Navigarella (BLACK METAL THANK YOU)

Due o tre robe nuove per stare bene.


La prima è il primo pezzo dal nuovo disco di Mark Lanegan, un tremendo pezzo di rock del cazzo* vagamente ispirato al baratro in cui sono caduti i QOTSA da quando qualcuno ha iniziato a cagarli seriamente e/o a un milione di altre cose fatte prima, meglio e con più sangue al cervello e sulla traccia. Non voglio ricominciareHaters gonna hate, dice la gente pensando a quelli come me, quelli che non s’accontentano, quelli a cui non piace il rock pregevole. Io oggi ho pensato che Mark Lanegan è tipo la mia ex-fidanzata, quindi tanti saluti -insomma, ok lasciarsi in pace ma ci stareste male anche voi se la vedeste troieggiare e pippare coca nei bagni dei locali fighetti assieme a Greg Dulli e Isobel Campbell.

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Per stare bene, o per STARE BENE, arriva il cock-teaser del prossimo disco semestrale dei nostri eroi Pontiak, the Will Oldhams, the Marco Caizzis, i più grandi rappresentanti contemporanei dello sgrattoa-rusty, l’ultimo gruppo folk rimasto in terra. Il nuovo disco sarà bellissimo perchè quello che i Pontiak fanno ha sempre un senso e alle volte il senso è quello di suonare una cosa. Il prossimo disco uscirà sempre per Thrill Jockey e si chiama, boh, non mi ricordo, però esce a febbraio.


Eccezion fatta per Andrew WK, che si ripresenta al suo meglio (cioè ancora I Get Wet, che lo riascolti e ogni volta lo trovi più bello e più grosso e più importante) con un video epocale che ridefinisce la nostra epoca a livelli tipo che per oggi e domani siamo a posto.

 

*introducing ROCK DEL CAZZO come genere musicale. Mi è venuto in mente l’altro venerdì sera, stavo in una birreria assieme a certi amici miei e suonava questa specie di cover band potenziale, solo che invece dei pezzi dei Sabbath facevano roba originale. Ecco, ROCK DEL CAZZO è quando suoni musica che -nonostante le etichette ci abbiano investito soldi giganti sopra- non vende un disco nel mercato specializzato dal 1988, eccezion fatta per i gruppi precedenti. Quelli la cui massima aspirazione è smettere presto al lavoro per andare a fare le prove, che passano due domeniche a dipingere il lenzuolo col logo della band eccetera. Il rock del cazzo è tendenzialmente un genere molto più nobile e glorioso di qualunque altro genere musicale partorito dalla discografia occidentale: non è duttile, non accetta compromessi, puzza di birra, si copre volentieri di ridicolo e forgia gli uomini nel ferro degli Dei, ma è comunque rock del cazzo.

Come cazzo stiamo messi con Mark Lanegan.

(la miglior locandina dei Malleus ever)

In questa cerchiamo di fare un conto di quanto ci sia costato emotivamente essere fan terminali di Mark Lanegan lungo tutti gli anni duemila. Il sodalizio con Mike Johnson (bassista dei Dinosaur Jr nella loro miglior formazione e deus ex-machina degli episodi più significativi della carriera solista del cantante dei Trees) si interrompe nei primissimi duemila, non si sa per quale ragione. Sulle prime l’Uomo si chiude in studio assieme al giro QOTSA, non ancora esploso a livello planetario, e inizia un sodalizio che andrà avanti a bocconcini per almeno un lustro. Nel 2004, anticipato da un modesto EP, esce un modesto album dal titolo Bubblegum. Ai tempi sembrava chissà che cazzo, ma era già intuibile lo scarto di maniera rispetto anche solo al pacificatissimo Field Songs (che ancora aveva Mike Johnson in forze). Del resto ai tempi potevi mettere Mark Lanegan sul palco a recitare l’elenco telefonico, uscire dalla sala e raccontare ai parenti di aver visto la Luce. Da lì in poi Mark Lanegan è diventato come credere in Gesù nel periodo in cui non faceva più i miracoli: un disco penoso con Isobel Campbell, lavori a cottimo per l’ormai sterminata famiglia QOTSA (Desert Sessions, Auf der Maur, etcetera), il patetico sodalizio con Greg Dulli (Twilight Singers e il progetto Gutter Twins), le collaborazioni più o meno estese con Soulsavers e simili. Nella seconda metà degli anni duemila Mark Lanegan è passato dall’essere uno dei cinque-sei grandi cantautori dell’età contemporanea ad incarnare la versione in scala del bluesman prezzolato alla BB King, guest-starring di dischi a cas(zz)o che danno sempre e solo misura dell’uomo come cottimante in giro per i bassifondi del rock. Una messe di album prima irrilevanti se non per il contributo di Lanegan e poi NONOSTANTE il contributo di Lanegan. Per trovare un disco figo con lui alla voce occorre attendere il recentissimo ripescaggio dell’ultimo album perduto degli Screaming Trees.

