IL LISTONE DEL MARTEDÌ: dieci foto di gruppi che giustificano da sole la deprecabile arte del fotografare i gruppi

Torna l’appuntamento con il listone del martedì. Questa settimana vorrebbe essere una cosa disimpegnata, ma forse anche boh. Dieci foto che danno un senso parziale ai duemila euro che avete speso per la reflex e il lomokino. E ovviamente la prima della lista è

QUALSIASI FOTO DI JASON NEWSTED
Questa cosa risale ai tempi dei forum e delle webzine metal, sarebbe troppo complicato spiegarla e spiegare come mai tra i più grandi rimpianti della nostra vita ci sia passare notti insonni al computer rompendo i coglioni ai moderatori del forum di metallus.it e derivati.

LA COPERTINA DI LONDON CALLING
Le biografie ufficiali raccontano che Paul Simonon è finito dentro ai Clash nonostante non sapesse suonare, perché era un figo e stava bene col basso a tracolla. Qualche anno dopo viene fotografato nell’atto di spaccare il basso a terra (oppure no) e sbattuto in una copertina che vorrebbe essere lo spoof di un disco di Elvis Presley. Non so se l’ho mai detto qui ma io odio tre o quattro gruppi al massimo quanto odio i Clash. La foto finisce dentro perché in qualche modo poi t’ascolti il disco e pensi diobono, se mi limitavo alla copertina. No, scherzo. No, non scherzo. Continue reading IL LISTONE DEL MARTEDÌ: dieci foto di gruppi che giustificano da sole la deprecabile arte del fotografare i gruppi

IL LISTONE DEL MARTEDÌ: dieci dischi di quest’anno che GRAZIE AL CIELO non ci porteremo dietro il prossimo anno.

beccati questa kotekino

Ad essere sincero questa settimana avevo mezzo preparato una lista di pezzi che provassero l’idea che mettere insieme calcio e musica rock fosse l’idea più stupida di sempre, e l’avevo fatto solo per inserirci Seven Nation Army e soprattutto Umbabarauma dei Soulfly (ve la ricordate? JOGA BOLA, JOGA BOLA, JOGADOR. Ai tempi sembrava qualcosa di rispettabile). Poi ho pensato che finito l’europeo avrei ri-smesso di essere uno dei cinquanta milioni di commissari tecnici italiani e sarei tornato a quell’attitudine tipo il calcio è una merda il vero calcio non esiste più io non ho tempo per queste cazzate mi dedico ai PROBLEMI VERI io. Assecondando questa mia attuale botta di impegno sociale, la presente è una lista di dischi che io o voi (o comunque qualcuno) abbiamo amato nel corso dell’ultimo anno solare, e che l’anno prossimo ci vergogneremo come cani di avere amato. Lo staff di Bastonate, nella persona di chi firma, si assume tutta la responsabilità delle opinioni sbagliate (ve piacerebbe) in seno alla lista, e ammette che in almeno quattro casi su dieci i dischi inseriti sono sassolini che ci togliamo dalle scarpe con fare rabbioso, abilmente bilanciati da altri dischi che invece amiamo alla follia e inseriamo per pararci il culo o perché abbiamo una tremenda opinione di noi stessi, e il fatto di averlo scritto non significa necessariamente che lo stiamo pensando. Diamo la precedenza a dischi usciti negli ultimi sei mesi, ma ci sono eccezioni. Un’ultima cosa: abbiamo volutamente lasciato fuori alcuni casi macroscopici tipo Il Teatro degli Orrori o DiMartino o sa dio che altro perchè le sacche di fanatismo sono quasi esclusivamente limitate ad un pubblico di appassionati specifici con cui non parliamo spesso e/o gente che non ha mai capito un cazzo di musica.

