Il disco di John Carpenter fa schifo

jc

 

Le iniziali di John Carpenter sono le stesse di Gesù Cristo detto o scritto in inglese; non voglio diventare blasfemo pretendendo di stabilire gerarchie o primati (anche solo dentro la mia testa) ma questa cosa per me ha un senso.

Il primo è stato Grosso guaio a Chinatown, il più visto La Cosa. Il più importante (importante per me, come per me sono stati il primo e il più visto) 1997: Fuga da New York. Un sortilegio salvifico fin dalla locandina, trasposizione alla lettera di uno stato mentale: il mio, allora. Il mondo una cosa misteriosa, inebriante, sostanzialmente inesplorata. Kurt Russel, Jena (splendido arbitrio del doppiaggio italiano distorcerne il nome originario – Snake – a scoprirlo, molti anni più tardi, quale sgomento), l’incarnazione di tutto quel che sarei voluto diventare. Meraviglia delle meraviglie il supremo schiaffo in faccia del finale, capace di arrivare in pieno volto anche a un bambino di sei anni; questo io chiamo genio.

La prima volta che ho visto Fuga da New York la colonna sonora mi è esplosa in faccia più del film, mandandomi in confusione molto di più. Due note di synth a squarciare una tenebra senza fine, batteria elettronica rudimentale a scandire il tempo, nel mezzo il suono della vita che scorre. Un universo andava plasmandosi. C’era tutto dentro, non serviva altro. Mai sentita roba anche solo lontanamente paragonabile; mai prima, qualcosa di striscio poi. Alla stessa potenza di fuoco, soltanto in altre colonne sonore sue (non tutte). Saltuariamente germi isolati riaffioravano in contesti differenti: pezzi campionati in altri dischi, da altri gruppi (Distretto 13 il più saccheggiato, a buona ragione); altre cose che più o meno alla lontana ricordavano il prototipo (certa techno di Detroit, certa techno romana). Distanze siderali tra lui e il resto del mondo, mai colmate; nessun allievo, nessun successore. Ignorato dalla critica – cinematografica, musicale, stessa differenza (salvo trafelate, grottesche riabilitazioni a corrente alternata, sempre fuori tempo massimo) – per decenni ha potuto contare esclusivamente sull’indistruttibile forza di una visione, all’atto pratico su un solo alleato: Debra Hill (la sua morte prematura – come se ci fosse poi un’età ‘matura’ per morire, ma insomma ci siamo capiti – un’altra dimostrazione dell’infinita crudeltà, dell’infinita ingiustizia che regolano l’universo).

Le colonne sonore dei film di Carpenter erano l’idea di un suono prima ancora di un suono, un’idea da cui Carpenter inizia a prendere le distanze molto presto (Starman, a voler stabilire un punto di non ritorno – anche se La Cosa porta la firma di Morricone, il tema portante è puro Carpenter). Grosso guaio a Chinatown ancora qualcosa, già Il signore del male era tutt’altra bestia. Fino a Christine la musica di Carpenter, da un punto di vista attitudinale, era quello che i dischi dei Godflesh sarebbero stati poi: un unico blocco di granito che procedeva per micro-spostamenti e per micro-spostamenti mutava come le zolle che compongono la crosta terrestre. È ancora così ma nel frattempo, spostamento dopo spostamento, il panorama si è trasformato in maniera irreversibile. Niente da fare, indietro non si torna; riportarlo a come era prima un esercizio impossibile nel migliore dei casi, triste e patetico nel peggiore. Altri scenari sono subentrati, altre suggestioni, altre immagini veicolate da altri strumenti: chitarre, basso, batteria, score veri e propri (Il seme della follia, Villaggio dei dannati), digressioni southern (Vampires, dove ieri come dopodomani sembra di inghiottire polvere del deserto a ogni passaggio, a ogni nota), incursioni megametal (il tema de Il seme della follia, soprattutto Fantasmi da Marte, con Steve Vai gli Anthrax e Buckethead a finalizzare; ignoranza a badilate, contestuale al film). È il Carpenter non ancora storicizzato e mitizzato, chissà se lo sarà mai. Del resto il gioco è più sottile, il discorso ben più complesso: niente più synth cupi e inquietanti, niente più attrezzature farsesche da mercatino dell’usato. La luna sempre più lontana, il dito sempre più ciclopico.

Per qualche tempo Carpenter è semplicemente scomparso dalle mappe. Poi sono arrivati i copisti, orde di plagiari senza storia e senza scopo per cui ignorare in blocco il repertorio post 1983 è stato fin dall’inizio dovere morale e precisa cifra stilistica; uomini senza qualità pronti a vampirizzare tanto lui quanto i Goblin quanto Micalizzi, stessa differenza; nomi a caso ficcati a viva forza nello stesso calderone, operazione ideologicamente disgustosa, straordinariamente disonesta, avvallata da stampa compiacente (leggi: utili idioti prestati al caso) di rara ottusità – l’incoscienza non è una scusa.
Ora qui, ora questo.
Lost Themes è il primo album di John Carpenter solo a essere stato composto appositamente, senza un film da sonorizzare. È come la colonna sonora di un suo film senza il film. Puro modernariato, roba che tanti anni fa a fianco di storie che hanno migliorato l’esistenza di tanti non solo aveva perfettamente senso, era frontiera, avanguardia vera, gasolio che incendiava teste ricettive come carta vetrata la capocchia dei fiammiferi; oggi, senza Distretto 13 o Fuga da New York a ribadire e motivare, mette soltanto una gran malinconia. Concettualmente tra questo e qualsiasi pezzo retro-wave accompagnato da video autoprodotto caricato su youtube, costruito su collage di puntate di Miami Vice o vecchi film con Stallone, la differenza è zero. Mancano le immagini ma si rimedia presto: un giro su torrent a scaricare i film, smanettare mezz’ora con qualche programma freeware di montaggio ed ecco risolto. Però la musica resta fiacca comunque. Pretendere di cancellare il passato un trick che funziona giusto nei romanzi di fantascienza (o dopo un trauma cranico, e mica sempre); fare come se niente fosse credendoci davvero, qualcosa a metà tra l’inconscio desiderio di sconfiggere la morte e nuovi esercizi in malafede. In ogni caso Lost Themes è proprio brutto. Forse esagero ma non ho bisogno di questa roba per farmi tornare voglia di vedere (inserire titolo di qualsiasi film da Dark star in poi), o mettere su dischi techno alla vecchia che mi ricordino perché John Carpenter è tra gli esseri umani che non ho mai conosciuto che rispetto di più; lo faccio già, regolarmente, da quando ho memoria.

