THE CLEVER SQUARE – ASK THE ORACLE (Flying Kids) sono amici miei, sia loro che l’etichetta che li ha stampati: in questi casi in molti mettono le mani avanti con discorsi tipo “comunque se il disco non fosse buono lo direi”. Io se il disco non fosse buono non lo direi mai, perché poi li beccherei nei posti, e sono fortunato perché in questo caso non devo né dire né non dire che il disco non è buono, e voi non dovete crederci perché ho messo le mani avanti. A cosa servono gli amici? Che cosa è disposto a farti un amico fraterno, a titolo di favore, che non ti faccia anche un blogger in cambio di un link? Il disco comunque è uno stranio esercizio di scrittura indierock molto classica (Mould, Pollard e cose così) infilata in suoni tra Neutral Milk Hotel, Animal Collective non-macchinosi, Sufjan Stevens e robe simili, è strano ma in qualche modo è vero, nel senso di roba sincera. Dovreste ascoltarlo. 7.2 THE THERMALS – DESPERATE GROUND (Saddle Creek) I Thermals dell’esordio avevano una botta che sembravano poter lavare da soli tutti i peccati dei gruppi garage-pop con l’articolo che andavano di moda quegli anni. Il secondo disco era come il primo ma troppo ben prodotto, dal terzo in poi hanno tentato di diventare dei mammasantissima di quello che allora stava diventando la definizione di indie, pubblicato solo dischetti medio-medi indistinguibili l’uno dall’altro e tutto sommato dispensabilissimi e non so davvero perché mi ostino ad ascoltarli, auto-negandomi persino quell’epifania da svacco artistico costruttivo che mi hanno dato gli Strokes. A dieci anni di distanza, comunque, hanno ancora il coraggio di infilare qualche canzoncina di livello. 5.4 THE MELVINS – EVERYBODY LOVES SAUSAGES (Ipecac) Arriva il giorno in cui su Bastonate anche i Melvins non si beccano un articolo tutto per loro. Il disco nuovo è un cover album infarcito di ospiti fighi tipo Scott Kelly, Tom Hazelmyer e Jello Biafra, ed uscirà il trenta aprile: l’abbiamo ascoltato illegalmente in anteprima ed è quantomeno MOLTO MOLTO MEGLIO del precedente e (relativamente parlando) scarichissimo Freak Puke, che è un altro modo per invitarli a mollare la formazione Melvins Lite con Trevor Dunn e ritornare scranni e cattivi con la formazione a due batterie. 6.8 MUDHONEY – VANISHING POINT (Sub Pop) Sono dieci anni che sono tornati su Sub Pop e da allora registrano sempre più o meno lo stesso disco contenente canzoni sempre buone ma mai abbastanza da ricordarsi i nomi. E con tutto il bene che è impossibile non volere a Mark Arm, sono dieci anni che ce li stiamo ricomprando a blocchi di quattro o cinque titoli sussurrando ogni qualvolta possibile la band più seminale e sfortunata della storia del rock di Seattle, come un mantra e come se sapessimo davvero cosa significa la parola seminale. Va benissimo, ma il buonissimo e onestissimo Vanishing Point finirà a breve nello stesso posto dello scaffale dei dischi dove stanno prendendo polvere Under a Billion Suns e gli altri dischi anni duemila dei Mudhoney. 5.3 BORIS – PRAPARAT (Daymare) La sorpresa di questo mese/anno/decennio è che i Boris hanno finalmente mollato la loro poetica di riciclaggio situazionista di merda e sono tornati a fare un disco drone metal, vale a dire il genere musicale per cui saranno ricordati, e riuscendo persino a farlo in una chiave di lettura quasi inedita per il gruppo, una cosa abbastanza simile a Flood ma ancora più armonica, non so se mi spiego (immagino di no). Il tutto naturalmente senza insidiare la top 3 del gruppo (Amplifier Worship, Absolutego, Flood nell’ordine esatto) ma incuneandosi tranquillamente al quarto posto con grossi sorrisoni da parte del sottoscritto e in barba a qualsiasi tensione evolutiva di merda che ha donato alla nostra collezione una quindicina di titoli tutti ugualmente orribili ma ognuno in modo diverso dall’altro. Il fatto che il disco sia tirato solo in vinile fa sospettare che in realtà il prossimo titolo a nome Boris sarà l’ennesimo aborto hard rock, ma per quanto mi costa conviene comunque sperare per il meglio. 