AFTERHOURS – PADANIA

Non riesco a smettere di sentirlo. Non è un disco con dei meriti musicali particolari, a parte quello di suonare sbroccato e privo di senso dalla prima all’ultima traccia. Voglio dire, cosa c’è di più esaltante nel guardare un alfiere del NUOVO ROCK ITALIANO (a vent’anni circa dalla sua istituzionalizzazione) sbroccare, trasformarsi in una vecchia e lavare i panni sporchi in pubblico con un disco di pretestuosissimi collage afterhoursiani affogati di feedback senza senso e slogan alla Agnelli? Probabilmente un sacco di cose, ma ai primi trenta ascolti di Padania non sembra. Il che non toglie che sia il disco di un ex alfiere del NUOVO ROCK ITALIANO che sbrocca e in diretta internet si trasforma in una vecchia, affogando in un mare di feedback senza senso e slogan alla Agnelli. Appena lo tolgo dall’auto va a finire sotto la colonna dei dischi Snowdonia.

BURZUM – UMSKIPTAR

“Accantonata senza rimpianti di sorta l’imbarazzante parentesi “ambient” degli ultimi dischi per sola pianola (al gabbio non gli lasciavano tenere nessun altro strumento), torna a dedicarsi al black metal grezzo e angosciante e ventoso e unico al mondo che faceva più che egregiamente prima di finire al fresco, e improvvisamente sembra di essere stati catapultati di nuovo nel 1993. Lui è una specie di totem per ogni dissociato con più o meno seri problemi relazionali che si rispetti: io ascolto Burzum = io sono necroelitario, sprezzante, superiore alla massa, odio la gente, amo solo la natura, sono pagano, ho capito bene Nietzsche. Qualsiasi emarginato dalla società, meglio ancora se metallaro, trova in Burzum la sua rivincita: un ammazzacristiani nazo e misantropo stimato e rispettato, famoso, in qualche misura perfino temuto, con un posto nella storia della musica già suo di diritto e un pugno di dischi di indiscutibile valore all’attivo. Praticamente un semidio. Il Leonardo da Vinci dei deboli e dei reietti.” Dai tempi in cui il collega m.c. scriveva queste cose sono usciti tre dischi, in modalità sempre più triste e automatica. Ancora oggi sentiamo il dovere di ascoltarli, in un gesto di stizza e foga che ci permette di essere così elitariamente conformisti e rigettare l’operato di centinaia di rottinculo che confezionano i loro dischi di imprendibile ambient-blackmetal sintetico nel caldo delle loro camerette come se solo noi avessimo provato la VERA sofferenza. Sfido chiunque a dirmi che la qualità dei dischi post-reunion di Burzum sia in crescita. Due euro al colpo.

GRIMES – VISIONS

Ormai gli hype li si costruisce partendo dalla smentita: il caso di Grimes, una ragazzetta senza talento con un disco di brutte figure di (te piacerebbe) pop contemporaneo, è abbastanza emblematico. S’è iniziato a sentirne parlare male prima di iniziare a sentirne parlare, come se gli hater si fossero mossi prima degli hipster, e poi qualcuno ha instillato il dubbio che non fosse poi così pessima e di lì a tre giorni ci siam trovati in tasca la nuova Karen O e l’idea che una nuova Karen O invece di gambizzare la Karen O vecchia fosse un’idea allettante. Conferme e smentite si sono spinte per settimane e settimane, mentre Visions collezionava una quantità impressionante di ascolti senza che nessuno avesse una pallida idea di cosa farsene. Poi fatto un giro per concerti da queste parti e s’è capito che manco gli hater avrebbero dovuto scomodarsi. Io purtroppo l’ho persa.

BARONESS – YELLOW / GREEN

Sulla fiducia. Il disco non è ancora uscito, ma quando sarà il momento forse qualcuno vorrà convincerci del fatto che un doppio album prog metal senza il tiro e senza la fotta sia –a qualsiasi titolo- una buona mossa o qualcosa a cui guardare per rintracciare dei segni tramite cui rifondare l’heavy metal della nostra epoca. Probabilmente avevamo sbagliato NOI a puntare una cifra anche simbolica su John Baizley, voglio dire, già il Red Album è noiosissimo, ma insomma.

