UNO BIANCA

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Simone Tempia
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1. DEL CAPIRE BOLOGNA VIOLENTA

Non si può.

 

1.1 DEL CAPIRE BOLOGNA VIOLENTA SUL PIANO DELLA MUSICA

Nicola Manzan è un maestro di violino (diplomato il 1° luglio 1997 a Vicenza). “Maestro” è infatti il termine corretto con cui si rivolgeva a lui Francesco Bianconi durante il tour de La Malavita che vedeva Manzan alla seconda chitarra. Orbene. “Maestro” è un titolo accademico che non significa solamente “colui che sa suonare il violino meglio di un accattone sulla metro” ma che prevede un percorso di studi non solo dedicati all’esecuzione ma anche alla composizione, all’armonia, allo studio della storia e della teoria. Tutto questo bagaglio di conoscenze è inevitabile che confluisca e sia confluito nell’opera di Nicola Manzan/Bologna Violenta. In assenza quindi di una base pari o superiore di conoscenze teoriche, chiunque si approcci alla musica di Manzan con fare critico rientrerà nel novero delle fastidiose scimmie che (con una felice espressione del maestro e compositore Dario Agazzi) “ondeggiano fastidiosamente la testa a occhi chiusi” su una Passacaglia di Bach senza sapere né cosa sia una Passacaglia, né in che modo sia strutturata. E non è un caso che molti critici, esattamente come i summenzionati primati, si limitino a ripetere il termine grind senza avere la benché minima idea di cosa esso significhi e in che sfumatura peculiare possa essere applicato alla musica di Bologna Violenta.

 

1.2 DEL CAPIRE BOLOGNA VIOLENTA SUL PIANO DELLE INTENZIONI

Dalla lettura di alcune interviste rilasciate da Manzan intorno a UNO BIANCA e ad altri suoi lavori, si intuisce in maniera abbastanza evidente che ci troviamo di fronte a una persona la cui percezione delle proprie opere è del tutto dispatica con quella della maggioranza delle persone. Esattamente come Kafka trovava i suoi racconti comici (si dice non fosse in grado di terminare la lettura in pubblico de La metamorfosi per colpa del troppo riso che scatenava in lui), così abbiamo l’impressione che Manzan ritenga la sua musica venata di un’intenzione che, mentre è oscura a tutti, o comunque ai più, al contrario è per lui è così tanto lampante da non richiedere nessuna esegesi né spiegazione. Ascoltando i suoi dischi, vedendo le sue modalità di interazione  nei social, leggendo le sue interviste e osservandone l’attività live, abbiamo la nettissima sensazione che molto di ciò che Manzan pensa che la sua musica dica non solo non venga compreso, ma che venga, nella maggior parte dei casi, frainteso.

 

2. DELL’INCONSAPEVOLEZZA DI NICOLA MANZAN

Giacché quindi di comprensione, in merito all’opera di Nicola Manzan, non si può parlare, non rimane quindi che la via dell’interpretazione. Via esegetica che peraltro è resa utile anche da un’ulteriore considerazione in merito all’opera di Bologna Violenta. Esattamente come la maggior parte degli artisti (l’utilizzo della parola che si fa in questa sede è da intendersi in senso STRETTAMENTE letterale) la sensazione che si ha è che Manzan non abbia il controllo totale sulle sue creazioni. Parliamo insomma di un’illuminata, magnifica, straordinaria inconsapevolezza propria di chi seguendo l’ispirazione giunge in territori inesplorati che sono anche a lui del tutto ignoti. A tal riguardo citeremmo Antonio Rezza il quale, in un Q&A che aveva seguito la proiezione dell’oscuro Delitto sul Po, alla domanda di uno spettatore “Ho visto una forte influenza nichilista in questo film. Sei d’accordo?” rispose “Se ce la vedi tu allora probabilmente c’è”.  Per tale ragione è giusto, logico e anzi doveroso cercare di smettere di chiedere “rassicurazioni” allo stesso Manzan su cosa c’è e cosa no all’interno della sua musica perché, al netto delle influenze (consce o inconsce), neanche lui -probabilmente- lo sa.

