibili i Rhapsody (che dopo i buffi con Joey DeMaio – con annessi strascichi mafiosi che per ora non è dato conoscere – si fanno chiamare Rhapsody of Fire) all’Estragon (meno imperdibile il prezzo: trenta euro); per mods e skins rissaioli la prima serata dello Skull & Bones Festival al Crash!, ma l’appuntamento da non mancare è con quel monumento alla TECHNO con la T la E la C la H la N e la O maiuscole che si chiama Jeff Mills, al Kindergarten con il suo arsenale di giradischi e 909 in fiamme (e, pare, un sound system nuovo di zecca per l’occasione) in una serata che se siete vivi ha tutti i crismi dell’evento. Il prezzo per vedere la leggenda in azione è di venti euro; i venti euro meglio spesi da… boh, non trovo nemmeno le parole per tentare un paragone comunque eufemistico. Devozione.
Non bastasse, sabato altra badilata di roba: Scott Kelly al Nuovo Lazzaretto (la colonna sonora ideale se avete deciso di farla finita ma vi manca il coraggio per l’ultimo step; è la terza volta in un anno che me lo sparo e non ne avrei mai abbastanza), centesimo concerto dei Crazy Crazy World of Mr. Rubik al Locomotiv (dalle 21.30, cinque euro più tessera AICS, gli acidi non sono necessari basta il caldo soffocante), seconda serata dello Skull & Bones al Crash! (particolarmente interessante per la presenza degli inossidabili Last Resort), Morkobot al TPO e mega-jam del futuro all’XM24. Domenica credo che avrò un leggero mal di testa.

MATTONI issue #9: Sufjan Stevens

la droga gioca di questi scherzi

 

Impossible Soul è il mattone posto al termine di The Age of Adz, ritorno al formato album per Sufjan Stevens dopo un lustro abbondante di EP, ristampe, cofanetti natalizi, riarrangiamenti strani, raccolte di scarti e concept sinfonici dedicati all’autostrada. È un regalo prezioso Impossible Soul, ma come ogni cosa buona bisogna conquistarselo, bisogna arrivarci, nello specifico, tagliando il traguardo dell’ultimo pezzo di un disco sfiancante, smisurato, tonitruante, inqualificabile, smodatamente eccessivo, esasperatamente magniloquente, altamente perturbante e perfino sgradevole da subire perlomeno in un’unica mandata. Un disco che è come un’overdose di zucchero caramellato sparata dritta in vena, un’indigeribile melassa sciropposa che sconvolge i sensi e rimane appiccicata ai centri nervosi come miele guasto, un delirio di numeri da film Disney coi protagonisti froci, con arrangiamenti in addizione infinita di squilli di tromba, strati di synth obliqui, vocals distorte tipo vinile fatto girare alla velocità sbagliata (a un certo punto spunta fuori un vocoder orrendo) e bizzarrie analogiche di ogni sorta e genere, roba che al confronto Todd Rundgren o Barry Manilow diventano spartani e basilari come manco il Don Fury dei primordi. Una roba veramente al di là di ogni immaginazione, barocca e ridondante tipo Zaireeka però fatto male, con testi in perenne trip egomaniaco molesto da far sembrare Brian Wilson o Candyass tranquillissimi e riconciliati.
Senza Impossible Soul, tutto quel che lo precede sarebbe un soffrire inutile; perché è in quei venticinque magici minuti che ogni tassello di quel che sembrava un atroce mosaico scombinato e malamente assemblato (nel frattempo pare che lo stesso Stevens abbia avuto il suo bel da fare a mantenere il controllo di sé stesso) trova un ordine e una collocazione, che il disegno globale acquista un senso e le smodate ambizioni alla base dell’intero progetto diventano – finalmente – ben riposte. Nel suo esasperato, vitalissimo citazionismo di praticamente tutto lo scibile musicale mai registrato (dal country alla dance, dal minimalismo al pop elettronico, dal folk al musical fino alla classica contemporanea e addirittura alle schitarrate metal) Impossible Soul riesce miracolosamente a trovare un suo equilibrio, che è perfetto e inscalfibile e non smette di svelarsi mantenendo inalterata la magia mentre un ascolto tira l’altro, rischiando di diventare per davvero il pezzo più rappresentativo e al tempo stesso più radicale e teorico dell’intera carriera dell’artista, con buona pace di chi ancora aspetta il seguito di Illinois (campa cavallo che l’erba cresce, come diceva sempre mio nonno). Sta al pop come Mother di Goldie sta alla musica elettronica. Intanto pare che The Age of Adz stia collezionando la sua bella serie di stroncature. Anche questo fa parte del gioco.