PIL – THIS IS PIL

Altro disco che stiamo ascoltando a raffica, e col plurale intendo io, fatto di b-side della mente umana e deliri in forma di filastrocca che se fossero in italiano probabilmente si griderebbe al Vasco Rossi, con sotto musica da camera PILiana al minimo sindacale, che ci sta affascinando solo perché sfida le nostre certezze in merito a cosa sia pubblicabile e cosa no. Non in senso so bad it’s good, sia chiaro: è più che altro il solito discorso di non capire come la mancanza d’interesse possa elevarsi a forma mentis. John Lydon cavalca l’onda con una dignità rara, ma rimane comunque la questione di ritrovarsi tra due o tre o sei mesi al raduno mensile dei fan dell’ultimo disco dei PIL e saremo rimasti in sette, il ristorante farà schifo e twitter sarà in down.

UNSANE – WRECK

Non posso nascondermi dietro a un dito e questa è l’unica musica che oggi ritengo imprescindibile e necessaria. Naturalmente è uguale identica alla musica prodotta sotto lo stesso nome e dalla stessa gente vent’anni fa, e quello che IO considero necessario dovrebbe essere preso ad esempio di cosa dovrebbe essere preso e buttato nel cestino con sdegno e disgusto in quanto appannaggio di una generazione di vecchi con la bava e la schiena malferma che pensano di insegnare qualcosa a qualcuno. Ieri ero in mezzo a un viaggio in auto con un programma radio di Assante e Castaldo, nel quale veniva più o meno snocciolata la playlist definitiva DEL ROCK, della quale ho fatto in tempo a sentire solo le prime tre posizioni che erano Bob Dylan, i Led Zeppelin e i Pink Floyd, massimo rispetto per Bob Dylan per carità, ma proprio vaffanculo. Ecco, gli Unsane sono i miei Led Zeppelin con meno idee e più fotta, e niente e nessuno riuscirà mai a giustificare la mia mancanza d’immaginazione, men che meno il fatto che gli Unsane di questa generazione non esistano o siano dei manigoldi con una mano sulla frangia e l’altra sull’iPhone. Se avessi diciott’anni probabilmente prenderei una chitarra e caccerei il me vecchio bavoso col trip del noise a piangere in un angolo, o morirei provandoci, o magari mi farei le foto dall’alto ascoltando gli I’m From Barcelona, e rimane comunque il punto.

LANA DEL REY – BORN TO DIE

Un altro caso di hype tipo quello di Grimes riguarda Lana del Rey, ma confronto a Lana del Rey Grimes è una caccoletta. Quando uscì Video Games era assolutamente indispensabile avere un’opinione su Lana del Rey (la maggior parte della gente ha scelto un’opinione tipo non è necessario farsi un’opinione su Lana del Rey dopo aver sentito un pezzo, ti pare?. Gli altri si sono divisi più o meno equamente tra quelli che boh il pezzo non è brutto, vediamo un po’ e chi si augurava che il mondo finisse prima che il disco andasse nei negozi. Alla fine il disco nei negozi c’è andato davvero, ha fatto un po’ di mossa (se non erro si parla di un milione e mezzo di copie) e Lana è stata –sostanzialmente- relegata a fenomeno marginale a metà tra i reality e la strada, occasionale ospite di qualche Saturday Night Live a caso senza che nessuno si sia preso il disturbo di attivarsi per farle fare quel passo che da fenomeno internet ti rende Adele. E dopo due mesi nei quali non ho pensato a Lana del Rey manco una volta, manco davanti a una tipa coi capelli lunghi e le labbra rifatte che minacciava di farmi pestare dal suo fidanzato, è uscito il video di National Anthem. Il video è una versione ipertiroidea del peggior immaginario glo-fi a disposizione della mente umana: Abraham Zapruder come padre putativo di tutti gli hipster col lomokino, A$AP Rocky (lo Snoop Dogg del drugapulco-hop) nel ruolo di Kennedy e ovviamente Lana moderna Jackie O. Un immaginario così tumblr non poteva che rilanciare per l’ennesima volta Lana del Rey come una specie di meta-popstar per quelli che trovano Lady Gaga troppo difficile o troppo carica, e Born To Die (che è il nome del suo primo disco, oltre che l’unica seria dichiarazione programmatica dell’artista) si sta facendo un ultimo giro nei lettori della fanbase inesistente di queste cose con un’onda autogenerata di consensi di secondo grado stile troppo frettolosamente accantonato da un pubblico di hater. Vaffanculo. A questo punto forse dovrei spiegarvi che senso abbia trollare una ragazzina rifatta e la sua fanbase solo perché odio il suo disco e l’estetica alla base del progetto, ma a che pro? Credereste comunque di essere persone migliori di me e/o superiori a queste cazzate. Bravissimi, ma se vi foste dati fuoco al vostro primo hit di Video Games  sul tubo, probabilmente avrei una buona opinione del mondo.

