DISCONE: The Body – All the Waters of the Earth Shall Turn to Blood (At a Loss)

It’s the musical equivalent of watching someone try to kill himself, I can’t look away or turn it off” (via)

Inizia con sette minuti tondi di cori femminili a manovella che dire pallosi è puro eufemismo. Poi arriva la ciccia, tutta in una botta, e ti ritrovi dalle parti del capolavoro. Quanto tempo è passato? Cinque anni? Doom/sludge molto post e molto apocalittico che sembra davvero venire fuori da uno sbrocco mentale da guinness più che dal post-ismo peloso rubato ai dischi dei Neurosis. All the waters of the earth shall turn to blood è il secondo disco del power-duo The Body ed è un disco -tutto sommato- stupidissimo: cori da qualche chiesa in un contesto spettrale, ripetizioni ossessive di pattern chitarra/batteria quanto più essenziali possibile (Even the Saints etc etc), feedback allucinanti (Song Of Sarin), cut-up elementari di voci ed elettronichina (Empty Hearth, una sorta di Everything in its Right Place industrial metal), canto armonico più o meno negli unici due punti dove riesce d’infilarlo. Niente che non sia già stato sentito in un milione di altri dischi, e pure un po’ sarcastico nei toni, ma con questa incredibile capacità di suonare sempre e solo perfetto. E soprattutto con una prova vocale GRANDIOSA, emotivamente insostenibile. Fa cagare addosso dalla paura, in certi momenti non si riesce a distinguerla dai feedback di chitarra. Scott Angelacos, gli Iron Monkey più fuori fase, i passi meno indulgenti di Oceanic, certo post-black americano di prima generazione, un paio di momenti à la Keelhaul. Eye Hate God (cit.). E l’urlatissimo disastro finale di Lathspell, che sembra in qualche modo unire/rincorrere/dare un senso ai sette minuti di cori femminili del cazzo che aprono il lato A, manda a casa davvero TUTTI, una prova talmente sofferta ed intensa che ad ascoltarla ti senti sporchissimo. Col post-qualunque-core mi sento ingabbiato dentro a una routine di coppia dai tempi di Sadness Will Prevail, ogni anno va peggio e non ricordo più un giorno in cui non ho pensato di mollarlo in blocco, cancellare il numero dal telefonino, rivendere i dischi e comprare qualche raccolta di hit house di seconda fila per supplire al vuoto emotivo. D’un tratto, invece, mi ritrovo con le cuffie in testa ad ascoltare The Body a ruota, gli occhi sbarrati a scrutare il bacino d’orrore apocalittico che avvolge la mia anima in pena e tutte quelle robe da recensioni metal. ADORO. Doppio LP, o CD. Copertina della madonna.

PS: massì và, STREAMO.

MANCARONI: Bloodlet – Three Humid Nights in the Cypress Trees

IL DISCO
I Bloodlet del 2002 celebrano dieci anni dalla formazione, tutti passati sotto contratto alla Victory a fare uscire dischi oscuri senza senso tra accacì pestone e doom metal depresso –come i Neurosis, ma al contrario. Fallito il tentativo di fare botto con The Seraphim Fall (1998) e relativo tour di spalla a gente tipo Grip Inc., nel ’99 si sciolgono per riformarsi con una formazione quasi invariata due anni dopo, mettendosi a scrivere il materiale per il quarto disco lungo che andranno a registrare con Steve Albini e faranno uscire a fine 2002 sotto il titolo Tre umide notti sotto i cipressi. Il quale rimane a imperitura memoria come il disco più assurdo depresso e deviato mai uscito su Victory e/o la pietra tombale di un genere su cui ogni gruppo new school che non ce l’aveva fatta nel ’98 provava a dire la sua (in genere piuttosto male). Una sorta di doppio/triplo concept con liriche a tema (spesso geniali, tipo il passaggio di Worms, uno spoken word in cui “ogni volta che mi sveglio ci vogliono almeno dieci minuti per ricordare il mio nome, e a volte lo sbaglio”) e un pessimismo catastrofico che spesso sfocia in questa sorta di nonsense grottesco alla Big Black, con una serie di riferimenti che cambiano di pezzo in pezzo e vanno dai Godflesh ai Neurosis di Times Of Grace ai Bolt Thrower e a certo groove-metal malato di fine anni novanta stile Skinlab. E se è facile trovare qualche parentela diventa sostanzialmente impossibile trovare corrispondenti reali, eccezion fatta forse per gli Oxbow di An Evil Heat (che comunque ne sono una versione più gentile). Senza contare la prova vocale di Scott Angelacos -che qui fa davvero paura, sembra di sentire l’ultimo rantolo di un alcolizzato che muore nel cesso del bar dei repubblicani nell’indifferenza dei compagni di tavolo.

PERCHÉ NON STARÀ NELLE CLASSIFICHE DI FINE ANNO
C’è un milione di dischi “sul genere” che hanno venduto di più o sono stati più coccolati dalla kritika, e i Bloodlet hanno definitivamente splittato (per quanto possano esser definitivi gli split di questi tempi) qualche mese dopo l’uscita del disco, lasciando un bacino musicale al suo triste destino di frangette, chirurgia poisonthewelliana, marchio Broke dietro al CD e alternanze melodico/urlate con produzione ipertecnologica di ‘sto paio. Tra l’altro ai tempi dell’uscita qualche supereroe della critica musicale ebbe l’ardire di trattarlo con sufficienza e tacciarlo di legnosità e scarso interesse.

PERCHÉ STA QUI
Perchè noi ci siam fatti tutta una mappetta alternativa a quella della Grande Storia del Metallo e godiamo fisicamente ad ascoltare la musica più deviata depressa e smunta che sia dato ascoltare. E perchè a distanza di anni a me personalmente è quasi impossibile entrare nell’ordine delle idee di riascoltare un A Sun That Never Sets (per non parlare dei dischi dopo dei Neurosis), ma questo ce l’ho sempre accanto al comodino per dargli una passata.