Ephel Duath – On Death and Cosmos EP (Agonia)

Il nuovo EP degli Ephel Duath è un normalissimo disco di math-noise depresso con un growl monocorde di Karyn Crisis a far le veci di –boh- le cantilene torturate di un Eugene Robinson e a creare parentele con cose tipo i Death. Lo diciamo in apertura perché uno degli sport preferiti dei fan degli Ephel Duath, ammesso che ne conosciate qualcuno, è di descrivere il nuovo album del gruppo rompendo la voce ed iniziando a salivare in modo tipo è… è… non lo so, tipo, è… è diverso da tutto, devi ascoltarlo. Il che ha reso gli Ephel Duath la quintessenza del gruppo il cui valore artistico reale corrisponde incidentalmente alla media matematica tra chi li considera il gruppo più sottovalutato della terra e chi li considera il gruppo più sopravvalutato della terra. Sarebbe anche divertente, e sempre meglio esser medi che fare schifo, ma tutta la faccenda sta andando avanti da una dozzina d’anni e una mezza dozzina di formazioni, con qualcuno che sta ancora aspettando il loro Reign in Blood. Quindi ecco, almeno sapete che quando ai tipi gli s’inizia ad asciugare la bocca nel disperato tentativo di descrivere il nuovo Ep degli Ephel Duath, stiamo parlando di un normalissimo disco di math-noise depresso con un growl monocorde di Karyn Crisis a far le veci di –boh- le cantilene torturate di un Eugene Robinson e a creare parentele con cose tipo i Death.

 

Il più grande problema degli Ephel Duath, cioè di Davide Tiso (sostanzialmente da sempre l’unico depositario del marchio) è il fatto che abbiano sempre venduto la loro musica come il risultato di un torturatissimo processo di autoanalisi e/o di una costante lotta contro un sistema di prevaricazioni preconcetti pregiudizi e sfighe, un selling point basato (immaginiamo) sull’erronea convinzione che il loro pubblico potenziale sia composto per il 75% da persone che nella loro vita hanno ascoltato solo thrash o death o black metal, e cioè che in altre parole chi sta contro gli Ephel Duath sia gente che non ha sufficiente apertura mentale per stare con. Il secondo più grande problema degli Ephel Duath è che la musica prodotta dagli Ephel Duath (ed è bizzarro ammettere a me stesso che per un motivo o per l’altro ho ascoltato tutti i dischi del gruppo), non è mai stata abbastanza buona da sostenere questo approccio, altrimenti nota come sindrome di Steve Austin. Che poi in realtà sugli Ephel Duath non stiamo nemmeno qua a sindacare, voglio dire, ognuno è liberissimo di fare la musica che preferisce e persino considerarla la cosa più eccitante mai creata da un essere umano. La grana più grossa di tutta la faccenda è che ho vissuto per quasi dieci anni senza sentire una singola nota dalla cantante che più ho amato nei miei vent’anni, e d’improvviso mi ritrovo davanti una Stefania Pedretti qualsiasi. Quale possibilità ci possono essere a questo punto per il suo primo disco solista, con lo stesso uomo ai comandi e voci che lo danno riregistrato tre o quattro volte? Difficile a dirsi.

L’assioma di Bart (Today is the Day: esce un disco nuovo)

Ai tempi del disco omonimo, Stefano Isidoro Bianchi scrisse “metallaccio gotico senza il benché minimo senso del ridicolo”. A quei tempi Blow Up era ancora una fanzine e i Today is the Day erano ancora un gruppo AmRep. Quando la lessi non la presi benissimo, erano una delle mie cose preferite nel mondo della musica in generale. Steve Austin, uno sfattone di Nashville con una chitarra in mano e una crisi depressiva in corso, era uno dei più poderosi interpreti che il noise e il metal avessero mai conosciuto, uno che in ogni pezzo dava l’idea di essere sul punto di morire davanti al microfono. Il suono era un coacervo di stili buttati più o meno a caso dentro il marasma generale di un impianto –sostanzialmente- chitarristico che anche in mezzo al roster Amphetamine Reptile faceva paura per quanto era sferragliante e fastidioso.

Non poteva andare avanti per sempre, alla fin fine i gruppi di questo tipo son tutti destinati a diventar macchiette o a morire dentro la loro musica nel giro di due o tre dischi. Steve Austin ha sgraffignato un contratto Relapse e ha provato a normalizzare il proprio suono. Siamo alla fine degli anni novanta, la gente inizia ad aver voglia di lentezza esasperata e di nuove declinazioni post applicate a certo doom metal. Esce fuori un disco nuovo che si chiama Temple of the Morning Star e nel suo maldestro tentativo di suonare più classico diventa il miglior album della loro carriera, un capolavoro di scrittura schizzata e priva di senno. Il successivo In the Eyes of God è poco meno bello.

Da qui in poi Today is the Day è uno dei nomi più caldi in commercio. Il metal estremo si sta muovendo verso di loro, i Neurosis sono diventati un genere musicale a se stante e tutto sembra indicare che il loro prossimo disco sarà uno dei contributi definitivi del genere. Steve Austin, ormai da tempo l’unico tenutario del marchio, è chiuso in studio da un disastro di tempo e sta sperimentando nuovi formati. Relapse dà alle stampe il doppio CD Sadness Will Prevail nel 2002. Il disco si rileva un ignobile coacervo di stili ed influenze nel quale lo standard Today is the Day (già di per sé molto meno complesso di quel che era in Temple) viene annacquato in un brodo di variazioni sul tema, filler pretestuosi, sfoghi strumentali gratuiti da venti minuti a botta, pose da gesù cristo sceso a immolarsi per i nostri peccati e arie da dissociati della domenica che ricordano molto da vicino le peggiori pose di Devin Townsend. Steve Austin passa da idiot savant del noise metal a involontaria macchietta nel giro di un disco. Il periodo è troppo favorevole alla band per poter generare un qualsiasi tipo di dissenso: la critica butta fuori recensioni entusiastiche scritte col pilota automatico, il marchio TITD entra nella lista della spesa di qualche metallaro DOC e sono quasi tutti contenti come delle pasque.

