L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 24-30 ottobre 2011

prepararsi per il week-end

Se avete passato una domenica di merda perché hanno asfaltato Marco Simoncelli farete meglio ad aver preso la prevendita per gli Alter Bridge qualche millennio fa altrimenti il vostro lunedì sarà ancora peggiore: il concerto è sold-out da settimane e senza biglietto è perfettamente inutile che vi presentiate alla cassa dell’Estragon, rimarreste comunque fuori mentre circa milleottocento tamarri del tutto privi di gusto o di coraggio o di vita sono dentro a Celebrare. Meno male che al Clandestino ritornano Gentlemen & Assassins dopo aver già raso al suolo tutto quanto al centocinquantenario dell’unità d’Italia… come l’altra volta: ingresso gratuito, via al massacro dalle 22 circa. Prima o poi alla Morena bisognerà dedicare una strada o una piazza… Martedì si celebra the late great Mauro Mingardi (cineamatore dilettante per scelta e grande Uomo per vocazione) al Modo Infoshop con la proiezione di uno dei suoi capisaldi, Vita d’artista (dalle 21.30, tutti i dettagli Qui); non è un concerto ma fa rumore uguale. Mercoledì MeryXM in documentario + jazz fattanza, gratis dalle 20.30, che te lo dico a fare… e giovedì ancora XM24 con il release party degli Antares (gratis dalle 22), devasto… Ma non fatevi frantumare tutti gli ossicini nel pogo, perché venerdì e sabato scatta una due giorni psichedelica da far tremare i polsi anche a Tim Leary e convertire alla via dell’LSD anche Ian MacKaye, Ray Cappo, Henry Rollins, chiunque: venerdì Al Doum & the Faryds e Nau & the Green Panthers sono in città per un secret show che al confronto Matteo Guarnaccia diventa un travet daltonico (Per informazioni: blackmoss@libero.it e/o 320 2315886), e sabato all’XM24 prima serata “Brain Expanders” con PIVIXKI (ovvero il virtuoso del piano Anthony Pateras e la leggenda vivente grind Max ‘Crumbs‘ Kohane alla batteria) e Marco Fusinato (gran bailamme per chitarra maltrattata) dall’Australia, Karl Marx Was a Broker (delirio di basso e batteria da spettinare i Lightning Bolt), Fannullare duo (centrifuga di strumenti autocostruiti e pazzie analogiche assortite) + very special guests, dalle 22, quattro euro e sarà allora che la vostra testa esploderà!!! Per friggere definitivamente gli ultimi neuroni rimasti poi domenica di nuovo al Clandestino, mercatino dell’usato e a seguire concerto degli Ahleuchatistas (gratis, dalle 22), e chi ha più bisogno di droghe…

 

venerdì

sabato

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 3-9 gennaio 2011

Le previsioni meteo per il 4 gennaio danno freddo e gelo intenso ovunque, specie al centronord, con nubi su alta Lombarda, ovest Piemonte e ovest Liguria.

 

Il primo concerto del 2011 è di quelli molesti: questa sera al Clandestino, gratis dalle 22.30, arrivano i Child Abuse. Loro appartengono alla nuova ondata di gruppi newyorkesi rumorosi, ovviamente depravati e con in mezzo almeno una tastiera tagliente, suonano a volumi altissimi e con una foga che diresti metal se il metal fosse una cosa chic da galleristi di SoHo; ma dal vivo aprono il culo, per cui vedete di superare i postumi di capodanno e lo scoglionamento cosmico da primo lunedì dell’anno e alzate le chiappe dal divano, per meditare il suicidio avrete tutto il tempo martedì che non c’è un cazzo da nessuna parte. Mercoledì non mi risultano festini aggressivi degni di nota ma potrei sbagliarmi, per ora l’unica cosa che so è che all’Arterìa suonano i Testadeporcu alle 23: prevaricazione e fomento (se avete in animo di spaccare la faccia a qualcuno) assicurati per tutti. Giovedì è come martedì, ovvero il vuoto totale. Venerdì 7 chiudete in casa le bambine, al Locomotiv arriva Federico Fiumani (inizio concerto intorno alle 22, otto euro più tessera AICS), a seguire dj-set anni ’80 con gli storici resident dello Small di Cento (Mortimer, Tetro e Max Peccia): formidabili quegli anni (per i giovinastri invece ci sono i Does It Offend You, Yeah? al Covo). Sabato Estragon Lab night dalle 21, i gruppi non sono un gran che ma è gratis è c’è Bologna Violenta (e, uh, in giro non c’è altro); poi a letto presto per essere belli freschi e riposati domenica, riapre l’XM24 con la bellicosa Donnabavosa Fest 5 di cui potete ammirare qui sotto lo psichedelico flyer in tutto il suo splendore.

 

STREAMO: ZEUS! – ZEUS!

Dica: "AAAAAAAAAAAAAAAAAH".