Ora salta fuori che nel febbraio del prossimo anno, per la prima volta dopo otto anni, uscirà un nuovo disco solista di Lanegan. La ciurma che lo compone non reca traccia degli ultimi contributori, se non in forma di guest stars estemporanee. Non c’è nemmeno Mike Johnson, figurarsi: l’ossatura del gruppo è composta dall’ex-PJ Jack Irons (quello che aveva passato il demo a Eddie Vedder, se v’intendete di quelle robe) e Alain Johannes (anche produttore). Non ci sono anticipazioni al momento, ma già l’annuncio ci servirà a fare i conti col presente di Mark Lanegan IN QUANTO Mark Lanegan invece di continuare a considerare le sue apparizioni qua e là come indici di qualcosa. E magari decidere una volta per tutte se è il caso di relegarlo nel limbo degli artisti ex-fighi o liquidare il suo periodo lontano da se stesso e dai dischi a suo nome come un decennio sabbatico. Non punto soldi sulla seconda.

Ma io lo so chi è Mark Lanegan (il post cascione)

L’idea più ragionevole sulla faccenda è che questi dischi non escono per un motivo fondato e che questo motivo ha MOLTO più a che fare con il valore artistico di quanto ne abbia con la mafia, il signoraggio bancario, i complotti delle major e la sfiga. AKA non ci perderei troppo il sonno. Ma insomma, sperare è pur sempre lecito.

Lo scrivevo io qualche settimana fa, parlando del fatto che il nuovo disco degli Screaming Trees, annunciato più o meno a buffo (e intitolato in maniera molto originale Last Words) non avrebbe spaccato un cazzo di niente. Un po’ avevo ragione. Fosse uscito nel 2000, e dite pure che ve l’ho detto io, questo disco avrebbe fatturato un treno di recensioni negative. Ci si sarebbe chiesti, a ragione, a che pro continuare a sostenere gente che nell’economia del rock si piazzava con orgoglio due passi oltre la dietrologia e/o in territori di puro Pterodattili Oriented Rock, in un periodo in cui tutto sommato persino i Pearl Jam provavano a fare un disco senza Brendan O’Brien. Ma più che altro avevo torto: sentito oggi, anche asciugate le orecchie dalla nostalgia ad ogni costo di cui ultimamente mi sto sbronzando, è incredibile. Un tuffo carpiato in un’epoca ormai finita, psichedelia Blacksabbath-iana presa male e quelle linee vocali assurde di Mark Lanegan che un cazzo e un altro non sentivamo da dieci anni e passa e TI-SI-FERMA-IL-CUORE. A volte sbagliarsi è proprio una figata.

Ma io lo so chi è Mark Lanegan (reprise)

l'estetica del rock.