8.9 di incoraggiamento. THE KNIFE – SHAKING THE HABITUAL (Brille Records) The Knife è un buonissimo gruppo il cui valore artistico è inficiato perlopiù dal fatto che chiunque ne parla dà per scontato che in realtà i The Knife siano il cristo e la madonna che tornano in terra una volta ogni sette anni a fare piazza pulita di tutto il pop di merda che inzacchera le strade allagate della cultura della nostra epoca. Poi ti ascolti i dischi e sono sempre buoni ma non abbastanza da giustificare l’emotività spesa nelle aspettative. Sì è stato un anno di merda per il pop ma vedrai quando arrivano i gli le The Knife. Un altro gruppo con un problema molto simile sono i francesi Phoenix, per dire; quest’anno ce li becchiamo in uscita lo stesso mese, e sarà piuttosto difficile insomma capire se la musica nell’aprile del 2013 sarà salvata più dal nuovo disco dei gli le The Knife o dal nuovo dei Phoenix. Oddio a me i The Knife piacciono molto di più. 6.8 DAVID BOWIE – THE NEXT DAY (Sony) Stesso problema dei The Knife ma lungo trent’anni. 5.3 CATHEDRAL – THE LAST SPIRE (Rise Above) Con tutto quel che gli ho detto dietro nel corso degli anni (continuo a non capire dischi tipo Caravan Beyond Redemption o quel che era, le svolte rock’n’roll sabbathiane millelire da gruppo stoner al secondo demo eccetera), il nuovo disco dei Cathedral è ancora un buonissimo lavoro e/o l’occasione per ricordare a me stesso che per quanto mi riguarda Lee Dorrian è IL CANTANTE METAL, la voce più intensa, quella che mi colpisce sempre dove fa male e che mi fa avere ancora paura. 8.0. JUSTIN TIMBERLAKE – THE 20/20 EXPERIENCE (RCA) Meno bello di quanto vorrebbe essere ma più bello di quanto sono disposto ad ammettere. 6.9
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Bastonate Heavy Rocks

L’uscita di Absolutego, nel ’96, mi fece uscire di testa e mi costrinse a buttar via ogni disco che avevo in casa. Naturalmente non è vero: conobbi i Boris, come tutti gli altri qua in giro, quando i loro primi due dischi vennero ristampati e messi sul mercato da Southern Lord. Nondimeno, Absolutego è ancora oggi un disco MOLTO bello e una passeggiata per niente facile nell’hard rock cafone degli anni in cui esce: un’unica traccia di un’ora e passa pesantemente influenzata da Sleep e Melvins, forse ancora più opaca e granitica. Ancor più bello è il successivo Amplifier Worship, uno dei più bestiali dischi drone-metal mai realizzati: le ristampe sciccose e la caratura della band fecero il resto, creando uno zoccolo duro di fan che raccoglieva gente ossessionata dall’asse Swans/Neurosis, ex-hardcorers che scappavano a gambe levate dalla new school e fanatici di stoner marcio che passavano ogni pomeriggio libero a scandagliare i cassetti dei negozi di dischi alla voce Rise Above o Man’s Ruin o –appunto- Southern Lord. Si è scoperto parecchi anni dopo che la ristampa dei due dischi in realtà era parte di un piano quinquennale ordito da gente che aveva fiutato l’aria, deciso di imporre un nuovo modo di suonare metal estremo e lasciare che il contesto ideologico fosse creato in modo del tutto naturale ad opera di operatori del mercato straconvinti che pesare e pensare potessero diventare sinonimi senza cambiare di una virgola la musica che stava dentro ai dischi. Cosa che –tra l’altro- nel caso di Stephen O’Malley e Greg Anderson è verissima, ma quanta malafede nell’averli eletti nostri personali supereroi. Discorso noioso.
