
Abbiamo avuto modo di definire i Crippled Black Phoenix “efferati spaccapalle” e non staremo certo a ritrattare, su disco sanno essere veramente letali; tuttavia saggiare un loro live show era quantomeno un atto dovuto verso Justin Greaves, un uomo che ha rivestito un ruolo fondamentale nel nostro viaggio all’inseguimento della sordità. Batterista di Hard To Swallow e con i Varukers e soprattutto fondatore, assieme al compianto Johnny Morrow, dei fondamentali Iron Monkey (tuttora l’unica fusione concepibile di stoner, sludge e black metal), prende parte al sovrumano Rampton, unico atto dell’indescrivibile creatura Teeth Of Lions Rule The Divine, disco-mancarone del decennio sopra qualsiasi altra cosa (se non ne avete mai sentito parlare è solo perché è uscito poche settimane prima che la stampa che conta si accorgesse dell’esistenza dei Sunn O))) e decidesse, per chissà quali assurdi motivi, che doveva diventare fico e à-la page ascoltare i loro dischi); è sua l’allucinante improvvisazione di quasi dieci minuti che apre He Who Accepts All That Is Offered (Feel Bad Hit Of The Winter), a distanza di anni e probabilmente per sempre una delle esperienze immancabili nella vita di un ascoltatore. Troverà poi il tempo di entrare negli Electric Wizard, mancando per un soffio l’appuntamento con la storia: il suo ingresso è immediatamente successivo all’emissione del sulfureo e inquietante Let Us Prey (2002), l’ultimo grande disco dello spinellante marchio che fino ad allora aveva partorito solo capolavori. Con loro incide lo scialbo We Live (2004) e rimane fino al 2006, parallelamente forma i Crippled Black Phoenix insieme all’ex-bassista dei Mogwai Dominic Aitchison e il resto, come si suol dire, è storia recente. Il gruppo è una sorta di ensemble ‘aperto’ di cui Greaves è coordinatore e supervisore, praticamente chiunque può andare e venire a suo piacimento, non esiste una formazione fissa, attualmente sono in otto ma nel tempo sono arrivati a contare fino a diciassette musicisti in una botta sola. Quella di stasera è l’ultima data di un tour europeo di tre settimane, loro sono carichissimi e l’impressione è che se la sentano molto calda, forse a ragione. Suonano come se fossero allo Stadio di Wembley privilegiando, per ovvie ragioni, il materiale più rockettaro e i brani cantati, tralasciando totalmente pezzi tipo Burnt Reynolds (un solo accordo lancinante ripetuto a nastro per dieci minuti con sopra samples di voci disperate) e riducendo al minimo gli strumentali in scaletta (solo due, ma molto belli). I primi pezzi suonano come cavalcate stoner di quelle della vecchia guardia, con la chitarra che fa TÀTTA-TÀTTA-TÀTTA-TÀTTA-TÀTTA-TÀTTA-TÀTTA-TÀTTA e istiga a scapocciare fino a svitarsi la testa dal collo; il cantante ha un’espressione sofferente da artista sensibile tormentato e sembra tirarsela, ma dopo il secondo pezzo scopriamo che il suo non è un atteggiamento, sta veramente male. Tossisce e si schiarisce la gola di continuo, pare costantemente sul punto di perdere i sensi, è giù di voce e avrebbe bisogno di una bella dormita e comincio a sperare che non attacchi a tutti quanti l’influenza A. Il resto della band in compenso, come detto, gira a mille: due chitarre (Greaves e un italiano cicciottello che sembra una comparsa dei “Soprano”), basso (uno spilungone che è il perfetto incrocio tra Stephen King e un tennista tedesco), due synth, batteria e una tipa alla viola che pure si accanisce sullo strumento ma di cui possiamo soltanto intuire la maggior parte dei passaggi, sommersa com’è dal resto della musica. Che fluisce incessante e spazia costantemente tra stoner alla bell’e meglio, plateali plagi dei Pink Floyd periodo tastieroni plasticosi e show tonitruanti, ipotesi SubArachnoid Space dei mongoloidi, post-rock meditabondo ma con la pompa stile ultimi Mogwai, e aperture alla canzone da arena – tipo i Coldplay ma con qualche buon pezzo in repertorio. La resa è altalenante, in certi momenti sembra di stare ascoltando una pessima copia dei Porcupine Tree (come se non bastassero quelli che già abbiamo), in altri ci esaltiamo come fossimo al concerto della vita (come quando tirano fuori un ricordo dei Gun Club letteralmente commovente, per una volta degno di scomodare il sacro nome di Jeffrey Lee Pierce); quel che è certo è che un’ora e quaranta è scivolata via come sabbia tra le dita, la resa acustica è stata miracolosa per una band di otto elementi, loro sono simpatici e spontanei e l’ultimo pezzo (di più di venti minuti, probabilmente un medley), con Justin che scende dal palco e viene a schitarrare totalmente impossessato in mezzo a noi, è stato un vero spettacolo. Spaccheranno il mondo o resteranno confinati al circuito dei pub; comunque vada, sanno bene come si mette in piedi un bel concerto.