 

3 DEL PERCORSO MUSICALE DI NICOLA MANZAN

Dovendo pertanto interpretare le intenzioni musicali di Bologna Violenta, non si può che guardare al momento a nostro avviso più “topico” della sua storia artistica. Stiamo parlando del passaggio radicale da Il Nuovissimo Mondo (INM) a Utopie e Piccole Soddisfazioni (UePS). La sensazione che si è avuta al primo ascolto -ma anche ai successivi- di UePS è che la prima preoccupazione di Bologna Violenta fosse stata quella di cesoiare via senza alcuna pietà qualunque ascoltatore che si era approcciato alla sua musica per via degli innesti audio da Mondo Movie che caratterizzavano, in maniera anche molto decisa, il primo lavoro. Il tarantinismo imperante, il recupero del cinema di serie Z anche nelle sedi accademiche, aveva da un lato, effettivamente, dato una spinta propulsiva all’album d’esordio di Manzan, dall’altro -immaginiamo- aveva reso Bologna Violenta vittima di una stereotipizzazione tipica dell’approccio “ironico” e acritico (poiché privo di strumenti cognitivi adatti) all’arte. Consapevole, a ragione, dell’incasellamento di cui era stato suo malgrado vittima, Manzan con UePS ha fatto saltare il banco con un album che, ed è il caso di dirlo, violava apertamente e brutalmente tutte le aspettative del pubblico. Un atteggiamento di chirurgica rimozione di ascoltatori che Manzan ha portato avanti fino ad oggi anche in sede di live o social network, laddove ha progressivamente eliminato dalla scaletta i brani divenuti tormentone. A tal proposito citiamo uno status di Facebook risalente al 30 gennaio 2014 “Vorrei fare come i Metallica e chiedere ai true fans che canzoni vogliono sentire dal vivo durante il prossimo tour. Un quarto d’ora a disposizione. No Trapianti, no Sommofallo, no Blusong. Solo canzoni belle, please.” In questo percorso si inserisce anche UNO BIANCA, album il cui unico difetto può essere stato l’aver peccato di eccessiva sicurezza.

 

3.1 Delle colpe di UNO BIANCA

Se una colpa si deve trovare in UNO BIANCA è appunto la troppa sicurezza di Nicola Manzan. L’etimologia del termine in questo caso è più che illuminante: dal latino sine cura, senza preoccupazione. La mancanza di preoccupazione a cui ci riferiamo è quella che Manzan ha dimostrato nel suo pensare di aver eliminato tutti i summenzionati ascoltatori “occasionali”. Il problema -se di problema si può parlare- è stato, a nostro avviso, la troppa sicurezza nel fatto che questo UNO BIANCA sarebbe finito solamente nelle mani e sulle scrivanie di chi veramente conosceva e amava il progetto Bologna Violenta. Questo sentimento di fiducia nei confronti del suo apparentemente selezionatissimo pubblico si avverte lungo tutte le 27 tracce: UNO BIANCA  fa un passo indietro rispetto all’estremo UePS (in cui diversi brani, tra cui citiamo ad esempio Il convento sodomita e Sangue in bocca, sembravano essere stati creati per spaventare e allontanare) e si rende davvero sensibilmente più accessibile. Ed è proprio questa sua accessibilità che ha ringalluzzito quei pochi perniciosi commentatori della domenica -ma professionisti- dando loro la sensazione di avere qualcosa di cui parlare. Se un disco sbatte in faccia al critico la sua ignoranza, è molto probabile che come reazione abbia:

a) un glorioso silenzio

b) -nel caso non si possa fare a meno di scriverne alcune righe- un “osanna” d’ufficio (giacché l’ignorante, di fronte a ciò che non capisce, spesso dichiara apprezzamento proprio per poter dare degli ignoranti a coloro che ammettono di non capire e non apprezzare).

