Betty non è mai stato il mio disco preferito degli HELMET. Mai capito il motivo (se poi esiste, un motivo). Forse perché non è una sassata in faccia come le precedenti, più probabile perché portavano i capelli corti e la cosa per me allora rappresentava un problema; in quel periodo della mia vita chiunque portasse i capelli corti veniva automaticamente classificato come IL NEMICO (con i dischi precedenti era diverso, non li avevo ancora visti in faccia). Non è durata, però intanto l’imprinting si era creato, e l’imprinting era più importante della realtà.
La mia graduatoria per gli HELMET è (in ordine decrescente): Strap It On, Born Annoying, Aftertaste, Meantime. Poi c’è quell’altro. Di Betty ricordo la confezione strana (la custodia del CD era di un giallo fluorescente che potenziava il giallo dell’alienante foto di copertina; la somma dei due gialli faceva male agli occhi), un pezzo che è finito nella colonna sonora del Corvo diventandone in prospettiva uno dei momenti più mediocri (comunque una sfida impari: l’inedito dei Cure, Dead souls rifatta dai Nine Inch Nails, la Rollins Band che coverizza i Suicide, i Pantera che coverizzano i Poison Idea, bastano e avanzano a polverizzare tutto il resto), e quasi nient’altro.
Aftertaste era il solo modo per portare avanti il discorso facendo qualcosa di autentico e sensato, senza diventare una macchietta ripugnante o un bieco autokaraoke. Erano famosi, i dischi vendevano, i video giravano, la faccia di Page Hamilton piazzata in copertina faceva aumentare le tirature delle riviste; l’amarcord di Born Annoying non avrebbe avuto un seguito, non avrebbe avuto senso. Per scrivere il disco Hamilton si chiude in un cottage isolato dal mondo e ne esce dieci mesi più tardi, quando ormai degli HELMET non importa più a nessuno. I primi cinque pezzi di Aftertaste non lasciano respiro, una bordata dietro l’altra, martellate in faccia pilotate da un gusto per la melodia perturbante e insidioso, con ritornelli che perforano il cranio peggio di un trapano dalla punta di diamante. Driving nowhere finisce con un assolo di chitarra che terrorizza, come fissare un tornado che avanza inesorabile e non riuscire a scappare via. È l’apice. Poi, di lì a poco, il tracollo: da metà in poi il disco si spegne lentamente, i pezzi diventano via via sempre più deboli, a giudicare dai titoli e dalla loro posizione in scaletta sembra che il gruppo stesso ne sia pienamente consapevole: It’s easy to get bored, Harmless, Crisis king. Fine delle trasmissioni.
Rispetto assoluto in ogni caso. Era il solo modo. Comunque, contiene la migliore prova in assoluto di John Stanier (il più grande batterista vivente, realisticamente in grado di battersela pure coi morti), affanculo i Battles così come qualsiasi altro gruppo in cui abbia suonato e suonerà.
I dischi usciti a nome HELMET post-2004 sono in un certo senso qualcosa di eroico. Un’impresa herzoghiana, dimostrazione adamantina di assoluto spregio del pericolo come nemmeno Howard Hughes. Disintegrano un nome e una storia con ferocia inaudita, una determinazione spaventosa nel declinare inesorabilmente verso il pessimo, l’irredimibile, l’indifendibile. Sembrano il prodotto della mente di un bambino di otto anni convinto che i fumetti di Capitan America siano la realtà. Il disorientamento che procurano in un adulto è più o meno lo stesso. Non riesco a ricordare altri esempi di gruppi o musicisti che abbiano altrettanto deliberatamente e pervicacemente infangato la propria reputazione fino alle fondamenta. Non è bastato il primo tentativo, ce ne sono voluti altri due prima di capire che non era cosa, e non è affatto detto che non ci ripensino. Un’altra porcata tra capo e collo me la aspetto da un momento all’altro. Mai abbassare la guardia.
Nel frattempo Betty, a mio modestissimo e spesso errato parere il loro disco più insignificante (per stima pregressa e affetto incommensurabile verso una persona che non ho mai conosciuto, non considero tutto quello che Page Hamilton ha pubblicato a nome HELMET dopo il 1997), ha compiuto vent’anni. Ecco dunque servito su un piatto d’argento il pretesto per un karaoke tour in cui Hamilton e la qualunque lo risuoneranno tutto dall’inizio alla fine; per quanto sia formula ormai tristemente nota e usurata ben oltre i limiti del tollerabile, resta comunque un modo ben infame per fare cassa da ogni parte lo si guardi. È una resa totale, significa avere infine ammesso che tutto quel che è venuto dopo Betty sia merda per il suo stesso creatore. Una resa doppiamente triste dal momento in cui Page Hamilton aveva deciso di portare avanti comunque la sua cosa, non importa quale fosse poi il risultato: mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa. Il tempo passa per tutti, niente niente chi era giovane quando Betty è uscito oggi potrebbe essere nonno. La domanda è sempre la stessa: cui prodest (a parte i portafogli di Page Hamilton, variabili compari e promoter)?