 
ZEUS! è il progetto del metallante bassista dei Calibro 35 Luca Cavina e dell’irsuto batterista dei Rebelde Paolo Mongardi. Insieme generano una potenza di prog-math-metal ignorante alla vecchia, come un ipotetico incrocio tra Lightning Bolt, Flying Luttenbachers ma con un batterista umano, Genghis Tron ma senza la vocetta fastidiosa (Deo gratias), i primi dischi di Greg Ginn solista (ma, uh, senza la chitarra) e, ma sì, mettiamoci pure gli Zu che altrimenti gli intellettuali coi baffi non cagano la mossa. Suonano spesso in giro (questa sera a Genova), dal vivo sono un delirio e il disco (che uscirà a settembre) cattura solo parte della grandezza dei loro tellurici live. E già così è una botta micidiale: un’orgia di cambi di tempo e frequenze fastidiose (sentirlo in cuffia è un’esperienza mistica), ogni tanto qualche urlaccio filtrato che non conserva quasi più nulla di umano, titoli da esplosione immediata del cranio modello “Scanners” (in un sussulto di decenza mi limito a citare soltanto la tripletta iniziale: Suckertorte, Grindmaster Flesh e Koprofiev, nientemeno), una copertina che è il sogno bagnato di un otorinolaringoiatra perverso, qualche spolveratina di tastiera vintage (courtesy of Enrico Gabrielli) nella morriconiana Ate U, un’ombra di theremin (comunque quasi inudibile), e in conclusione gran orgia di shredding mickbarresco così, tanto per essere sicuri di finire anche quei pochi che erano rimasti semistorditi a rantolare nel fango. Veramente bestiale.

Clicca qui per ascoltare l’album in streaming


RUINS alone + SABOT @ Spazio SI (Bologna, 25/3/2010)


(foto presa da qui)

Serata nefasta per un concerto, c’è Santoro al Paladozza. Forse anche per questo sono pochi i temerari accorsi a un appuntamento imprescindibile per chiunque ami farsi massacrare i timpani con criterio: d’altronde non capita spesso che i Ruins (beh, metà Ruins per stavolta) passino da queste parti (l’ultima volta mi pare cinque anni fa a Reggio Emilia, se la memoria non falla), e ancora più raramente un’accoppiata così micidiale si legge sui cartelloni. Quando i Sabot attaccano, probabilmente Luttazzi ha appena cominciato a enunciare la sua teoria riguardante la corrispondenza tra quel che passa per la testa dell’elettore medio di Berlusconi e le tre fasi del sesso anale. Il duo statunitense da decenni ricollocatosi in uno squat nella repubblica ceca era già passato da Bologna diversi anni fa per una furiosa esibizione agli albori dell’xm24; molti dei presenti di allora sono di nuovo qui a rendere omaggio a una delle band più pure, integre e fieramente underground di sempre, al cui confronto persino i Fugazi diventerebbero azzimate rockstars. Il loro personalissimo sound, una strana fusione tra l’hardcore evoluto dell’asse Black Flag-Minutemen, noise jazzato e punk primordiale, un amalgama letteralmente indefinibile per il quale è stato coniato il termine bass’n’drums (in effetti, che altro vuoi dire?) e a cui gruppi come godheadSilo o i nostri Zu devono ben più di un po’, rende decisamente meglio in versione live piuttosto che intrappolato nelle restrittive maglie di un CD (ed è forse la ragione per cui la band stessa nel 2006 ha ristampato praticamente l’intera discografia – da tempo introvabile – in un unico cd di mp3 a 192k, come a ribadire l’importanza primaria del materiale eseguito in concerto rispetto al momento dell’incisione in studio). Temprati da innumerevoli performance (questo è il tour del loro ventesimo anniversario), da incalcolabili assi di palchi calpestati, da centinaia di migliaia di kilometri macinati su furgoncini scassati, i Sabot lavorano ai fianchi, con fulminea improvvisazione e impressionante fluidità, una setlist che comprende tanti loro superclassici (per chi li conosce) stravolti, trasfigurati, scorporati e riplasmati l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, come ectoplasmi deformi in un quadro di Francis Bacon. È incredibile quanto rumore si possa produrre con soltanto una batteria da quattro soldi e un basso con un solo pedale. Pochissime le pause e notevole la visione d’insieme: il bassista Chris Rankin (50 anni il prossimo 1° maggio, celebrati con una festa di compleanno a cui chiunque vorrebbe partecipare) imbraccia lo strumento con la svagata nonchalance di un pedofilo con l’impermeabile all’uscita di una scuola elementare, mentre l’androgina Hilary Binder – l’unico incrocio possibile tra un androide, Meira Asher e un camionista incazzatissimo in libera uscita – si accanisce sui tamburi come se non ci fosse un domani, tanto che a meno di metà scaletta la canottiera militare da Soldato Jane che indossa è già fradicia di sudore. Musica nata per essere marginale, per risuonare tra le pareti dei centri sociali più fetidi dopo lunghe notti di passione e rabbia. Speriamo che i Sabot possano tenerci compagnia per molti altri anni ancora.