Nel caso di UNO BIANCA questa apertura ha permesso all’ignorante medio di avere la sensazione -seppur errata- di avere qualcosa da dire e quindi di dar fiato alla ciabatta con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

 

3.2 Delle polemiche su UNO BIANCA

Secondo alcuni non tutto può diventare musica. Tale cautela non ci sembra applicata quando i medesimi fatti vengono trasposti in fiction di merda. Una discrepanza su cui si dovrebbe e potrebbe parlare a lungo ma non in questa sede.
4 DELL’INTERPRETAZIONE DI UNO BIANCA E DI TUTTE LE OPERE DI NICOLA MANZAN/BOLOGNA VIOLENTA

Nella maggior parte delle recensioni che hanno accompagnato al momento l’uscita di UNO BIANCA si legge spesso il termine “concept”. Una definizione che viene applicata a questo ultimo lavoro per come a volerlo distinguere dagli altri. Come se, insomma, UNO BIANCA fosse caratterizzato da una struttura narrativa che gli altri album non hanno. A nostro avviso questa lettura è, e rimane, frutto di un grande fraintendimento. La dimensione del progetto Bologna Violenta è -nella sua totalità- puramente narrativa. E questo perché il progetto Bologna Violenta non rientra nel campo artistico della musica quanto in quello del teatro. Su questo non abbiamo dubbi: Nicola Manzan non è musicista ma performer. La mistificazione del suo “ramo d’appartenenza” è resa palese dalle reazioni di alcuni spettatori ai suoi concerti. Non è raro infatti sentirne parlare come “non un vero live”. Questa posizione spesso viene giustificata adducendo la presenza delle basi, delle incisioni, dell’assenza di persone sul palco ad accompagnare lo spettacolo con ulteriori strumenti. Lo stesso Manzan testimonia la presenza di fan che gli chiedono “se non gli manca una vera band”. La sensazione è insomma quella che sul palco non venga portato un vero (qualunque cosa questo termine possa significare) concerto e questo nonostante Manzan sul palco sudi parecchio e il sudore, si sa, è spesso indice di musica “suonata”. La reale motivazione che riteniamo essere alla base di questa percezione del progetto è semplice, ed è proprio nell’errore di catalogazione della realtà di Bologna Violenta. Per pigrizia o per approssimazione, Manzan è sempre stato bollato come artista musicale quando invece, con un minimo di sforzo intellettuale in più, lo si comprenderebbe nella sua dimensione più ampia di performer. Un performer che sul palco porta uno spettacolo dove il suo strumento musicale (la chitarra) viene di volta in volta trasformato in amante, mitragliatrice, strumento di tortura, ostia consacrata, pene, braccio amputato al fine di  raccontare storie. Nient’altro che storie. UNO BIANCA non fa eccezione: esattamente come UePS e ancora prima ne INM, quello a cui prendiamo parte è uno spettacolo teatrale. Difficile quindi valutare la qualità di questo disco senza aver avuto modo di vederne la “dimensione live” giacché sarebbe come valutare una piece ascoltandone solamente l’audio.
5 CONCLUSIONI

Volendo però continuare nel fraintedimento e quindi volendo dare un parere su UNO BIANCA (che comunque ci riserviamo di stravolgere, come abbiamo detto prima, alla prima data del tour) possiamo dire che, come abbiamo avuto modo di scrivere, è forse l’album più fiducioso di Manzan. Un album  in cui si sente il rispetto e la gratitudine (potremmo quasi dire “l’amicizia) che Bologna Violenta prova per il suo pubblico. Un disco decisamente genuino nelle intenzioni e nella composizione e altrettanto meno arduo da affrontare. Un album che conferma Bologna Violenta come un raro esempio di pensiero (anche compositivo) laterale, in grado di valicare non solamente i generi ma anche i medium, per creare realtà innovative e scoprire territori artistici al momento, spesso per pigrizia o forse solo per mancanza di ispirazione e talento, ancora inesplorati.

