Credo che un allenatore, come uno scrittore,
non debba solo scrivere scudetti o premi Nobel o campionati,
ma possa fare altri romanzi sempre molto leggibili e belli.
Io dico che attraverso un obiettivo o un microfono, se non viene spezzettato e invertite alcune frasi e domande, si può dir tutto. Il problema è di una comunicazione che prende lo spunto, sincero e reale di un’analisi, sempre per porre un interrogativo che poi, così, sfoci in una polemica.
Purtroppo abbiamo, così, siamo un fenomeno così eterogeneo, e la verità tante volte dobbiamo tenercela dentro.
(Giovanni Trapattoni, 1995)
In un pressing totale martirizzante
Il calcio non ha mai fatto parte di me, a nessun livello. Mai compreso i meccanismi, a partire dai fondamentali. Seguirlo era pura astrazione, giocarlo una noia brutale quanto frustrante: pessimi riflessi, nessun interesse verso qualsiasi forma di competizione, mai visto nel pallone una valvola di sfogo o lo strumento per un qualche tipo di affermazione o riscatto, solo colpi a vuoto e noia nera. Quando facevano le squadre ero sempre il penultimo a essere scelto (l’ultimo, un subnormale di terza media che girava con noi delle elementari. Stefano, mi pare si chiamasse. Non ho più pensato a lui fino a questo momento. Chissà che fine ha fatto). ‘Tifo’ per me è sempre stato il nome di una malattia sui libri di scuola. Mi sfugge cosa porti ad affezionarsi a una squadra piuttosto che a un’altra, a spendere tempo, energie per seguirne l’andamento, a infervorarsi per un risultato; ignoro da cosa nasca o cosa generi l’attaccamento ai colori di una maglia. E perché (se c’è, poi, un perché). A guardare le partite con gli amici mi sono sempre sentito un alieno: a posteriori, fissare intensamente una crepa sul muro mi avrebbe quasi sempre emozionato di più. A scuola non avevo niente da dire sull’argomento: tutti commissari tecnici. Io, non avrei saputo distinguere un’azione di Pelé da una partitella al campetto. Comunque non riuscivo a disinteressarmene del tutto, anche soltanto per una questione di esclusione sociale e di sensi di colpa intimamente connessi. Appartenenza, adeguamento: non il posto migliore dove cercare. Quale fosse il posto ‘giusto’, se ne esista uno, non l’ho ancora scoperto. Sono andato allo stadio più di qualche volta. Le botte da orbi che regolarmente volavano da entrambi gli schieramenti a fine partita mi hanno insegnato più cose sulla natura umana che l’opera omnia di Howard Zinn. La teppaglia che ho conosciuto in curva, materiale umano da far sembrare Richard Hell un monaco e Edward Bunker un pivello. Forse il contesto influiva, non so: serie B, poi C1, poi di nuovo B, poi ho perso quel poco di interesse che pretestuosamente mi raccontavo di avere. Non ricordo l’ultima volta che o messo piede allo stadio, di sicuro il biglietto l’ho pagato in lire.
In qualche modo, certi particolari mi sono rimasti incastrati nel cervello fin dalla più tenera età e da lì non se ne sono mai andati. Nomi più o meno farseschi, date, volti da far pensare che Lombroso non fosse poi troppo lontano dalla cosa vera; istantanee che colpivano come rasoiate la mia mente di bimbo e si fondevano indissolubilmente con la vita, che scorreva sottotraccia e il più delle volte era una faccenda di automatismi, ripetizioni più o meno consapevoli, aria bianca e aspettare. Gol, manco mezzo. Tutto il resto in compenso. Paolo Valenti a Novantesimo Minuto visto di straforo a casa dei nonni in età prescolare; la parlata ieratica di Vujadin Boskov e quel che diceva, discorsi che faceva bene sentire a sei anni (ha fatto bene a me se non altro, un casino); la progressiva, inesorabile discesa nel catrame delle corde vocali sempre più allo stremo di Sandro Ciotti, da lì ho scoperto che suono avesse la voce di un bicentenario, molto prima di ascoltare Johnny Cash; Franklin Rijkaard che scatarra come un lama, sempre a favore di telecamera, come se lo facesse apposta, come se accumulasse intenzionalmente tutto il fluido che un corpo è in grado di secernere conservandolo per quel prezioso istante. Ricordi involontari, eredità di periodi lontani e scenari usurati dalle risacche del tempo: i tossici a rota mimetizzati tra i passanti in centro, le cataste di siringhe usate ai giardini pubblici, i netturbini impegnati nella stessa erculea bonifica, di nuovo da capo ogni mattina mentre andavo a scuola. Le partite la domenica. Nessun anticipo, nessun posticipo, niente incastri manicomiali da incasinare le sinapsi a Philip Dick periodo trilogia di Valis; il concetto stesso di pay tv roba da romanzo di fantascienza. Alle 15 il mondo andava in pausa e se ne riparlava non prima di 90 minuti dopo. Il traffico si fermava, l’aria acquistava una densità diversa, il silenzio un peso specifico superiore a quello del mercurio. Non un fiato per le strade, non volava una mosca. Una passeggiata diventava un’esperienza surreale, qualcosa di impossibile da ricreare oggi, e succedeva tutte le domeniche. Una stasi innaturale tra dopobomba, Io sono leggenda ma di giorno e la riproduzione virtuale di un quadro di De Chirico applicata alla realtà. Era così ovunque, stessa situazione a Varese come a Crotone.
