Il leak è saltato fuori presto, molto presto, tanto che ancora prima di Natale praticamente chiunque era già in grado di esprimere un’opinione circostanziata su Angels of Darkness, Demons of Light 1, che esce ora. Angels of Darkness, Demons of Light 1 è il nuovo disco degli Earth, il terzo dopo la svolta western mentale operata nel traumatico Hex; Or Printing in the Infernal Method del 2005, in mezzo una marea di live album, ristampe, EP di pezzi vecchi risuonati con lo stile nuovo, qualche sciccheria per collezionisti matti (lo split coi Sunn O))) per il tour del 2006, 2000 copie in vinile dorato, l’allucinogeno remix album Legacy of Dissolution, ancora 2000 esemplari in vinile multicolore) e soprattutto l’ottimo The Bees Made Honey in the Lion’s Skull, ancora più terrigno, muschioso e malsano fin dal miasmatico artwork, opera dello spinellante Arik Roper e del jeffminteriano Seldon Hunt, un capolavoro di devianza e desolazione stepposa da acido salito male durante la visione dell’opera omnia di Sergio Leone, mandato in orbita dall’ospitata di Bill Frisell in assetto sciamanico da far salire le paranoie anche alla buonanima di Jerry Garcia.
Angels of Darkness è la logica prosecuzione di tutto questo, nonché probabilmente l’album che più di tutti mette a fuoco la visione di Dylan “I mean” Carlson, sempre più ossessivamente perso in una wasteland polverosa e leonesca, un’ancestrale cosmogonia di città fantasma, miniere abbandonate, saloon deserti e praterie incolte in cui continua a vagare senza requie come Charlton Heston in Occhi Bianchi sul Pianeta Terra ma senza i vampiri e in generale senza altri esseri viventi in giro, al massimo qualche foto ingiallita di cowboy sporchi di tabacco e merda di vacca e pionieri coi baffi morti da secoli. È un west malvagio, arido, mortifero e perversamente languido, che così com’è esiste solo dentro la sua testa; nessuno lo abita e nessuno vorrebbe entrarci, eppure se ne resta ammaliati, rapiti da una serie di trenodie che sembrano la musica preferita di mandriani agonizzanti e cacciatori di taglie condannati a un eterno peregrinare in un non-luogo da qualche parte tra la Valle della Morte e le pieghe più oscure dell’ultimo dei film perduti di John Ford. L’innesto di Lori Goldston (al violoncello e ‘devices‘) contribuisce a rendere la musica qualcosa di molto simile a un incrocio tra i Rachel’s presi male e il Morricone del periodo western però nel pieno di una crisi depressiva devastante, il tutto con il flow di uno sciamano pazzo che ha appena fatto indigestione di peyote; la title-track, posta in conclusione e frutto di una lunga jam quasi interamente improvvisata, poteva essere un MATTONE (dura venti minuti e rotti), senonché a ben vedere è il pezzo meno bello del disco. Tutto quello che viene prima, in compenso, è roba che farebbe venire voglia a John Wayne di resuscitare solo per il gusto di poter ammazzarsi. Artwork misterico di Stacey Rozich e mixaggio finale di Stuart Hallerman (che tra le altre cose aveva già lavorato con Carlson ai tempi di Special Low Frequency Version, ma non si nota affatto). Per una volta vivamente consigliata la versione in vinile, dal momento che il disco è stato registrato interamente in analogico.
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STREAMO: Pontiak – Living (Thrill Jockey)
C’è solo un modo per spiegare i Pontiak. Cioè farlo fare a dj Pikkio.
E’ stoner? no E’ psych? no E’ drone? no E’ blues? no E’ acidone? no
E’ SGRATTOA-RUSTY. E solo i Pontiak lo sanno fare, anzi si può dire che l’hanno inventato loro questo genere. Che poi non è un genere, ma è una categoria di suoni e atmosfere che si possono trovare nel ROCK. Anzi no non l’hanno inventato loro, lo Sgrattoa-Rusty, però Pontiak sono gli unici che hanno riconosciuto per davvero questo suono, così ci si sono incaponiti al punto tale di basarci l’intera loro carriera.
Cos’è Sgrattoa-Rusty? E’ un concetto semplicissimo, prendete una chitarra distorta del Neil Young elettrico anni ’70 con quel suono saturo, ma anche cordoso e sgrattoso, un suono che coscientemente o meno è stato poi ripreso da gruppi molto amati anche qui dentro tipo i Dinosaur Jr. Bene quel suono è la base di Sgrattoa-Rusty. Negli anni questo suono è rimasto sempre una questione che riguardava i chitarristi delle varie band e non tutta la band, ma soprattutto era una questione risolta inconsapevolmente, al massimo si dicevano “mi ispiro alle chitarre Younghiane”.
I Pontiak invece prendono lo Sgrattoa-Rusty sapendo perfettamente cosa è e lo fanno loro. Tutti loro tre quando suonano diventano un’unica entità Sgrattoa-Rusty, ovvero Pontiak. Basilare infatti è la loro relazione di fratelli uno uguale all’altro, tant’è che sentirli sul nuovo disco (Living, terzo capolavoro di fila), così pieno di spazi vuoti e pieni acidissimi, sembra l’opera di una sola persona che suona contemporaneamente basso chitarra e batteria. Pure la voce pare quella di una sola persona che si triplica. E’ questa unicità che fa di Pontiak l’unico vero rappresentante dello Sgrattoa-Rusty, questo essersi ritagliati uno spazio nel rock sfattone approfondendo quei crepitii degli ampli che tanti cercano di mascherare tramite assoli virtuosi ed effetti a palla (gente hardpsych) o di imbrigliare in soluzioni squadrate (robe tipo Shellac etc.). E’ la stessa cosa che fecero i Kyuss con il sound Black Sabbathiano, decisero di approfondire solo l’aspetto più fisico e d’impatto, solo le frequenze muffose e bassose, solo la trance di quei suoni, e quella roba la chiamarono Stoner e divenne pure moda*. I Pontiak quest’operazione la fanno col suono dei grilli di campagna che scrocchiano alternato alla potenza di una visione della stessa campagna con il suo cielo enorme. Neil Young questi elementi li ha usati solo come contorno per elevare sua espressione, i Pontiak invece li incarnano tramite la fisicità dei loro strumenti. Tant’è che se Maker era il sole pieno in faccia, Sea Voids umidi cigolanti movimenti marittimi, Living (il disco in streaming che ascolterete) è la notte in una campagna aperta, con i tre che musicano i vari momenti: il buio, le luci, gli odori, animali, focolare, mangiare grilli etc. ma in maniera dura, non è roba trallalllin post Animal Collective (lo sottolineo per chi non conoscesse i Pontiak) è più roba tipo che stai li e basta. E’ la durezza del tutto. Ma non la durezza della vita, lo sconforto, la sconfitta, no niente di tutto questo, quella è roba di gente che vuole sfogarsi (amo) o che fa poesia (no), gente che ignora/controlla il suono o lo adultera e non di gente che è Sgrattoa-Rusty. Living (l’album che andrete ad ascoltare) è proprio LA DUREZZA DEL TUTTO. THIS IS LIVING! E basta.
* La moda non verrà lanciata invece nel caso Sgrattoa-Rusty/Pontiak perché tutti sono convinti che tutto è già stato detto o fatto e preferiscono rifare gli Spacemen3 o la California. BELLA PE NOI.