Del Corvo ho letto prima il fumetto, il film l’ho visto dopo. Niente TV, poche stazioni radio, in proporzione una bella dose di informazioni inutili con cui sono stato riempito negli anni formativi viene dai fumetti. Mi piacevano i fumetti, senza distinzione. Da Dylan Dog a Tank Girl più tutto quel che stava in mezzo e oltre. La mia mente era una spugna, assorbiva tutto. Il problema era riuscire a metterci le mani una volta esaurita la paghetta, che era misera e finiva sempre troppo presto in proporzione al bisogno. A volte ho rubato, a elaborare il senso di colpa mi aiutava Kevin: se ti serve tanto una cosa e tu non hai i soldi, la puoi anche prendere in prestito. Ripensavo a quelle parole e mi passava. Il Corvo l’ho comprato. Due numeri a tremila lire – il terzo.tremila e cinque, quei bastardi – in mezzo un numero zero a duemila e stop: una spesa affrontabile. Mai nemmeno considerato l’edizione limitata, mai collezionato roba; nessuna fascinazione per l’oggetto in quanto tale, contava il contenuto, e mille lire in più o in meno per me erano soltanto mille lire in più o in meno. Mezzi per un fine, tanto per restare in argomento. È stato bello finché è durato e per molto altro tempo ancora Il Corvo. Troppo breve (ma non è sempre così per tutto?), quando è finito ci ho messo un po’ a elaborare la perdita. Avrei voluto continuasse. Quasi ogni capitolo portava il titolo di un pezzo dei Joy Division; così li ho scoperti, senza averne ascoltata una sola nota. Pochi anni più tardi, Closer mi è esploso in faccia.
È stato il primo, non sono andato in ordine cronologico. Copie bootleg orrende giravano in vinile a prezzi sostenibili, tanto bastava; una bella copertina e un vago ricordo le spinte finali per entrare nel tunnel. Mai sentito altro prima di Atrocity exhibition, il primo pezzo. Da lì il resto, combustibile per un fuoco che non ha smesso di ardere da allora. Avevo fotocopiato i testi tradotti a scuola. Senza sarebbe stata solo bella musica, strana e vagamente respingente, vagamente ostile. Altra cosa con le parole sotto gli occhi nero su bianco, condizione necessaria per dare un mio senso a quei lamenti. Entrarci, come una mano dentro un guanto nuovo, dell’esatta misura. Raramente è stato più facile, più chiaro; una verità ovvia.
Se ci arrivi presto è come se ci arrivi tardi: burocrazia, atto dovuto, comprare un vestito senza averlo provato e farselo andare bene; disfarsene senza rimpianti quando smette di fare il suo. Ma se ci arrivi al momento giusto è una rivelazione in grado di svoltare un’esistenza, di determinarla. Abitarlo per mesi o anni o una vita la logica conseguenza. Non viverla benissimo comunque, come per ogni altro classico personale, sempre in trincea: chiunque ne oltrepassi la linea di confine un invasore, la certezza che il disco parli a te soltanto, parole che nessun altro al mondo potrà comprendere mai, non allo stesso grado di intensità (semplicemente inaccettabile formulare il pensiero). Trip del genere. Rain Man al quadrato. Incidentalmente potrei dire lo stesso per una marea di altri dischi, per altri motivi, tutti validi secondo il mio sistema di valori. E come altrimenti.
Quando qualcosa è parte di te la porti dietro sempre, non importa il contesto. Continua a farmi strano vedere più di una persona in un locale dimenarsi sulle note di un loro pezzo – di solito Love will tear us apart (chissà perché sempre quella poi) – incastrato a viva forza tra una prescindibile merdata e la successiva. Lo stesso imbarazzo di seconda mano che mi assaliva per Smells like teen spirit sparata a tutta birra alle feste del liceo, decontestualizzata con violenza e brutalità paragonabili a uno stupro di gruppo moltiplicato all’infinito. Un riempipista. Quando il fastidio ha oltrepassato il livello di guardia ha coinciso con quando ho smesso di farne una questione. I dischi esistono per essere ascoltati.
Per anni non ho visto una foto di Ian Curtis. Per anni ho pensato fosse nero, nel senso di africano. Il suono della voce unito a nessun supporto visivo a confermare o smentire mi aveva portato a tracciare l’obbligatoria conclusione, a esserne convinto. Lo immaginavo bluesman deragliato, lo stato mentale che mi arrivava era quello: stare male, molto male, dentro qualche baracca gelida in nessun posto in particolare. Il resto sfumature.
Poi è arrivato il momento in cui un dettaglio del quadro generale è entrato a gamba tesa nel vissuto personale penetrando dall’esterno, mi ha invaso. All’improvviso e per sempre è diventata una questione privata; uno slittamento di piani ha dato un preciso significato, un peso specifico, una consistenza a tutti i giorni e anni precedenti vissuti nell’attesa del momento ora raggiunto, il momento del crollo. La colonna sonora più appropriata girava già dentro di me, da anni.
Closer è uscito trentacinque anni fa. Francesco me l’ha ricordato. Mai celebrato l’anniversario, sempre ignorato mese e giorno. Contrappasso definitivo, ironia suprema: dopo decenni a tenermi compagnia, miliardi di ore spese a scandagliarne ogni piega alla ricerca di nuovi elementi che rafforzassero un legame comunque fin dal giorno uno profondo più dell’oceano, del tutto ininfluente la mole di film, libri, contributi di ogni provenienza e natura sull’argomento (scansati di default o entrati da un orecchio e usciti dall’altro), a sopravvivere più a lungo nella memoria e nelle budella niente e nessuno dei suddetti, in molti sensi la nemesi assoluta. Una cover.
Le cover sono croce senza delizia il più delle volte. Con i Joy Division poi la possibilità di fallire miseramente diventa invariabile certezza – oltre che spietato indicatore del grado di assoluta incoscienza e straordinaria presunzione degli autori dello scempio – senza passare dal via, matematico. A parte un paio passabili (Nine Inch Nails, Dead souls; Codeine, Atmosphere) riconosco una sola eccezione: Transmission rifatta dai Nomeansno, in qualsiasi forma, esibizione e contesto. Mai smesso di ascoltarla, mai ascoltata troppo. La preferisco all’originale. Non saprei spiegare perché, ancora oggi per me non esiste nient’altro che anche solo le si avvicini. Un detonatore. Appena parte il giro di basso le lacrime rotolano giù (come dicevano i Tears For Fears), è incontrollabile. Mi ricordano che sono ancora vivo, non importa per quanto, non finché i fratelli Wright si sgolano ripetendo ossessivamente dance dance dance dance dance to the radio come fosse la sola cosa sensata da urlare con quanto fiato un corpo possa contenere, fino al collasso; di colpo ogni casualità acquista un senso mentre le torsioni di Ian mi rimbalzano nel cervello come un flash maligno, innescando cortocircuiti seri.