La sagra dei maroni striscianti

Christian Zingales lo definirebbe “un matrimonio in Paradiso”: due tra i più grandi frantumacoglioni attualmente in circolazione insieme, la stessa sera, sullo stesso palco. Di Joanna Newson per anni sapevo solo che aveva suonato l’arpa nel disco dei Nervous Cop, estemporaneo side-project free-cazzeggio del tizio degli Hella di cui cito a memoria la recensione di Stefano I. Bianchi (che ricordo benissimo, a differenza del disco): Un tempo “progetti” come questo restavano semplici esercizi casalinghi, prove e divertissment della domenica pomeriggio. oggi diventano CD. Nervous reviewer.
Questo fino a quando nel 2006 qualcuno – forse pitchfork, ma potrei sbagliarmi – improvvisamente decide che l’allora ultimo disco di Joanna Newsom dovesse essere una roba grossa. Detto, fatto: Ys, spietato generatore di orchiti disumane fin dal titolo (che cita, forse involontariamente, gli ammorbanti Balletto di Bronzo, come a dire butta male e se non capisci sei stronzo due volte), diventa seduta stante il nuovo mai-più-senza dell’intellighenzia indie e in generale di chiunque, a qualsiasi titolo, pretenda di atteggiarsi a uno che ne capisce di musica. Le lagne per arpa e vocetta petulante da elfo dei boschi con la crescita rimasta bloccata a sette anni vengono sdoganate con una profusione di sforzi degna della costruzione della diga di Assuan, firme di solito affidabili sbarellano alla grande e in generale il plauso è unanime come ci si trovasse di fronte all’unica e ultima Opera d’Arte con la O e la A maiuscole della storia dell’umanità. Il tripudio di peana continua fino a investire le inevitabili classifiche di fine anno, che vedono Ys trionfare su ogni rivista, ciclostilato, rotocalco e sito Internet che voglia definirsi tale; pagato il dovuto al mestiere dell’appartenenza, dal primo gennaio 2007 il disco può dunque assolvere la funzione che gli è più consona, ovvero prendere polvere da qualche parte, fermare la gamba corta del tavolo o languire nelle vaschette dell’usato o nel cestino del desktop in attesa del prossimo repulisti. Per il nuovo album di Joanna Newsom bisognerà aspettare quattro anni; per essere sicura che nessuno al mondo senta il desiderio di ascoltarlo se ne esce con un triplo CD. La sfilza di recensioni sborranti è meno nutrita della precedente. Comunque sono tutte cazzate: NESSUNO ha ascoltato il disco, così come NESSUNO ha letto dall’inizio alla fine Alla Ricerca del Tempo Perduto o Critica della Ragion Pura e NESSUNO ha visto Il Decalogo o Heimat.
Josh Pearson era il cantante/chitarrista alla guida dei “fondamentali” Lift To Experience, trio di buzzurri baciapile texani, sorta di 16 Horsepower in sedicesimi con un immaginario agghiacciante da cowboy preso male tutto cappellacci e basette alla Pelù, roba che anche i Fields of the Nephilim dei tempi d’oro si vergognerebbero; il loro unico album, il doppio The Texas – Jerusalem Crossroads, un delirante concept biblico da far rimpiangere i testimoni di Geova quando vengono a rompere il cazzo a casa la domenica mattina, ha raccolto qualche consenso nelle frange più ottuse e bigotte degli States. Qui da noi non se l’è filato nessuno, tanto più che è uscito nell’estate prima dell’11 settembre. Naturalmente ora c’è chi giura che nel 2001 stava a sbronzarsi di vin santo insieme a quella vecchia sagoma di Josh, io la chiamo consapevolezza retroattiva, in ogni caso potenza dell’ADSL. Dopo anni di oblio nel segno della devastazione psicofisica e dell’amore per Cristo, l’ex basettato Pearson rispunta fuori con un barbone alla ZZ Top e un disco, Last of the Country Gentlemen, verso cui si ripete invariato l’effetto-Newsom: folgorazione istantanea e unanime sulla via di Damasco. Fioccano recensioni esagitate, interviste prone, dichiarazioni di amore eterno, copertine, comunioni, conversioni, con qualche inevitabile voce fuori dal coro di riflesso – comunque limitata alle message board – del solito bastian contrario di professione che ha da poco scaricato l’orribile leak in VBR che gira da prima dell’uscita (fatica sprecata: tutto il disco sta in streaming gratuito su Deezer). Qualche giorno fa l’ho ascoltato: sembra una versione dilatata della scena di Animal House con lo strimpellatore “introspettivo”, solo che qui dura quasi un’ora e alla fine non arriva nessun Bluto a spaccargli la chitarra. La voce pare quella di un Morrissey inumato. La voglia di sbattere su l’opera omnia dei Poison Idea a volumi disumani mi assale come fosse l’unica cosa da fare prima della morte cerebrale. Un matrimonio in Paradiso.