THE SMASHING PUMPKINS – OCEANIA

La maggior parte della gente aveva accettato in tempi non sospetti l’esaurimento della favella di Billy Corgan, si era messa il cuore in pace e si sarebbe potuta vendere la sua storia in una miriade di versioni una più romantica dell’altra. Il punto di frizione principale di tutta l’epopea C0rgan è il pubblico: anche volendo lasciar perdere i fan (che voglio dire, io sono un fan dei PJ e ti posso raccontare anche adesso, seduto a un tavolo, che Backspacer sia un ottimo disco) il mondo è costellato di analisti che hanno preso ogni singola ciofeca incisa dall’uomo da Adore/Machina in poi, smontata pezzo per pezzo, rimontata e rivenduta al pubblico con un inventario dei motivi per cui sì e dei motivi per cui no. Anche dopo cose tipo gli Zwan, Zeitgeist e Teargarden by Kaleidyscope c’è un pacco di gente che non considera Billy Corgan il figlio di Dio ma che comunque pondera dischi come Oceania per filo e per segno con più buona fede di quella riservata a qualsiasi altro artista. Così, come per magia, abbiamo dovuto riprendere in mano l’ultimo disco firmato Smashing Pumpkins e riascoltarlo per essere sicuri che non ci fosse del vero in quelle parole gentili e moderate, quei giudizi dal cautamente positivo all’entusiasta, quelle apologie tipo finalmente torna Billy a ricordarci cos’è il rock americano. Non vi odio ma sono perplesso.

JAMES FERRARO – FAR SIDE VIRTUAL

Ora, che James Ferraro e gli Skaters siano dei grandi non è una cosa che su B**tonate si mette in discussione, ma questa cosa ha a che fare più con il passato dell’uomo che col suo presente. E anche volendo essere indulgenti, abbiamo coscienza del fatto che Far Side Virtual (se non lo conoscete, immaginatevi la versione verista di Neon Indian: cut-up ad altissima fedeltà fatti con materiali di scarto culturale tipo musiche da videogame non-ripescabili e cose così) sia un disco molto conscio e rivelatore di certi scenari. Finito il primo giro d’ascolti, in ogni caso, non vogliamo fare i conti con l’impianto ideologico del disco, e se non possiamo fingere che non esista ALMENO possiamo pensare che non ci porterà da nessuna parte e verrà accantonato come un brutto scherzo nel giro di un altro annetto massimo.

MARK LANEGAN – BLUES FUNERAL

Nessun motivo in particolare, pura qualità: non possiamo permettere che la gioia per l’arrivo del primo disco a nome Lanegan da quasi un decennio distolga la nostra attenzione dal fatto che il primo disco a nome Lanegan da quasi un decennio fa cagare.

