L’album natalizio, a prescindere da autore e intenzioni, è qualcosa di abominevole, sempre e comunque (unica eccezione John Fahey, ma qui manco si tratta di diversi campionati, e comunque Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, quindi); nessuna giustificazione, nessuna razionalizzazione che possa in alcun modo reggere. Come quelle barzellette imbarazzanti dove alla fine nessuno ride mai, nemmeno per cortesia, neanche per sbaglio. Anzi, se questo succede, deve semmai fungere da sonar per individuare una persona da cui tenersi necessariamente alla larga.
Oggi il Christmas album è qualcosa che sta a metà strada tra puro modernariato, come la Lambretta o la Dyane, e bieco giochetto pseudosituazionista che non interessa più a nessuno, manco di striscio, manco a volerci trovare per forza pretesti meta/post-qualcosa di qualsivoglia forma e maniera (Sufjan Stevens soltanto l’ultimo esempio che mi viene in mente in ordine di tempo – ciarpame, naturalmente, come del resto qualsiasi altro mai inciso abbia anche solo lontanamente a che fare con renne, slitte, campane e neve, nel senso di cristalli di ghiaccio); perché di pretesti oltre il cattivo gusto e il non saper vivere non ce ne sono, mai ce ne sono stati, mai ce ne saranno. È brutta musica per brutte persone e stop, roba che negli Stati Uniti magari qualche gonzo lo spreme pure ma ad altre latitudini fa solo pena quando va bene, lascia indifferenti quando va come deve andare. L’evoluzione della specie ha i suoi contraccolpi benefici, comunque sempre troppo tardi.
Cold fact: è il 2014 e l’album di natale fa parte di un precipitato di tempi orribili ormai lontani ere geologiche. Chiaro altri ne sono arrivati a sostituirli, gli scenari ben più cupi in senso generale, la linea di demarcazione tra sostenibile e inaccettabile, tra sensato e farsesco da parecchio del tutto indistinguibile; il lato positivo è che un A Very Special Christmas ora nessuno lo infila più su per il culo a nessuno, a meno di cercarlo e volerlo scientemente. Questo non è un problema mio.
Il Christmas album di Mark Kozelek era il tassello mancante dell’inarrestabile gara al ribasso che è la sua carriera da dopo il 2003: parassitismo autofago della peggior risma, i remi in barca e pilota automatico attivato 24/7, ogni tanto qualche infinitesimale colpetto, sussulti di vita rari e lontani l’uno dall’altro, che portano ciclicamente a ricominciare a sperare che il bombardamento psichico prima o poi torni a regime; ma sono alla meglio spasmi in un quadro generale che sta sul rigor mortis già da mo’, la linea resta piatta, campare di rendita su trascorsi che erano e restano enormi, non importa quanta sia la merda che continua a scaricarvici addosso con sprezzo del ridicolo a dir poco hughesiano, l’equivalente del peso specifico di dodici pianeti non riuscirebbe a sommergere un solo secondo di Down Colourful Hill, Rollercoaster, Bridge, Ocean Beach e tutto il resto, ma proprio tutto, fino a Ghosts Of The Great Highway compreso. Dopo, la merda vera, trend che non si inverte, patetico tirare la carretta al fienile a forza di dischi acustici, cover album peregrini, tour in solo (pagare musicisti costa), live album del tour in solo, altri dischi acustici e via, si ricomincia. Prossimo step il film di Sorrentino, e il cielo non è più un limite.
You know, things change, rearrange… they really do. Oppure, come mirabilmente disse Harvey Williams: What does this leave me?
A volte vorrei non aver mai conosciuto i dischi dei Red House Painters, davvero. Poi riaffiora spontaneo il ricordo della prima volta che ho ascoltato Grace cathedral park e mi pento di aver formulato quel pensiero. La bruttura però rimane, tanta, troppa, e aumenta esponenzialmente. Chi ascolta Mark Kozelek oggi arriverà mai a rendersi conto di cosa è stato? Anche questo non è un problema mio. Quanta amarezza, comunque.