PITCHFORKIANA (the POPPONI issue): The Vickers, Aucan, PJ Harvey, Bright Eyes

THE VICKERS – FINE FOR NOW (Foolica)
Parte come la risposta italiana ai Phoenix, palese caso di risposta giusta a una domanda sbagliata. Continuano come una specie di bignamino di tutto quel che fa indiepop oggigiorno, garage solarissimo meets vampire weekend meets tutto il resto. Probabilmente non durerà negli anni, ma ieri era il primo giorno di sole da un bel pezzo a questa parte e io col disco dei Vickers ci sto bene. 7.1

AUCAN – BLACK RAINBOW (Africantape)
Un pastone alt-IDM-trip-scranno in cui entra più o meno tutta la musica in commercio. Rockit li definisce i nuovi Zu, probabilmente perché sono amici (sia degli Zu che di Rockit, immagino). Non è vero, naturalmente, ma quando gli entrano i pezzi BOTTA il disco è una figata. Per il resto del tempo sembra più una cosa di allungare il brodo e prendersi la soddisfazione di aver suonato, boh, un pezzo alla Portishead. 6.2

PJ HARVEY – LET ENGLAND SHAKE (One Little Indian)
Ad ogni nuova uscita di PJ Harvey -questo almeno da Uh Huh Her, che è stato strapromosso per evitare di cadere nell’errore dell’accoglienza non estatica di Stories From The City– una buona metà dei critici musicali interessati all’argomento parla di resurrezione dopo un periodo opaco, mentre l’altra metà preferisce star zitta e occuparsi d’altro. Non trovate quasi mai qualcuno che parla di periodi opachi al presente riguardo a PJ Harvey. Io ho la sindrome contraria, ovviamente: rimestare il suo passato per fare una scrematura di ciò che faceva schifo nei dischi di PJ anche quando i dischi di PJ erano la cosa più figa e importante che ci raccontavano essere successa sul pianeta terra. Nel frattempo, dicevo, escono dischi nuovi. Io per valutarli faccio prima una cernita di quanti ne parlano bene come, poi me li ascolto giusto per vedere se i miei sospetti sono fondati. Prima o poi troverò il coraggio di dargliela su senza manco ascoltarmi il disco, e quel giorno pioveranno confetti per le strade. 5.3

BRIGHT EYES – THE PEOPLE’S KEY (Saddle Creek)
Vedere con quali dischi stia continuando ad arrancare il cantautore a cui manco dieci anni fa veniva prudentemente affibbiato il nomignolo di nuovo Bob Dylan è commovente. D’altra parte Conor Oberst ha fatto intendere -a quanto ne so- che non ci saranno dischi di Bright Eyes dopo The People’s Key, il che non viene incontro al nostro desiderio di non avere dischi di Bright Eyes nè prima nè tantomeno durante il suddetto. Ok, Lifted era un bell’album. 3.4

piccoli fans: MOORO

Qualcuno dice che la fidget house é uno stile di house music che incorpora altri stili dance, principalmente impastati da influenze rave, breakbeat e UK garage. Altri orecchiano di preponderanti influenze tech-house, assieme a bizzari sample e ad un incessante ritmo funky. La struttura di questo nuovo genere sarebbe costituita da sequenze 4/4 , piuttosto frammentate e di stile glitch se contrapposto ad altri generi dance ma la maniera per la quale differisce da questi è l’andamento zompettante della cassa, quasi sempre associata al basso nella battuta, così incoraggiando sequenze tagliate, preferendo inoltre uno stile di mixaggio maggiormente nervoso e frammentato.
L’ho presa da qui. Io ho questo problema che pur avendo la tipica scimmia elettronica d’accatto dell’indierocker anni novanta (che significa sostanzialmente che nella mia vita ho comprato dischi Warp, DFA, hip hop a caso, Daft Punk etc, Gigolo e svariati altri dischi rappresentativi di tutta l’immondizia che andava di volta in volta nel corso degli anni) non riesco a distinguere i generi (tantomeno i sottogeneri). Quindi se leggo qualcosa su un sito internet lo prendo per buono. Se dite fidget io penso a robe tipo Crookers e Bloody Beetroots (ho scoperto recentemente che non li odio poi così tanto, tra le altre cose). La storia del giorno, cioè di un paio di giorni fa, è che Jacopo Battaglia e Giulio Favero (dei quali sapete tutto), assieme all’Aucan Giovanni Ferliga, sono usciti con un progetto fidget, o quel che è: musica da cassa crassa suonata da gente che sa suonare, che per l’occasione si è ribattezzata (rispettivamente) Jake Mathman, George Gabber e John Fear Liga. Il nome del gruppo invece è Mooro, o m66r6 che dir si voglia -non faccio differenze ex-ante. Roba a volte palesemente suonata (un poco alla Shy Child), a volte più sfumatamente elettronica. Ascoltando i pezzi che la band ha piazzato su myspace provo questo senso di goduria colpevole come se stessi scaccolandomi una narice da venti minuti avendo cura di non spezzettare il caccolo manco per sbaglio, lavorandolo progressivamente ai bordi con pazienza e certosino impegno, fino ad ottenere il naturale distacco di un mostruoso anello verde macchiato di sangue rappreso delle dimensioni della testa di Steve Aoki. Suppongo che per un gruppo che si pronuncia MURO sia più che altro una questione d’imprinting. Suppongo anche che un Giulio Favero, uno che lavora alle sue condizioni o manda tutto in culo, dia a tutto il progetto quel nonsochè di paradigmatico. Rimango ad aspettare le novità e vedo se ®iesco a trovare su facebook quel mio amico delle medie che avevano ingabbiato per spaccio di paste.
PS: non so bene perchè, ma parlare di beat dopo aver visto Zekkini attaccato alla transenna (e tranquillissimo) ieri sera al concerto dei !!! mi sembra solo giusto.