I dieci pezzi che più amavo e più mi vergognavo di amare negli anni ‘90

Perché, dunque, perché dovreste avere interesse a leggere l’ennesimo articolo musicale contenente le preferenze personali di nessuno in particolare? Io questo non lo so, ma so che è la giusta punizione per chi si rifiuta ostinatamente a spendere soldi per acquistare le riviste, tanto su internet c’è tutto e gratis, e allora beccatevi il tutto e gratis, questo blog, gli altri blog (molto peggio), le immagini su wikicommons con cui fare le vostre copertine sfocate e i pdf scaricati con tutti i crocini di stampa.

10. PRINCE, GOLD (“THE SYMBOL” – THE GOLD EXPERIENCE, 1995)
Nei fieri anni ’90 di forti e produttive tensioni sociali, non era assolutamente concesso fare il babiloniaco, osceno mischione di oggi, e la questione era, o ascolti musica, o ascolti merda. In un’epoca in cui, quindi, un Paolo Conte era considerato come oggi potrebbe essere considerato Scanu (prima della rivalutazione hipstersmart del 2024, intendo) e se passava il video degli Afghan Whigs eravamo contenti ma loro erano un po’ venduti, la possibilità che si potesse apprezzare un disco di Prince (una Jessica Simpson di oggi, metti) non era minimamente contemplata. Eppure io, in gran segreto, ho sempre amato e adorato il lunghissimo e virtuosistico guitar solo che, in un’orgia di opulenza negra prima che l’opulenza negra fosse ritenuta fica, troneggiava al centro del più fuori moda dei dischi fuori moda di Prince (ad Emancipation ancora mancava un po’ di tempo). Prince, completamente fuori controllo, all’epoca era rappresentato solo da un simbolo impronunciabile – molto prima della coolness dei !!!-, pubblicava dischi composti da dieci versioni della stessa (stupenda) canzone, pubblicava l’unico e solo Black Album (il funk omosessuale di Bob George sarebbe in questa lista se non sospettassi che possa essere hipster metterlo), pubblicava box quadrupli e pubblicava roba come  Live 4 Love nell’anno di Smells Like Teen Spirit. I ragazzini che oggi possono ascoltare Gnarls Barkley o Neptunes alla luce del sole, non sanno che Prince è morto anche per loro. Negli anni ’90 Prince non se lo cacava nessuno, eppure non esisterà mai più un posto altrettanto dorato dove vivere.

9. GIRLS AGAINST BOYS – SHE’S LOST CONTROL (AA.VV. – A MEANS TO AN END, 1995)
Nei concettuali anni ’90, i concetti più anni ’90 della storia umana erano non tanto i Girls Against Boys (gruppo dal design del tutto inconcepibile oggi, che all’epoca incredibilmente sembrava nuovo e fico e proibito e misterioso come, immagino, i ragazzi oggi percepiscano gentaglia come Health o Japandroids, che conosco di sfuggita e che abbino solo perché li vidi insieme sulla locandina di un concerto a cui non andai), quanto gli album di tributo. Negli anni ’90, chiunque ebbe un album di tributo, persino i Nomadi, i canti partigiani e i Joy Division. A Means to an End, che in realtà comprai perché conteneva un pezzo degli Smashing Pumpkins sotto falso nome (una risibile cover di Isolation), includeva almeno due grosse verità: l’unico buon pezzo della carriera di Moby (New Dawn Fades), e questa She’s Lost Control, entrambe heavy e anninovantissime, e ben superiori agli originali, cosa che torno oggi a dire senza vergogna nonostante io abbia passato gli ultimi diciassette anni a fingere di preferire una pacchiana voce baritonale su di uno scarno rullante a delle grasse, grosse chitarre distorte ed effettate. Negli anni ’90 si pagava tributo a chiunque, eppure non esisterà mai un posto meno asservito dove vivere.

