Parlando da una prospettiva gnoseologica il progetto OFF! si basa su una concezione celebrativa retrograda e se vogliamo pure un po’ fascista: quella di prendere un impianto accacì californiano primi anni ottanta (primi Black Flag, Circle Jerks etcetera) e riproporlo uguale identico nei nostri tempi, mimandone passo passo l’estetica e le liriche senza curarsi manco un briciolo di quali possano essere le implicazioni politiche (nessuna) e ideologiche (poche e noiose) di risuonare questa roba oggi. L’analisi più superficiale (e al contempo più gettonata, il va sans dire) dell’affare-OFF! è quella secondo cui il gruppo rompe il culo a tutti i giovanotti di oggi nonostante sia guidato da un sessantenne. Un mucchio di fandonie, naturalmente, dovute più ad un complesso meccanismo d’incastri tra canoni interpretativi –primo tra tutti l’impellente bisogno di dire ogni due settimane che una certa cosa è punk, tipo Miley Cyrus che s’infila un microfono dentro la fica- che al puro e semplice desiderio di raccontare un mondo.
Ricomincio da capo, sento che sto sparando idiozie. Gli artisti che hanno tirato fuori il massimo dal punk/hardcore anni ottanta sono quelli che hanno praticato seriamente lo sport dell’autodistruzione e della negazione del sé ad ogni costo, tipo Darby Crash, e quelli che si sono seduti su un furgoncino a diciannove anni e -per una serie di motivazioni che vanno dal non allineamento all’idiozia e all’etica del lavoro- stanno ancora lì col cofano aperto a cercare di capire come farlo arrivare alla prossima città (alla Mike Watt per intenderci). Le storie degli uni e degli altri sono canovacci narrativi abbastanza noiosi, si abbeverano tutti alla stessa fonte originale, un periodo di cinque anni a dir molto in cui la gente organizzava concerti di gruppi accacì per una trentina di ragazzetti, di cui esistono centinaia di declinazioni geografiche e cronologiche. Il progetto OFF! è interessante nella misura in cui prende quell’esatta estetica (non un pregevole rip-off di quell’estetica aggiornato ai nostri giorni) e la ripropone oggigiorno pari pari, con un impianto promozionale piuttosto grosso a fare da cassa di risonanza e una serie di persone giuste ad ascoltare.
La musica degli OFF! è buona musica condita di sottotesti piuttosto pittoreschi. Keith Morris canta storie di frustrazione a-politica con cui non sarei riuscito a entrare in sintonia manco a diciannove anni, figurarsi a trentasei, però è abbastanza chiaro che le sta cantando per me e che in una certa misura ci crede. Si tratta in ogni caso di un individuo che è finito dentro all’accacì a causa di una passione piuttosto insana per il rock’n’roll dozzinale e represso, un clichè umano con dodici dreadlock in mezzo a una pelata devastante. I musicisti che lo accompagnano sono gente del giro Hot Snakes/Burning Brides/etcetera. Gli OFF! escono su Vice Records, hanno video di kung fu interpretati da Jack Black e copertine disegnate da Pettibon e il disco nuovo in streaming sul New York Times: hanno un piede nel più autoindulgente rigurgito accacì della storia contemporanea (roba che al confronto gli Agnostic Front di Something’s Gotta Give sembrano i Nation of Ulysses) e l’altro in una seria missione re-introduttiva di quell’estetica in un mercato contemporaneo, nel quale si inseriscono in una maniera molto più chiassosa e sfasciona di quanto avrebbe senso per un gruppo di pensionati o per un gruppo punk in generale. Ascoltare i dischi degli OFF! può essere fatto in modalità cazzeggio, ma è comunque un cazzeggio con implicazioni etiche/estetiche molto diverse da quelle che stanno alla base della modalità cazzeggio con cui riascolti i dischi dei Blink 182, e paradossalmente ti fa sentire un po’ meno sporco di quando passeggi coi dischi dei Void in cuffia.
(senza contare quanto ci si sente leggeri a sentire gli OFF! in confronto allo schifo che ti sale a rimettere sul piatto i primi Black Flag, o ad andare a vederli dal vivo invece che andare a vedere qualsiasi altra reincarnazione del gruppo)
Ed è difficile dire a questo punto se gli OFF!, la loro semplice esistenza, il loro relativo successo e l’indiscutibile bontà della loro musica siano parte della soluzione o siano parte del problema (per dire, qualcuno ancora è pronto per lo scontro). Per capirlo bisognerebbe mettersi seduti e capire qual è, il problema; in un caso o nell’altro non ho problemi a vedermeli musicare una pubblicità delle Pringles. Chi ne esce sicuramente vincitore è Raymond Pettibon: la copertina di Wasted Years è rubata dalla copertina del disco di un altro gruppo, disegnata alla Pettibon-maniera da qualcun altro.