(foto di Offset)

Tatsuya Yoshida ha l’aria di un programmatore di software sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Indossa una maglietta arancione più grande di un paio di taglie e pantaloni militari del colore della merda di coccodrillo; si muove con la calma innaturale e la furia trattenuta di un serial killer a riposo che soltanto a costo di sforzi sovrumani riesce a mantenere un contegno. Porta sulle spalle ossute tutto il peso delle deliranti architetture sonore progettate nel corso di una carriera che ha già oltrepassato il quarto di secolo, e ha problemi con la pedaliera e un microfono. Durante il soundcheck si agita e smania e comincio a temere il peggio quando mi rendo conto che userà la stessa cenciosa batteria dei Sabot, e per giunta lo vedo scagliare esasperato una bacchetta sul rullante e andarsene dopo l’ennesimo capriccio della spia che sembra proprio non voler saperne di funzionare. Miracolosamente viene risolto l’inghippo e l’uomo torna sul palco. Si siede dietro le pelli, schiaccia un pedale e… dà inizio a una delle dimostrazioni di violenza e devianza mentale più radicali e agghiaccianti che io abbia avuto modo di testimoniare in tutta la mia vita. Free grind, noise, jazz, polka, opera lirica (…), industrial, prog, math rock, thrash metal e, beh, più o meno qualsiasi altra cosa sia mai stata prodotta da uno strumento qualunque viene triturata passando attraverso quel colossale frullatore umano che è Yoshida, uniche armi braccia gambe la batteria e un Kaoss Pad azionato seguendo criteri manicomiali. Ogni tanto lancia qualche acuto raccapricciante tra una rullata schizofrenica e l’altra ed è tutto lì, il senso di tutto quanto sta proprio in quei terrificanti gorgheggi da castrato strafatto di assenzio che sembrano parlare un’altra lingua, magari la lingua di qualche orribile mostro lovecraftiano che, sommerso nell’abisso più insondabile, da eoni dorme il suo sonno millenario. È roba pericolosa. Roba che risveglia gli istinti più animaleschi e inconfessati. Che istiga a commettere una strage. Va avanti per venticinque minuti, al termine dei quali nessuno oserebbe pretendere di più, e il silenzio arriva quasi come una ricompensa. Un gigante.

Rozzemilia issue #1 – WE ARE CONTRABAND

 

I Contraband sono un duo, basso e batteria, ma non assomigliano ai godheadSilo né ai Ruins e non c’entrano un cazzo con i Lightning Bolt o i Testadeporcu o, beh, più o meno qualsiasi altro duo basso-batteria vi possa venire in mente. Per definire il loro suono hanno coniato essi stessi il termine “hard bass“, che nella pratica corrisponde a un malmostoso incrocio tra noise newyorchese tutto spigoli e incedere quadrato, crossover, hardcore (anch’esso newyorchese), math-rock e drum’n’bass però con strumenti veri; a rileggere la descrizione mi rendo conto che potrebbe sembrare un indigeribile beverone di roba presa di peso dalla prima metà del decennio 1990-99 e malamente riproposta in un rigurgito di reducismo dei più molesti. Sbagliato. I Contraband riescono, non so come, a rendere l’insieme qualcosa di organico, sganciato da riferimenti spazio-temporali (nonostante un loro pezzo, Dexter e la motosega, citi un telefilm di cui ignoro totalmente gli estremi), personale nonostante le molteplici influenze (un altro pezzo si intitola, non a caso, Morphine, come il gruppo del povero Mark Sandman), e soprattutto coinvolgente e trascinante come un moshpit a un concerto degli Integrity. Esordiscono nel 2008 con l’EP DebuttoDiBrutto, registrazione integrale della loro prima uscita live, otto strumentali nervosi, incalzanti e obliqui, eseguiti con furia e precisione di pari livello; a volte il basso ipereffettato sembra la replica dei diabolici arricciamenti di una Roland 303 tirata fino al collasso, mentre la batteria procede con la sicurezza e l’implacabilità di Mike Tyson prima di una sfida con un paralitico.
Nel maggio 2009 registrano nello studio di Roberto Passuti (sorta di Jack Endino bolognese però più storto) le tracce del debutto a lunga durata Hard Bass Guerriglia, che esce a dicembre. Aggiungono la voce, che rende l’incedere dei brani meno monolitico ma viene servita da testi (in italiano) a volte non all’altezza, rendendo l’esperimento, per ora, riuscito a metà; a prima botta i momenti più letali rimangono le versioni “definitive” di Ci sta sul cazzo quando dicono che assomigliamo a qualcun altro, Sensoinverso, Morphine (roba già presente nell’EP, qui reincisa) e la terremotante Musefighters, tutti strumentali. Abituatisi ai testi, si insinuano inesorabilmente nella memoria le feroci reiterazioni de La crisi, le grottesche distorsioni de L’antipasto, le cupe tessiture di Nero, la riottosa trasfigurazione di Urlo negro (classico minore del beat italiano dei carneadi Blackmen), le basiche dichiarazioni di intenti di 120 e Propaganda. Hard Bass Guerriglia è acquistabile via iTunes, oppure “fisicamente” attraverso il sito o al Disco D’oro di Bologna. L’artwork, onirico, perturbante e sinistramente antropomorfico, è di mio cugino (non sto scherzando).