 

 

the INDIENOVELA issue

La formazione del Teatro degli Orrori aveva dato i primi segni di scossoni all’indomani dell’uscita del secondo disco, con Favero che aveva smesso di suonarci dal vivo –per un certo periodo s’è parlato di un ingresso in pianta stabile come chitarrista degli Zu, di cui era già fonico fisso dal vivo (e con i quali aveva registrato Carboniferous), ma non se n’è fatto niente. Nel Teatro degli Orrori era entrato Bologna Violenta, e sembrava un po’ tutto come se fosse diventata la backing band di un Pierpaolo Capovilla sempre più lanciato verso l’informale status di Jean-Paul Sartre dell’indie italiano.

*a proposito di backing band, nella performance in playback di Pezzali a Quelli che il Calcio compare come bassista Matteo Lavagna, il bassista dei Disco Drive che aveva rimpiazzato Pomini*

*un’altra cosa piuttosto figa, parlando di Sanremo e cose simili, è che sul palco dell’Ariston con Anna Oxa c’è finito il chitarrista/cantante degli Aidoru*

Nel frattempo pare che il Teatro sia tipo esploso: si parla di una serie di sommovimenti che porteranno Capovilla a licenziare quasi tutto il gruppo, con uno strascico di polemiche piuttosto intenso e dichiarazioni del tipo “non sono mai stati un gruppo” da parte di alcuni degli epurati. Niente di concreto finchè non è uscito un post nella bacheca Facebook dell’uomo. Il quale, nel frattempo, sta portando in giro un reading (Majakowski, probabile sottotitolo territorio confinante tra nirvana e sclero), con musiche a cura di Giulio Favero, che  in tutto questo tempo pare non avere perso i contatti con la band: si rifà vivo come bassista di One Dimensional Man nel tour performing You Kill Me, e qualche giorno fa arriva anche la notizia di un disco nuovo all’orizzonte. Tornando al messaggio, pare esserci stata una sorta di epurazione che lascerà il Teatro degli Orrori (volutamente) in mutande con una formazione a tre per la realizzazione del nuovo disco: Capovilla, Favero e Mirai. In altre parole è stato cacciato via anche il batterista matto con gli occhi fuori dalla testa, probabilmente l’elemento più valido e caratteristico del gruppo e/o il secondo più grande batterista italiano in attività.

Paradossale in tutto questo il fatto che –file under LOLLONI- il primo più grande batterista italiano, vale a dire Jacopo Battaglia, abbia mollato Zu e si sia unito come turnista nientemeno che ai Bloody Beetroots, i quali hanno collaborato con il Teatro nel brano più brutto e noioso dell’ultimo disco (già abbastanza brutto e noioso di suo: nei primi ascolti ci si poteva tirar fuori del buono, poi è rimasto lì); questo dopo aver tentato la strada della dance adulta con Mooro –progetto che dà l’idea di essere in animazione sospesa senza manco aver prodotto un disco, davvero un peccato. Nel frattempo non è più chiarissimo se Zu continueranno a suonare come e quanto e quando e soprattutto con chi, dopo il tour d’addio a Jacopo. Il tutto, letto e sentito in un paio di settimane al massimo, dà l’idea di stare in un giro di amici di paese in cui l’evoluzione dei rapporti sociali è deputata alla volontà di scoparsi le ex fidanzate e gli ex fidanzati degli altri amici, come in una specie di ruota delle reincarnazioni. Come in queste situazioni il grado di romance è sempre più basso e meno credibile ad ogni nuovo incrocio, nella segreta speranza che si trasferisca qualche ragazzina da fuori a seminare un po’ di ormonella e mettere il pepe al culo alla gente (nel caso specifico probabilmente gli Aucan). L’unica cosa che sembra chiara, al momento, è che per sperare di ricavare altro indie-rock peso di rilievo dall’Italia sembra sia DAVVERO ora di concentrarsi su altre cose/persone/gruppi. Il che, nei giorni dell’uscita di un album di Anna Karina che testimonia un gravissimo caso di sindrome di Emidio Clementi, fa cagare addosso dalla paura.

(dimenticavo: l’immagine ovviamente l’ho rubata a Scarful)