Una delle cose che mi danno più al cazzo nella musica rock è l’attitudine a parlare di certi gruppi come di non hanno riscosso il successo che meritavano o ancora peggio con la formula da loro inventata ci si sono arricchite decine di gruppi. I principi di questo genere sono gruppi tipo Fear Factory, come se avere inventato il techno-metal fosse un pregio. Un altro assolutamente in pole position erano gli Screaming Trees. Gli Screaming Trees erano probabilmente il gruppo grunge definitivo: pesantissimo indierock sabbathiano con pezzi sbilenchi, cantante in bilico tra origini indie-punk e aspirazioni blues, due ciccioni inguardabili in pantaloncini a rovinare tutte le foto promozionali. Avevano fatto uscire una manciata di dischi su SST, uno più bello dell’altro (il migliore è l’ultimo Buzz Factory, senza alcun cazzo il miglior disco della carriera di tutti i membri coinvolti) e sull’onda dei contratti che stavano piovendo a Seattle e dintorni nell’epoca dell’esplosione del grunge, riescono ad uscire con un disco major già nel ’91. L’album si chiama Uncle Anesthesia (prodotto da Chris Cornell) ed è ancora uno dei migliori compromessi tra suoni alla Jack Endino ed ambizioni da grande arena. Riescono ad infilare un singolo di successo solo con Nearly Lost You, nel successivo Sweet Oblivion: un buonissimo disco, ma niente di paragonabile al pop rock allucinato dell’epoca SST (certo, se Sweet Oblivion uscisse uguale nel 2011 sarebbe il mio disco dell’anno senza sforzarsi, ma a metà anni novanta possiamo permetterci di fare le pulci). Del resto l’anima commerciale della band è sempre stato il solo cantante Mark Lanegan: si smarca dal gruppo già nei primi anni novanta, chiudendosi in studio con uno stuolo di amici e riemergendo con un disco solista di bellezza assoluta intitolato The Winding Sheet in cui dà sfogo alle sue ambizioni da cantautore. Gli Screaming Trees, in ogni caso, continuano ad esistere lungo tutti gli anni novanta con tre dischi all’attivo (l’ultimo è Dust, decisamente meno bello dei precedenti anche se non ancora da buttare), frequentazioni Mad Season e una formazione piuttosto stabile che dal ’96 in poi si fregia persino di Josh Homme alla seconda chitarra. Nel 2000 i Trees si sciolgono ufficialmente: l’ultimo disco di studio è vecchio di quasi un lustro, i fratelli Conner traccheggiano con side-project di estrazione stoner (val la pena di ricordare almeno i fondamentali Valis, che in onore alla loro grandezza figurano nel roster Man’s Ruin con uno split), Lanegan fa uscire il suo ultimo capolavoro (Field Songs, non a caso l’ultimo album scritto con/da Mike Johnson). Da lì in poi Lanegan diventa un collaboratore fisso del gruppo di Josh Homme (la sua stessa carriera solista da lì in poi va considerata una sorta di estensione concettuale dei QOTSA, oltre che una fonte quasi inesauribile di dischetti di cantautorato senza nerbo) e degli altri si perdono le tracce in gruppi sempre più invisibili o troppo grossi per non farci la figura dei turnisti (manco di lusso). Da anni girava già la voce che li voleva gruppo sfortunato, che avrebbe potuto essere –boh- i Soundgarden ma era stato fatto fuori dal music-biz. Noi siamo arrivati a giochi fatti e l’abbiamo presa così, come una specie di postulato del rock’n’roll che ci ha accompagnato mentre diventavamo vecchi e bolsi e lamentosi. Secondo una forma mentis più snella gli Screaming Trees erano un perfetto e incredibile gruppo indie rock di dimensioni medio-grandi, diciamo simili a quelle dei Melvins, con cui il mercato dei grandi numeri s’è giustamente pulito il culo una volta finita di cavalcare l’onda dei Nirvana. La loro musica migliore sta ancora nei dischi a marchio SST, che diversamente da Uncle Anesthesia etcetera NON STANCANO MAI e possono tranquillamente supplire da soli al bisogno di rock di un appassionato esigente per almeno due settimane.

Salta fuori dal nulla, tuttavia, che c’è un disco dei Trees, registrato poco prima dello scioglimento nello studio di Stone Gossard e mixato da Jack Endino. Si chiama Last Words ed esce tra meno di un mese in digitale, senza –pare- nessuna reunion ad accompagnarlo e con una possibilità aperta per formati fisici futuri. L’idea più ragionevole sulla faccenda è che questi dischi non escono per un motivo fondato e che questo motivo ha MOLTO più a che fare con il valore artistico di quanto ne abbia con la mafia, il signoraggio bancario, i complotti delle major e la sfiga. AKA non ci perderei troppo il sonno. Ma insomma, sperare è pur sempre lecito.