I calciatori non avevano l’allure da bifolchi arricchiti degli ultimi decenni né l’aura sacrale da gladiatori-semidei dell’era delle epiche battaglie ai tempi del bianco e nero; erano selvatici, brutti e analfabeti, interessanti e affascinanti quanto un tampone assorbente sopra una scrivania in linoleum (molti lo sono ancora, ma con visagista, consulente d’immagine, addetto stampa e personal trainer alle calcagna a ripulire il ripulibile). Portavano i baffi, sopracciglia cespugliose, una pelliccia a ricoprire gambe, braccia e torace; si erano formati nelle giovanili di paesi dai nomi lovecraftiani, perennemente schiacciati dalla nebbia (come mirabilmente sintetizzato da Elio E Le Storie Tese in uno dei primi pezzi: Settore giovanile targato Travagliato, ispirato agli esordi di Baresi). Davanti a un microfono apparivano impacciati, legnosi, a disagio; nelle rare occasioni srotolavano un italiano che al confronto l’ultimo degli analfabeti diventava Dante Alighieri, con la verve e la capacità comunicativa di un casellante. Gli stranieri, bizzarre eccezioni, alieni da un altro sistema solare. I loro grugni villosi li trovavi sulle figurine, in qualche intervista in differita a bofonchiare cagate da far disintegrare a furia di capriole la tomba del maestro Manzi, e stop. Conclusa la carriera avrebbero sposato la figlia del tabaccaio del paese, aperto un bar o un ristorante da qualche parte in provincia, di nuovo nel niente da cui provenivano. Nessuno ne avrebbe sentito parlare più. Niente scandali da dare in pasto ai rotocalchi, nessun matrimonio fallito con qualche indistinguibile taglio pescato in maniera del tutto randomica dal tritacarne Mediaset, niente pubblicità di cose che via via sempre più fedelmente hanno incarnato l’assioma di Bill Hicks; silenzio totale. Chi si ricorda dei De Napoli, dei Lentini, degli Eranio, dal momento in cui sono scomparsi dai radar?
Poi le cose sono cambiate. Un inizialmente lento, quasi impercettibile, ma inesorabile slittamento di senso; a un tratto, senza lasciare il tempo di accorgersene, Zenga e Mancini nella pubblicità del Sega Master System. Poi è arrivato Mai Dire Gol a dare un senso e una dignità, di più, a rendere divertente l’analfabetismo di ritorno (più spesso, analfabetismo puro e semplice). Obiettivo: far sentire la pedonaglia migliore di analfabeti coi soldi. Il materiale umano agevolava: fenomenologia di Mike Bongiorno elevata alla N e trasformata in regola di vita. Mike Bongiorno faceva la figura dell’intellettuale, diventava un galantuomo. Dalle dichiarazioni di Trapattoni proveniva il 60% del materiale a stare stretti. Poi le partite di sabato, poi di lunedì, Tele+ che per vederle dovevi pagare. Da lì tutto il resto, esponenziale: più soldi, più esposizione, più sponsor, il circo sempre più sotto i riflettori, ogni calciatore una holding, altri soldi, e il loop s’avvita. O forse no. Forse questa è solo la mia visione delle cose e i calciatori di allora erano già marionette roboanti come asini raglianti, e già da mo’. Comunque i Gronge non sarebbero arrivati a raccontare l’intero arco di discesa, si sarebbero fermati un attimo prima, sull’orlo del precipizio: Teknopunkabaret esce nel 1993, tempo qualche mese e sarebbe implosa una tra le più strabilianti espressioni artistiche di sempre, per risorgere soltanto svariati lustri più tardi. Non la fanno più dal vivo, non in questa forma: è diventata Forza lavoro nelle nebbie padane, spariti tutti i riferimenti all’uomo. Nel 1993 Giovanni Trapattoni allenava da vent’anni.