8. PLACEBO – BIGMOUTH STRIKES AGAIN (AA. VV. – THE SMITHS IS DEAD, 1996)
Nei demodé anni ’90, a proposito di gruppi fuori moda (i Placebo oggi penso facciano l’effetto che fa vedere Don Draper che, in Mad Men, lascia la spazzatura sui prati dopo i picnic) e di album tributo, che dire di quest’altra chicca dal pessimo The Smiths Is Dead? Alla fine, non c’è molto da dire sul pezzo, che dal punto di vista musicale è sostanzialmente identico a quello degli Smiths, solo più veloce e con la voce di Brian Molko: ma il fatto è che, con una mossa che negli anni ’90 era smart ed oggi verrebbe percepita come patetica, le parole “walkman” e “hearing aid” del testo originale venivano sostituite con “discman” e “Megadrive”. Discman e Megadrive (che si sciolgono sul rogo di Giovanna d’Arco) come segno di spericolata modernità: non è insopportabilmente tenero? Negli anni ’90 avevamo il discman e il Megadrive, eppure non esisterà più un posto altrettanto arretrato dove vivere.

7. IRON MAIDEN – JUDGEMENT OF HEAVEN (THE X FACTOR, 1995)
Nei fallimentari anni ’90, pochi fallimenti furono tanto epici quanto quello degli Iron Maiden che, ubriachi di Tavernello, impazziti per questo mondo giovanile che d’improvviso voltava le spalle al metal quello che je puzzano l’ascelle, scelsero Blaze Bayley come sostituto di Bruce Dickinson. Blaze Bayley al posto di Bruce Dickinson è come sostituire Bobo Vieri con Simone Inzaghi, questo non perché io ami particolarmente Dickinson (peraltro negli stessi anni autore del “notevole” Balls To Picasso), ma perché bisogna riconoscere che, se un Dickinson o un Vieri facevano quello che era richiesto al loro ruolo (gli acuti effemminati/i goal), gli altri erano in sostanza due che passavano di lì per caso, provenendo rispettivamente dai Wolfsbane e dal Piacenza (i Wolfsbane del calcio). Eppure una volta, una soltanto, anche all’uomo qualunque è concessa la grazia, e mentre Simone Inzaghi gonfiava la rete del Chelsea fuori casa, il buon Blaze, forse proprio per questo motivo, scriveva l’unica canzone sincera, anni novanta in quanto filo-suicida e autenticamente commovente di una discografia-farsa. Negli anni ’90 il cantante degli Iron Maiden era un tizio grasso e stonato, eppure non esisterà più un posto altrettanto classic-metal dove vivere.

6. THE CURE – BURN (THE CROW O. S. T., 1994)
Nei filmici anni ’90, nessuno era considerato più fico totale di Brandon Walsh Lee nella parte del Corvo, cioè un pupazzo-pagliaccio darksorcino vagometal che, come è noto, morì durante le riprese del trascurabile Il Corvo in cui, guarda caso, interpretava un morto risorto. Questa pagliacciata, che noi adolescenti prendevamo sul serio, con fare lugubre, e piangendo, non so perché, ma piangendo, era dotata di una colonna sonora davvero coi controcoglioni (niente che oggi sia davvero ascoltabile), introdotta e ben rappresentanta dalla lunghissima Burn dei Cure, ossia la band del più grande pupazzo-pagliaccio darksorcino vagometal della storia della musica. Nel film, il pezzo partiva su una scena in cui Brandon rompeva uno specchio con un pugno. La morale del film era racchiusa nella frase-simbolo “non può piovere per sempre”, come dire, “dopo la pioggia viene il sereno”, in nome della quale abbiamo pianto davvero tanto. Negli anni ’90 pioveva, ma non ci sarà mai più un posto altrettanto asciutto dove vivere.

