Per il metal tira una pessima aria da anni, nessuna novità su questo. Infiltrazioni, contaminazioni insensate del tutto fuori controllo, fuori contesto, senza costrutto: una sbobba informe che ricorda alla lontana diecimila cose diverse senza avere il coraggio di abbracciarne fino in fondo manco mezza, di fatto generando e alimentando il nulla pneumatico, un nulla ben suonato e ben prodotto che dà lavoro a uffici stampa e agenzie di booking e dimostra quanto John Lydon ci avesse visto lungo molto meglio e molto prima di tutti noi; indigeribili beveroni sporadicamente (e in maniera del tutto randomica) patrocinati da una stampa mai altrettanto disinformata e ignorante, pronta a esaltare a prescindere il più improbabile degli sgorbi trincerandosi dietro alibi indimostrabili, accampando ragioni futili ma incontestabili (grazie Frankie Hi-NRG, quando ancora eri umano); dall’altra parte, un immobilismo stolido quanto deprimente che abbassa il QI soltanto a guardarlo a eoni di distanza. Pessimo, pessimo quadro generale. Inutile infierire su cadaveri ambulanti, falcidiati dal tempo che scorre per tutti, che comunque non riescono a farla finita (vero, Slayer?) o, ancora peggio, su chi è tornato frettolosamente e maldestramente sui propri passi, a fare la vecchia cosa, dopo rivoluzioni copernicane quando è andata bene perfino esaltanti, quando è andata male porcherie assolutamente deragliate e scentrate, comunque degne di assoluto rispetto, a prescindere dai risultati, perché motivate da un sincero desiderio di infrangere i limiti, di spostare l’asticella al livello successivo. Nel 99% dei casi, dischi che però al momento dei bilanci hanno fruttato poco più di una cacca di mosca: su questo il mercato non perdona, e il mercato è tutto. Comunque sia andata, il punto in cui stiamo è un tristo karaoke a comando per lattanti in esplosione ormonale e/o turisti dell’umano che pretendono con rabbia la stessa roba ripetuta all’infinito, e i mestieranti, mestamente, li accontentano (vero, Kreator? Vero, Napalm Death? Vero, Paradise Lost? E la lista andrebbe avanti troppo a lungo). In questo quadro generale, gli innovatori conclamati sono molto peggio dei dinosauri, che si estingueranno prima o poi, non fosse che per una banale questione fisiologica. L’agghiacciante piega che ha preso il metal contaminato, ormai definitivamente fuori controllo, è molto più preoccupante e deleteria degli Iron Maiden che continueranno a sbracciarsi negli stadi vita natural durante. Prima o poi ci penserà la vita ad abbatterli. È il nuovo che avanza a fare inorridire. Vendere merda spacciandola per innovazione non è certo una novità, succede da sempre; la novità è il livello che vertiginosamente continua a scendere a livelli abissali, la china che non accenna a risalire, i numeri che sempre più suffragano e rendono plausibile l’ipotesi che la merda possa alla fine avere un buon sapore.
I Wolves In The Throne Room non sono la prima di queste aberrazioni, non saranno l’ultima; che siano tra le incarnazioni più pervicaci e moleste di questo trend negativo in compenso è un fatto. Spuntati fuori nel 2005 con un CDR senza titolo, qualcuno ha deciso che suonavano black metal (chitarre distorte, le parole “lupi” e “trono” nel nome, copertina e retro in bianco e nero sgranatissimo, registrazione da cantina ma inoffensiva, à la page, per non infastidire chi di fronte a Transilvanian Hunger o Nattens Madrigal scapperebbe via urlando); di lì al successivo Diadem Of 12 Stars passa un anno. Stessa differenza: brani lunghi e articolati (mai sotto i dieci minuti, parrebbe per puro principio), noiosissimi, sfiancanti, che ti succhiano via la vita. Ristampa su Southern Lord nel 2007 con consenso plebiscitario (come sopra, la merda che cominci a convincerti abbia dopotutto un buon sapore). L’anomalia sta tutta qui: per qualche strana e fondamentalmente incomprensibile ragione prendono bene anche a gentaglia insospettabile che di solito bazzica tutt’altri ambienti, trend setter e opinion leader che a un tratto decidono simultaneamente e senza ritorno che questa roba, fino all’altroieri ignorata o derisa a priori (ma quella fatta bene), deve ora invece avere una propria dignità. Naturalmente, gente totalmente digiuna di qualsivoglia rudimento o punto di riferimento relativo al genere, che quindi si muove a tentoni nel buio peggio di un sordocieco. Folgorazioni sulla via di Damasco plurime, dall’oggi al domani tutti espertoni, filologi addirittura; assistere allo spettacolo farsesco della sarabanda di opinioni sovreccitate (e risibili) di analfabeti totali che di punto in bianco salgono sul pulpito in base a non si capisce bene quale diritto acquisito a sindacare su non si capisce bene cosa (fosse su quanto fa schifo questa roba magari avrebbe anche un senso), come tanti trogloditi che pretendono di dissertare di astrofisica a un congresso, è uno spettacolo infimo. Quel che più è triste in questa maratona tra storpi è che il pretesto è talmente fiacco e insipiente che non varrebbe la pena di spenderci nemmeno due righe sul giornalino della scuola.
