Avevo amici Gabber, ma non sarò mai un Clubber

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Nei tardi novanta nel mio paese di campagna era arrivata la rivampata della moda chimica dei gabber. Cioè era tipo morta in quasi tutta Italia, ma qui è arrivata dopo -come tutte le cose e com’è giusto che sia- in una specie di liberalizzazione dell’ultimo miglio del sentirsi ganzi. Era fantastico come il sedicenne medio in fotta con l’hardcore olandese avesse incarnato, concentrandosi fortissimo e predicando al baretto altrettando fortissimo, tutta la sua fame di posti esotici in un unico punto sul mappamondo al cui interno nascondeva i primi sassi di bamba: quel punto esotico sul mappamondo era IL NUMBER ONE DI BRESCIA. C’era chi voleva mollare tutto per andare a Bergamo, in quei tempi LA ROTTERDAM D’ITALIA. Andarci ad ogni costo, anche in motorino. A fare la piramide con sotto LANCINHOUSE. Anche se Lancinhouse non faceva più un disco da almeno 5 anni.
In questi giorni di RIPIGLIO al ritorno dal Club 2 Club non ho potuto fare a meno di ripensare al luccichio negli occhi di chi voleva partire dal buco del culo del Veneto per cercare fortuna a Bergamo che “ALMENO MAGARI LAVORO LA MATTINA E VADO AL NUMBER DI NOTTE”, con l’amarezza che a me sarebbe servito quel luccichio -e qualche scopa in meno nel culo- per non essermi sentito dentro uno dei post di Vice per circa 72 ore complessive.
La prima serata, roba da bocca buona, con il live di James Holden al Teatro Carignano mi ha fatto stare bene. Posto da pipa e monocolo, coda interminabile all’ingresso causa un disguido su uno spettacolo che doveva ancora terminare. Abbastanza impagabile il ronzare continuo di vecchi da Rotary attorno alla fila a chiedere col cuore in mano “ma perchè c’è la coda, cosa andate a vedere?”. Già, cosa stiamo andando a vedere? Temevo la parruccata estrema, la parruccata totale fatta da un inglesotto in camicia che pigiava il controller midi di un macqualcosa attaccato ad un impianto dignitoso. E invece Holden mi smentisce, si presenta con un batterista dalla discreta zampa jazz, un moog, tutti lfo ed effetti analogici e vabbè, c’è anche il mac. Ma il live tiene bene, il posto è suggestivo al punto giusto, c’è della bella gente, ho visto qualcuno dormire. E’ stata l’unica sera dove qualcuno non mi ha chiesto della bamba.
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La seconda serata ai Cantieri OGR era più o meno tutto quello che volevo veramente vedere del C2C. C’erano le dronate de The Haxan Cloak che rendevano la pista una specie di acufene dentro il cesso di un camper (pregevoli), i Ninos Du Brasil che hanno fatto il set più fisico e devastante possibile arricchito dai visual di Italia – Brasile e morte varia. C’è stato poi il DJ Set di Holden in cui ho pure dovuto simulare un ballo del ciccione barbuto perchè ero in prima fila e mi pareva di creare troppo disagio a stare fermo sulla transenna. Godibile e paraculo, ha rigirato pezzi suoi e di Four Tet, capirai. A chiudere la baracca hanno messo quello che più mi interessava vedere: Jon Hopkins ha buttato giù tutto il suo disco -tra i miei top dell’anno, senza dubbio- per poi sfociare in una roba technogoa ignorantissima per far finire le bottigliette di MDMA agli ultimi pochi ingordi rimasti. Tutto sommato la serata è stata la migliore delle tre che ho visto, nonostante la chiosa finale da rave-su-argine. Menzione d’onore al tizio col berretto di lana nella foto li sopra: è il batterista di James Holden che ha passato buona parte della serata a bere redbull immobile mentre una schiera di fashionblogger-alike gli ruotavano attorno smascellando con ogni parte del viso. Roba che neanche i tratti somatici di Mister Potato godevano di così tanta vita propria.