La palla in rete
Trapattoni viene da Cusano Milanino. Lombardia, quasi Svisera. In pratica l’opera omnia di Paolo Conte senza la musica, un distaccamento settentrionale dell’Interzona di Burroughs. L’hinterland lombardo nella sua declinazione più brutale e spietata, nulla di diverso da altri allucinanti non-luoghi della stessa periferia, l’epitome di ogni periferia esistente: Bresso, Solaro, Rho, Arese, parole in tal senso. Posti che risucchierebbero la voglia di vivere all’istante e per sempre a chiunque si trovasse all’improvviso a interrogarsi sul motivo della sua permanenza su questo pianeta, perché proprio qui. Domande pericolose che il più delle volte non affiorano mai, ed è un bene. Ignoro le sue gesta di calciatore e ho una percezione alquanto sfumata delle sue doti di allenatore. Il suo stile, riassumibile alla vecchia in tutti in difesa e bella lì, non mi ha mai appassionato; seguire una partita diventava quasi subito una lunga e penosa agonia, una gara di resistenza. I suoi schemi di gioco mi parevano rozzi, basilari, antispettacolari. Funzionali per mantenere la posizione, 0-0, 2-2, raramente a vincere (e sempre per il rotto della cuffia), mai a perdere. Così si continua a galleggiare, a temporeggiare nella partita della vita. Su un piano semantico, invece, lo considero uno dei più grandi geni mai esistiti. Un terrorista della parola, un eretico, quel che Martin Lutero è stato per il cristianesimo o Galileo Galilei per l’astronomia. La forza di una visione sopra ogni cosa, supportata da una capacità di piegare il lessico a proprio piacimento che appartiene soltanto ai geni o agli squinternati oltre ogni possibilità di aiuto, la testa in fiamme perennemente agitata da un’entropia impossibile da districare; grazie a quell’entropia nel tempo ha partorito, senza soluzione di continuità e in vari idiomi, allucinanti moloch linguistici che erano la materializzazione drogata dei peggiori incubi di Tullio De Mauro, torsioni logiche che avrebbero fatto impazzire d’invidia Eugène Ionesco e Alfred Jarry e lasciato Noam Chomsky senza argomenti. Sentirlo parlare ancora oggi regala brividi, gli stessi brividi che affiorano spontanei di fronte alla visione di L.H.O.O.Q., o Zang Tumb Tumb letta per la prima volta. Un prodigio per cui essere grati che esista la parola, al tempo stesso spregio e negazione vivente della torre di Babele. Lo comprenderebbe chiunque in qualsiasi lingua Trapattoni, lo straniamento che provoca è trasversale, aggrega invece di dividere, tutti uniti nello spaesamento e nell’infinito stupore. Ogni passaggio, per quanto all’apparenza dissennato e drammaticamente al di fuori di ogni costrutto, ogni tassello all’improvviso, miracolosamente, acquista un suo senso; il disegno globale si svela nella dirompente semplicità delle rivelazioni quando infine realizzi che nessuno avrebbe saputo dirla meglio, ed è una liberazione. L’effetto è paragonabile al risultato di un’operazione a cuore aperto, perfettamente riuscita, praticata utilizzando posate di plastica o abominevoli strumenti cronenberghiani. Io mi chiamo Giovanni Trapattoni è un matrimonio in Paradiso, un virtuale passaggio di consegne tra spiriti affini che si riconoscono simili nello sguardo dell’altro, la sola lettura possibile della cosa. Indefinibile, irreplicabile, comunque altrove, sempre altrove. Un attimo prima della fine la fatality: Io mi chiamo Giovanni Trapattoni, ripetuta ossessivamente a ritmi da esperimento nazista sul sistema nervoso, di colpo diventa Io mi chiamo Giovanni tra i coglioni, a tradimento, come una coltellata da un marsigliese. Fa male perché è qualcosa di molto vicino alla verità, e la verità è violenta. Lo diceva Matt Johnson (devo ancora trovare una cosa sbagliata detta da Matt Johnson).
Difficile rendere l’idea di cosa siano stati i Gronge a chi non ha saputo: lo scenario di allora non esiste più e questo di per sé non è un bene o un male, è così e basta. In anni in cui Internet non c’era, i canali di informazione erano pochi e la trasmissione dati viaggiava alla velocità di uno zoppo sordocieco, la contaminazione tra linguaggi roba da teorici picchiatelli e cinema teatro musica compartimenti stagni impossibili da mescolare, i Gronge hanno incarnato un balzo evolutivo paragonabile a quando qualcuno ha scoperto che la carne aveva un sapore migliore se prima veniva cotta. Che quel balzo evolutivo sia stato compreso da pochissimi, che i Gronge sostanzialmente non abbiano lasciato eredi e parte del loro valore verrà forse riconosciuto quando sarò morto da decenni (secoli?) una realtà che rientra nell’ordine naturale delle cose; posso solo essere grato di averli incontrati molto presto nella vita. Impossibile tradurre in parole di senso corrente cosa abbiano significato per me, quanto il loro modo di operare mi abbia aperto la testa e come le loro intuizioni continuino a essere per me tra i grimaldelli più potenti in senso assoluto. Se non avessi incrociato sulla mia strada dischi come A Claudio Villa o Teknopunkabaret ora sarei una persona più povera, sostanzialmente vuota, infinitamente più triste. Avrei coltivato la curiosità in altri modi, deprimendola continuando a cercare nei posti sbagliati, lasciandomi anestetizzare il cervello da nemmeno voglio immaginare quali cagate, morendo dentro ogni giorno un po’ di più, come Gene Hackman nel secondo Braccio violento della legge quando viene intossicato con metodo. Se questo non è successo, se oggi so dove sta il mondo che vorrei abitare, lo devo anche a Marco Bedini e variabili compari; che quel mondo esista in pochissime altre teste oltre la loro e la mia, altro discorso.