Nove anni dopo siamo agli sgoccioli. Steve Austin ha ridotto il proprio impianto sonoro ad un industrial-doom-core di bassissima lega (metallaccio gotico senza il benché minimo senso del ridicolo, appunto) che starebbe bene sì e no in un disco Hydrahead del periodo crisi nera, buttato sul mercato due dischi orribili (Kiss the Pig e Axis of Eden, patetiche risciacquature di piatti della parte “core” di Sadness, declinate in maniera leggermente più sludge) e cambiato la formazione della sua band fino a far comparire sulla voce Wikipedia del gruppo una lista di ex-membri di QUINDICI PERSONE. Il prossimo disco della band esce ad agosto per l’etichetta del cantante dei Red Chord, si chiama Pain is a Warning, ha una copertina dispensabile e dall’anticipazione in streaming su Soundcloud che trovate qui sotto (la quale si chiama Expectations Exceed Reality, probabilmente dedicata a chi continua a pensare che Steve Austin sia un genio) non ha intenzione di cambiare rotta.

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PS: questo pezzo non è necessariamente la verità, è solo una cosa che penso. Per un parere più illustre e costruttivo vi consiglio questa pagina.

QUATTRO MINUTI: A Storm of Light – As the Valley of Death Becomes Us, Our Silver Memories Fade (Profound Lore)

VIA
Il primo A Storm Of Light ci piaceva anche se non era un granchè: i motivi sono sostanzialmente due, cioè che 1 era molto meglio di come l’aveva dipinto la critica (la quale s’era accanita in un modo davvero allucinante, considerato il fatto che era un disco del giro Neurosis) e 2 VINNIE SIGNORELLI. Il secondo disco degli A Storm of Light era più o meno la stessa roba con meno verve. Nel frattempo il consenso popolare verso il giro Neurosis stava continuando a scemare, giustamente peraltro. Il presente è un’altra raccolta senza un perché, con meno verve ancora, un paio di componenti più irragionevolmente anni settanta e VINNIE SIGNORELLI ancora alla batteria. Va bene fare il tifo, ma già il precedente abusava della nostra pazienza. Boh. Però il titolo è molto lungo e molto goth metal.
STOP

gruppi con nomi stupidi: SAILORS WITH WAX WINGS

LO SO che il disco dei Pyramids è un disco stupido e/o (probabilmente) una ciofeca, ma non riesco a non andarci fuori come un bambino. Davvero. Per prima cosa, nella gamma dei comportamenti possibili di un gruppo contrattato da Hydrahead nell’ultimo lustro, la modalità incido un disco pensando a come lo inciderebbe Kevin Shields nel ’93 dopo aver cacciato via a calci in culo tutti gli altri My Bloody Valentine e senza prendermi il disturbo di scrivere prima le canzoni è molto meglio di provo a declinare il classico suono grosso/pulito/doomcore alla neurisis cercando di venderlo come un approccio inedito e/o aumentando di un altro po’ la lunghezza dei pezzi, o anche di ho sciolto il mio gruppo figo e ho messo in piedi una formazione a due per agganciare qualche metal-minimalista. Comunque sia, era il classico one-shot. Copertina figa, psichedelia marcissima senza senso, affanculo gli A Place to Bury Strangers, anche a me piace l’ultimo Justin Broadrick e tutto il resto. Una specie di dichiarazione politica. Sta lì da una parte, pronto ad essere considerato – non necessariamente ascoltato- ogni volta che devo dimostrare che mi piace anche qualche gruppo che è uscito dopo il 2005.

Il che naturalmente, giusto per non ottemperare al sacro diktat dei professionisti del settore ADSL che dividono quasi tutto in capolavoro assoluto o nefandezza, non significa che ogni altro disco che i Pyramids manderanno in terra sarà una rivelazione o la testimonianza di un’attitudine sincera e perfetta. Non sono abbastanza fighi per riuscire a dir fregnacce sui loro dischi. Tutto questo per preparare il pubblico all’ingestibile emozione causata dal fatto che il principale gestore del marchio Pyramids, un bruciato di nome R.Loren, ha già messo in piedi uno spin-off solista chiamato, e qui voglio sentire la cazzo di ola, Marinai con le ali di cera. In originale Sailors With Wax Wings, o più amichevolmente Sailors WWW (probabile informale omaggio al concetto di download illegale, così utile quando parliamo di side. Qualsiasi cosa significhi il nome, c’è un disco in arrivo e puzza di cazzata lontano un chilometro. I due indizi che mi permettono di dirlo:

  • la camionata di ospiti previsti, come in tutti i dischi impostati sul timbrare il cartellino dell’avant-post-apocalittico: Prurient, Ted Parsons, James Blackshaw, l’ovvio Aidan Baker, persino -cristo- Simon Scott, Marissa Nadler, gente degli Unwound,
  • il pezzo su Stereogum, anteprima del prossimo disco, un pachiderma di sette minuti che più Jesuiano di così è impossibile.

Magari il disco intero è meglio, ma allo stato attuale non credo che ci sia da stare alzati finchè non arriva. Sarò prevenuto.