Paradossalmente, i Boris avevano smesso da anni di essere quelli di Absolutego. Due dischi del genere ti definiscono al punto di svuotarti, d’altra parte: è quasi impossibile uscirne vivi, tantomeno rilanciare su un piatto come quello di Amplifier Worship –a meno di non cadere nel trabocchetto del noise fine a se stesso, che per i giapponesi è una tentazione scontatissima; i Boris scelgono un’altra strada, un po’ più simile a quella di Yamataka Eye, per cui da ora in poi mi sembra giusto chiamarli Vooris per distinguerli da quelli precedenti (mi fa fatica usare il simbolo dell’infinito): fare uscire dischi uno diverso dall’altro allegando un implicito spiegone che li faccia sembrare più complessi di come suonano. Nel 2000 esce Flood, per molti il loro capolavoro: è una specie di versione ambient-psichedelica di Amplifier Worship e poco altro –un disco dignitosissimo, in ogni caso. Dopodichè la band molla tutto e inizia una carriera ancora in corso, fatta di rivisitazioni sistematiche di quasi tutti i clichè del pop che prevedano una chitarra, sezionati e risputati fuori quasi identici in dischi che all’inizio sembrano divertissement anni settanta (Vooris Heavy Rocks) e/o teoremi di postrock verista, in molti dei quali il grottesco diventa quantomeno una cifra espressiva. Ci sono persino ritorni al passato tipo Dronevil, ma sembrano quasi più una parodia/abiura che la prosecuzione di un discorso. Ancor più paradossale, la critica colta (The Wire e colleghi) non ha mai mollato i Vooris. Ogni nuovo passo della band è percepito come una maggiore presa di coscienza dei Vooris nei confronti del mondo del rock e del mondo del rock nei confronti di se stesso. Il fatto che la band ormai pubblichi un paio di dischi all’anno non rende la cosa facilissima da accettare: ce ne siamo fatti una ragione, li abbiamo mollati una mezza dozzina di dischi fa e siamo passati ad altro senza troppi rimorsi (ma m.c. ha ascoltato il disco col cantante dei Cult e ci ha dato un fedele resoconto in quattro minuti). Mi hanno segnalato tuttavia che su NPR, oggi, si possono ascoltare entrambi gli album in imminente uscita: uno si chiama ancora Heavy Rocks e ha la stessa copertina di quello uscito una decina d’anni fa (con un colore diverso); l’altro è intitolato Attention Please e dalla copertina potrebbe essere un disco dei Ladytron. L’ho ascoltato in streaming per via della copertina e (a parte concludere che con un po’ di fantasia potrebbe essere un disco dei Ladytron anche musicalmente) non ho voglia di farmi una vera e propria opinione in merito, nè tantomeno di ascoltare l’altro. Magari qualcuno che li ha ascoltati mi faccia sapere.
come volevasi dimostvave.
I Boris sono un gruppo abbastanza peculiare. La peculiarità dei Boris è data dal fatto che tutti i dischi incisi dopo gli anni novanta sono talmente insignificanti e privi di spessore che ad ogni nuova uscita ci si ritrova a perdere un paio di notti di sonno come se di punto in bianco i tre cloni giappolessi dei Melvins potessero rinsavire e tirar fuori un nuovo Absolutego e/o Amplifier Worship (da cui, piccola curiosità, gli Zu hanno estratto una sorta di momento-cover devastante nei live set più recenti). Poi magari capita addirittura di ascoltarlo, il disco nuovo, che è sempre inevitabilmente –appunto- insignificante e privo di spessore, e si cade in preda ad un mare di rimorsi e rimpianti che alle volte possono durare anche due o tre minuti –prima che il disco in questione vada giustamente a finire nel settore “disastri e mezzeseghe” della ns. collezione a scapito di tutta la concettualità post-prog con cui tutte le riviste specializzate di questa terra si riempiono la bocca e ci riempiono il cestino della carta. Giusto per raccontare, insomma, che come già anticipato in sede di congettura, anche lo split Boris/Torche, o anche The Intestino EP, va taggato alla voce sono cose che succedono e messo in bella mostra nello scaffale dei dischi con la grafica bella e la musica dispensabile. Naturalmente in tutto questo sarebbe anche importante mettere in rilievo il fatto che nel disco c’è anche un pezzo dei Torche, ma per quanto riguarda i Torche (come già anticipato in sede di congettura) è più che sufficiente non parlare o prenderli in giro senza motivo. Non è cattiveria, e non è neanche il genere che fanno (il genere è tipo Cavity prodotti di merda senza i pezzi); è che per parte mi stanno sui coglioni a pelle e per parte i dischi non riescono a cambiarmi la prima impressione.