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Il Sabato sera-notte-nottissima è stato un viaggio introspettivo interminabile. Una resa dei conti interna tra il mio cervello rettile e i miei coglioni e il mio senso del buon gusto. Già la sera prima ero praticamente un outsider, uno che occupava staticamente spazio, una colonna con la barba. Se si fosse giocato a calcio invece che ascoltare roba da cassa dritta mi avrebbero scelto per ultimo, come gonfiapalloni. Non si poteva concepire uno che quella gente l’aveva ascoltata su disco ma che lì non ballava: non compariva nell’almanacco dello studente fuori sede e neanche nel protocollo dello spagnolo di merda ubriaco in Erasmus che ti si attacca al cazzo subito dopo il madornale e incredibile set di Rustie rovinandoti di fatto quello di Machinedrum. Eppure ne ho visti altri lì come me che si sentivano come interrotti, dentro quel coso patinatissimo che è diventato il Lingotto. Dove li mio padre prese la sua prima auto nuova, una Fiat Tipo presa coi debiti, adesso c’era solo sto coso con un main stage e un’altra sala che di fatto era un sottoinsieme più caldo e umido di quella principale. Era tipo il suo apparato digerente: lì ci ho visto un pezzo di Giorgio Valletta, Kode 9 enorme, Rustie assolutamente infermabile e l’inizio di Machinedrum. Andy Stott l’ho saltato a piè pari perchè ormai alle 5 del mattino ero uno stronzo fumante con gli occhiali. Il main stage mi ha sconfitto. Al netto dei nomi invincibili come Four Tet che non può deludere e trollare con la storia della scritta “Burial” sul monitor dei visual, John Talabot (il nome giusto nell’orario più giusto -in apertura- e con il repertorio più giusto) e i Fuck Buttons, il resto è stato veramente una tedescata buona solo per il vuncione col cane legato fuori con la catena. Modeselektor si è salvato solo per i visual, con Diamond Version avrei voluto morire o essere uno degli Scanners. La cosa che fa più male a queste come ad altre cose così è quando il pubblico gira, muta, si sdruma e ti ritrovi in una piega spaziotemporale compresa tra la Street Parade di Bologna e il salotto di Bertallot. Io non sono scafato per vedere queste involuzioni umane, le feste nei capannoni con la DROGAINA (cit. Studio Aperto) le ho già viste e si sentiva meglio di come si sentiva lì. E comunque sì, nella sala più piccola faceva caldo, ma in confronto all’Ultimo AntiMTV Day non era nulla.
Me ne sono andato mentre c’era Ben UFO che buttava su una roba fresco-ragga-jungle e iniziavano a vedersi diverse coperte termiche della croce verde, un sacco di folklore del Sabato sera salvato solo dal peso specifico dei nomi.
Decaduto il mito dei Gabber di Bergamo, annacquato quello dei Clubber interinali torinesi, ne rimane in piedi solo uno: quello della serata pugliese all’Estragon.

QUANTO ERAVAMO DISADATTATI: Nofx – The Longest EP (Fat Wreck Chords)

Una copertina originale, diversa dal solito.

Chiariamoci subito: ad insindacabile parere di chi scrive i Nofx sono una delle band più importanti degli anni novanta (favoloso iniziare utilizzando la formula magica “ad insindacabile parere”, dà un tono solenne al tutto anche se in realtà il tutto è niente). Hanno nel loro piccolo codificato le caratteristiche salienti di un genere – quell’hardcore punk melodico lì, pop ma non troppo, California California California, testi semplici ma che sono in grado di farti ridere dicendo cose importanti, con la batteria tututà tututà tututà tututà tutututu, le chitarre che grattano piripiri piripiri piripiri piripiripiripiripà, il basso che finalmente si sente ed occasionalmente la tromba – e lo hanno fatto amare a gran parte dei ragazzi dell’occidente civilizzato (ma credo anche a molti ragazzi del resto del mondo, anche se non ne sono poi così sicuro) senza nemmeno passare attraverso l’universo major discografiche e l’universo Mtv.

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