Scene di lotta di classe a Bong Jonah Hill

 

snowpiercer 2
snowpiercer 2

Immaginate The Wolf of Wall Street e Snowpiercer come due tabelle di plastica attaccate al muro di una scuola materna, quelle che hanno disegnato sopra questo o quell’oggetto da indicare con una lunga bacchetta, così che i bimbini possano associare figure e vocaboli. La tabella di Martin Scorsese è bella grande, con ampi spazi vuoti e solo 3 simboli:

-Soldi

-Droga

-Tette

 A raffica il maestro Marty indica uno alla volta i soldi, la droga e le tette per una buona oretta, poi la scena cambia inaspettatamente, lui tira fuori una seconda bacchetta tipo Chow Yun-Fat e allora indica contemporaneamente i soldi e la droga o i soldi e le tette, una volta gli scappa un le tette e le tette. Credo nella scena con i Foo Fighters in sottofondo. Una volta finito il film è tutto chiarissimo, io al primo colpo avevo capito benissimo i soldi e la droga, ma dovrei rivederlo perchè forse m’è sfuggito qualcosa sulle tette.

L’uso dei simboli è il sale di tanto cinema americano, anche quando vengono centellinati o smontati, e la sostanza è che ostentare con vigore un simbolo, un archetipo narrativo, una facile metafora, spesso ci permette di seguire facilmente un concetto mentre possiamo concentrarci su altri aspetti del film. O serve anche solo a dare un fascino occulto o a proporre associazioni intriganti. Certo è che l’overdose di simboli è rischiosa. Scorsese ne sa qualcosa, ma gli esempi nel cinema postmoderno si sprecano e il rischio di banalizzare un discorso potenzialmente intrigante è sempre dietro l’angolo. Soprattutto quando ci accorgiamo che il resto della scrittura è deficitario o quantomeno poco interessante. Il discreto The Wolf of Wall Street soffre in parte di questa malattia, passando da un primo tempo in cui l’abuso di soldi, droga e tette ha i ritmi di una commedia brillante, ad un secondo tempo in cui il film resta in un limbo sospeso tra l’insistenza nel bombardamento scorretto e una più normale deriva da biopic su grandi cadute di grandi personaggi. Certo è che non esiste qualcosa nella seconda metà del film che ravviva l’interesse della storia che Scorsese ci racconta, che sviluppa l’uso dei simboli o li associa ad altre tematiche che rimangono appena sfiorate (le vittime? Il governo?). Ma è probabile che l’interesse del maestro Marty fosse tutto per l’ennesima, meritata caduta dall’Olimpo.

La tabella di Snowpiercer è invece un po’ più piccola, ma con una caterva, un’indigestione di disegni: vagone, palla (c’è una palla), scuola, discoteca, droga (va un sacco sulle tabelle delle scuole materne), cibo, acqua, fuoco, famiglia, mano… All’inizio sembra di stare nel sequel di Ghiaccio-nove, subito dopo la glaciazione artificiale, solo che al posto della guerra fredda e di un dittatore beota qua ci troviamo con una guerra civile e un dittatore illuminato dal pragmatismo antropologico. Comunque un po’ beota. Quella di Snowpiercer è una storia perfettamente nelle corde di Bong Joon-ho: una distopia opportunamente ambientata su un treno diviso in vagoni/classi in cui ai poracci in coda vanno i tuoi sentimenti di spettatore partecipe e ai cattivi in testa vanno solo odio e gli insulti, tanto sono grotteschi apparentemente oltre il necessario.

Su ogni spunto, ogni tema, ogni vagone regna la semplicità: è ovvio chi ha ragione, chi ha torto, quali sono le priorità, l’importanza dei legami, dell’educazione, dell’organizzazione. I buoni hanno il vantaggio della disperazione, che rende le scelte obbligate, anche se non certo indolori. I cattivi hanno lo svantaggio di essere tutti dei merdoni, impossibile condividerne un qualsiasi punto di vista, anche scientifico. Il film sarebbe un compitino facile da portare a casa, ad essere asciutti, rigorosi, carpenteriani. Ma Bong è uno stonato, a cui piacciono più le associazioni e le cacofonie rispetto alla linearità, anche quando la linearità sarebbe obbligata dal plot. L’essenzialità dell’iter rende il racconto agile, la società divisa in vagoni rende chiara ogni tematica, la varietà dei personaggi dona colore ed empatia hollywoodiani e gli sprazzi di umorismo nero sembrano alleggerire il fondo anti-fascista. Ma questa è la metà meno interessante del film, quella dove sono importanti la ribellione, il sacrificio per una causa, il giusto contro lo sbagliato. Capirai, a questa c’arrivavano pure i Wachowski. L’altra metà è che ad un certo punto morte e follia s’impossessano del film con forza insostenibile, gli occhi dei protagonisti cominciano a spegnersi e gli invasati della prima classe non sono solo grotteschi pupazzi da action movie che ci piace veder eliminati, ma cominciano a diventare terrificanti. Nel film, insomma, entra di botto l’orrore. Non è un mero plot twist, non ha a che fare con la lezionicina d’antropologia pessimista che ci schiaffano a venti minuti dalla fine, ma è qualcosa che passa attraverso lo sguardo di Bong, è palpabile nel cambio di atmosfera. Ce lo dice Ed Harris, alla fine, che la vita è orrore. Ce lo dice anche Chris Evans che non sa fare i monologhi come Ed Harris, ma qua se la cava piuttosto bene. Non è il punto di vista del film a cambiare, infatti lo sguardo che si desidera preservare è sempre quello degli innocenti, ma è il campo visivo che si allarga e mette a fuoco qualcosa che è sempre stato sotto gli occhi. Un film che fino al giro di boa ha sempre camminato da sinistra a destra come il protagonista, ad un certo punto è costretto a voltarsi e a guardare indietro, come il protagonista. E quello che c’è dietro è spaventoso. E a quel punto qualcuno si chiede se vale la pena salvare ad ogni costo la purezza di fronte all’orrore imposto dalla sopravvivenza. In risposta, dal mare di simboli e analogie che d’un tratto si rivelano meno importanti e che invece sembravano essere l’essenza superficiale di Snowpiercer, emerge con forza l’unica cosa che è veramente necessaria e urgente: Bong riprende in mano la sua poesia, ci guarda negli occhi e tende la mano.