Ulteriore dimostrazione che perseveranza e inettitudine in dosi uguali pagano sempre: i Wolves In The Throne Room vanno avanti, e il mondo con loro. Ogni disco è più balzano, improponibile, grottesco, in una parola peggiore del precedente, e le quotazioni salgono. Più fanno schifo, più la gente dà loro retta. Che sia chiaro: il problema non è certo la lunga durata di pezzi sfiancanti. Sono esistiti ed esistono sottogeneri – come certe filiazioni del funeral doom più tetro, asfissiante, angusto e malsano – in cui la musica è lenta, opprimente, non di rado esasperante, ma c’è anche uno stile, un’idea, un criterio a governare e tenere in piedi la cosa. Nessun gruppo doom è partito dalla premessa di rompere ferocemente e dichiaratamente i coglioni all’ascoltatore e basta. Infatti, nessun gruppo doom è mai finito a suonare al Primavera; al limite al Roadburn, che comunque è un circo esattamente come tutti gli altri, la sola differenza è che ad accaparrarti il biglietto fai più fatica.
È proprio il concetto di fondo a essere radicalmente, profondamente sbagliato. Il metal è quella cosa che ti fa muovere il culo e ti fa fare le cornine ruttando (lo diceva il mio amico Bruno, chissà che fine ha fatto. Mai parole altrettanto giuste). La noia, l’inconcludenza come punto d’onore, facciamo un po’ il cazzo che ci pare ma stiriamolo in pezzi da dieci/quindici/venti minuti a botta e bella lì, tutto questo non ha mai fatto parte della sua cifra stilistica. I Wolves In The Throne Room sono questo: a parte l’intento dichiarato di sfiancare di noia non c’è altro, nient’altro. Manca la visione, manca una prospettiva storica, mancano le radici del disagio, perché non ci sono. Il problema poi è anche etico: cos’hanno in comune questi falsari con la cosa vera? Il logo puntuto? I capelli lunghi? Le chitarre distorte? L’abito fa il monaco, ok, ma bastano questi elementi a renderli un gruppo metal, ancora prima un gruppo interessante, degno di essere ascoltato? Per chi si accontenta, per chi il metal non ha la minima idea di dove stia di casa, per chi è felice quando sente un incapace, evidentemente, sì.
Alla fine i loro dischi li ho ascoltati quasi tutti, per masochismo e per vedere ogni volta quanto più in basso si possa scendere. Tipo con i Sunn O))), ci casco regolarmente; con la differenza che i Wolves In The Throne Room mi hanno sempre fatto vomitare, fin dall’inizio, come concetto proprio. Disprezzo loro, chi li spinge, i loro fan, l’idea distorta e sbagliata di black metal di cui sono portatori, mi terrorizza la noia abissale che generano ogni volta in me, irrimediabilmente. È come se ogni volta, scientemente, scegliessi di assaggiare un tocchetto di merda per vedere se nel frattempo il sapore è migliorato. Coazione a ripetere pura e semplice: la merda resta merda, e lo so benissimo. A volte credo davvero di essere stupido.