5. STONE TEMPLE PILOTS – STILL REMAINS (PURPLE, 1994)
Nei romantici anni ’90, niente era altrettanto commovente ed eterno di una promessa d’amicizia o d’amore contenente un verso come, “Fatti un bagno/berrò l’acqua che lascerai”. Ma che schifo! Negli anni ’90 nun se lavavamo, ma non ci sarà mai più un posto altrettanto pulito dove vivere.

4. STILTSKIN – INSIDE (AA.VV., TOP OF THE SPOTS 1994)
Nei commerciali anni ’90, credevamo di essere ribelli, ma eravamo soltanto un nugolo de regazzini che comprava, comprava, COMPRAVA, soprattutto vestiti, ma anche una marea di altre cose, tra cui dischi, e i nostri vestiti erano perlomeno belli, mentre i regazzini di oggi comprano, comprano, COMPRANO, esclusivamente vestiti e smartphone e droga, per poi finire in romanzi di merda come Gli Sfiorati anziché in struggenti capolavori come il nostro Jack Frusciante, che era un libro, perché noi i libri li compravamo, compravamo e COMPRAVAMO, mentre loro scaricano, scaricano, SCARICANO, di tutto, ma non libri, pornografia, immagino.

Insomma, per far comprare noialtri giovani eroi del rock’n’roll, non c’era niente di meglio del rock’n’roll, e la clamorosa Inside dei mai più coperti Stiltskin ci fece, all’epoca, comprare un pacco di Levi’s. This one goes to tutte le altre canzoni come Inside, tra cui “Spaceman” di Babylon Zoo (sempre pantaloni, mi pare), o i compagni di scaletta di immortali compilation come l’annuale “Top of the Spots”, di cui ricorderò sempre con affetto l’edizione 1994, che aveva anche, tra le altre, Run Baby Run di Sheryl Crow, Return to Innocence degli Enigma, qualcosa di Lisa Stansfield e robaccia come Miriam Makeba (il maxibon), Your Song di Elton John (la birra Peroni, forse?) e la terrificante, orrenda, mai doma Giobì giobà. Non so come si scrive. Negli anni ’90 non facevamo altro che comprare pantaloni, ma non ci sarà più un posto altrettanto in mutande dove vivere.

3. BLIND MELON – NO RAIN (BLIND MELON, 1992)
Negli schematici anni ’90, tutto doveva rientrare in una categoria ben definita, e per la musica alternative questa categoria era il GRUNGE. E siccome eravamo babbalei, tutti ci comprammo questo album di melodico country-cock-rock per via del fatto che la hit No Rain piaceva a chiunque, e che le riviste, le camicie a quadri e i lunghi capelli della band ci assicuravano che eravamo sempre e comunque GRUNGE. No Rain è, puramente e semplicemente, la più pura e semplice testimonianza della raggiante bellezza del millenovecentonovantadue, e la prematura morte del suo interprete fu il più grande e atroce dramma di quel decennio, dopo quello che conosciamo bene. Il senso profondo della canzone, peraltro, non lo potevamo davvero capire da adolescenti, ed ecco perché adesso, da grandi, ce la ritroviamo al numero tre delle nostre stronze classifiche. Negli anni ’90 eravamo davvero molto depressi, eppure non esisterà mai più un posto altrettanto felice dove vivere.

2. TAKE THAT, BACK FOR GOOD (NOBODY ELSE, 1995)
Negli omofobici anni ’90, i ragazzini malavitosi – incapaci di guardare dentro se stessi, o anche solo dentro gli Alice In Chains – amavano scherzare definendo i Take That “una banda de froci”. A parte l’eventuale irrilevanza di ciò, all’epoca, come si è spesso rimarcato su questo blog e altrove, si viveva in categorie molto serrate, il che effettivamente fu un bene da molti punti di vista (noi ne capiamo di musica, i giovani che oggi mescolano Maria Antonietta, Panda Bear e Rihanna assolutamente no), ma un male da un altro, ossia che ci perdemmo – o facemmo finta di perderci, come nel mio caso – un pezzone clamoroso come questo. A rivederli oggi nel video, che si buttano nelle pozzanghere vestiti in un modo che all’epoca era provocatorio e fico e che oggi ricorda al massimo le vecchie checche che si aggirano la notte a Valle Giulia, e a rivederli ancora oggi, con le rughe e la sfiga dentro, sembra incredibile che all’epoca li odiammo per il semplice fatto che non volevano morire. Avrei dovuto mettere qui la loro cover di Smells Like Teen Spirit, ma anche il coraggio ha un limite. Negli anni ’90 facevamo gli uomini duri, ma non esisterà mai più un posto altrettanto sure-so-sure dove vivere.

1. BURZUM, WAR (BURZUM, 1992)
Nei nordici anni ’90, ci cacammo tutti talmente sotto al cospetto della superiore intelligenza dei ragazzini bruciati norvegesi che, per difesa, li irridemmo. Quelli che, naturalmente, non formarono un gruppo black-metal che parlava di saghe nordiche ma viveva al Tuscolano, irridendo perciò se stessi. Incredibile constatare oggi che persino il black metal, passando per le beffe di maschi adulti che ascoltano Antony & the Johnsons, e attraverso cose tipo Dead Raven Choir e Wolves in the Throne Room, sia alla fine diventato talmente banale da essere socialmente accettato da tutti. Le magliette dei Darkthrone indosso alle ragazzine del Circolo sono prossime, ma sapete che c’è? C’è che Varg Vikernes ha ucciso un uomo, Bard Faust anche, e a ben vedere (e riascoltare), in questi folli tre minuti di vent’anni fa c’era praticamente tutto quello che abbiamo cercato invano in centinaia di dischi, senza trovarlo altrove. Negli anni ’90 uccidevamo gli uomini, ma non esisterà mai più un posto altrettanto innocente dove vivere.

ALTROVE:
dietnam
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enver
stereogram
musica noiosa
tostoini

CAT YOU! – Riflessioni a margine della Giornata Mondiale della Gioventù 2011 aka Indìgnate!

A causa delle disgustose minacce psico-sessuali ricevute, questo post è stato rimosso.

Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti,
ma sono dei presenti invisibili:
tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri occhi pieni di lacrime

(S. Agostino)

Navigarella (l’arte del dissociarti mentre clicchi il tasto PUBLISH)

(in cui nel disperato tentativo di avere più voglia di aggiornare la rubrica, Franci decide di togliere i titolini ed incanalare il tutto in un unico flusso)

  • Il Conte ha detto la sua su quella storia dei norvegesi uccisi dal tipo. Naturalmente è un parere non richiesto, antisemita e tutto sommato piuttosto folle –come quasi tutti i suoi pareri. Altrettanto naturalmente la cosa non ha impedito alla gente di buttarcisi a pesce, dissociarsi mentre cliccano sul tasto Publish, e quant’altro. Ormai è diventato tutto come la partita di calcetto il martedì sera.
  • Su questa storia ci si è buttato a pesce anche Assante, non ho ben capito come mai. In pratica linka un pezzo sui Mayhem (in inglese) “alla luce di quello che è accaduto a Oslo”. Qualcuno gli fa presente che a premere il grilletto è stato un fondamentalista cattolico. Lui scrive un SECONDO post nel quale rilinka la storia dei Mayhem in italiano, sapendo che probabilmente l’assassino non ha nulla a che fare con il black metal a nessun titolo, “perchè potrebbe servire, per chi vuole far uso della propria intelligenza, a comprendere meglio la società norvegese, nella quale il nazi-cristiano è cresciuto.” D’altra parte, per quanto ne so io e senza cercare su google, potrebbe benissimo essere che l’unico altro omicidio commesso in tutta la storia della Norvegia sia quello di Euronymous. Continue reading Navigarella (l’arte del dissociarti mentre clicchi il tasto PUBLISH)