Una per i trentacinque anni di “Closer”

 

jd

Del Corvo ho letto prima il fumetto, il film l’ho visto dopo. Niente TV, poche stazioni radio, in proporzione una bella dose di informazioni inutili con cui sono stato riempito negli anni formativi viene dai fumetti. Mi piacevano i fumetti, senza distinzione. Da Dylan Dog a Tank Girl più tutto quel che stava in mezzo e oltre. La mia mente era una spugna, assorbiva tutto. Il problema era riuscire a metterci le mani una volta esaurita la paghetta, che era misera e finiva sempre troppo presto in proporzione al bisogno. A volte ho rubato, a elaborare il senso di colpa mi aiutava Kevin: se ti serve tanto una cosa e tu non hai i soldi, la puoi anche prendere in prestito. Ripensavo a quelle parole e mi passava. Il Corvo l’ho comprato. Due numeri a tremila lire – il terzo.tremila e cinque, quei bastardi – in mezzo un numero zero a duemila e stop: una spesa affrontabile. Mai nemmeno considerato l’edizione limitata, mai collezionato roba; nessuna fascinazione per l’oggetto in quanto tale, contava il contenuto, e mille lire in più o in meno per me erano soltanto mille lire in più o in meno. Mezzi per un fine, tanto per restare in argomento. È stato bello finché è durato e per molto altro tempo ancora Il Corvo. Troppo breve (ma non è sempre così per tutto?), quando è finito ci ho messo un po’ a elaborare la perdita. Avrei voluto continuasse. Quasi ogni capitolo portava il titolo di un pezzo dei Joy Division; così li ho scoperti, senza averne ascoltata una sola nota. Pochi anni più tardi, Closer mi è esploso in faccia.

È stato il primo, non sono andato in ordine cronologico. Copie bootleg orrende giravano in vinile a prezzi sostenibili, tanto bastava; una bella copertina e un vago ricordo le spinte finali per entrare nel tunnel. Mai sentito altro prima di Atrocity exhibition, il primo pezzo. Da lì il resto, combustibile per un fuoco che non ha smesso di ardere da allora. Avevo fotocopiato i testi tradotti a scuola. Senza sarebbe stata solo bella musica, strana e vagamente respingente, vagamente ostile. Altra cosa con le parole sotto gli occhi nero su bianco, condizione necessaria per dare un mio senso a quei lamenti. Entrarci, come una mano dentro un guanto nuovo, dell’esatta misura. Raramente è stato più facile, più chiaro; una verità ovvia.

Se ci arrivi presto è come se ci arrivi tardi: burocrazia, atto dovuto, comprare un vestito senza averlo provato e farselo andare bene; disfarsene senza rimpianti quando smette di fare il suo. Ma se ci arrivi al momento giusto è una rivelazione in grado di svoltare un’esistenza, di determinarla. Abitarlo per mesi o anni o una vita la logica conseguenza. Non viverla benissimo comunque, come per ogni altro classico personale, sempre in trincea: chiunque ne oltrepassi la linea di confine un invasore, la certezza che il disco parli a te soltanto, parole che nessun altro al mondo potrà comprendere mai, non allo stesso grado di intensità (semplicemente inaccettabile formulare il pensiero). Trip del genere. Rain Man al quadrato. Incidentalmente potrei dire lo stesso per una marea di altri dischi, per altri motivi, tutti validi secondo il mio sistema di valori. E come altrimenti.

Quando qualcosa è parte di te la porti dietro sempre, non importa il contesto. Continua a farmi strano vedere più di una persona in un locale dimenarsi sulle note di un loro pezzo – di solito Love will tear us apart (chissà perché sempre quella poi) – incastrato a viva forza tra una prescindibile merdata e la successiva. Lo stesso imbarazzo di seconda mano che mi assaliva per Smells like teen spirit sparata a tutta birra alle feste del liceo, decontestualizzata con violenza e brutalità paragonabili a uno stupro di gruppo moltiplicato all’infinito. Un riempipista. Quando il fastidio ha oltrepassato il livello di guardia ha coinciso con quando ho smesso di farne una questione. I dischi esistono per essere ascoltati.

Per anni non ho visto una foto di Ian Curtis. Per anni ho pensato fosse nero, nel senso di africano. Il suono della voce unito a nessun supporto visivo a confermare o smentire mi aveva portato a tracciare l’obbligatoria conclusione, a esserne convinto. Lo immaginavo bluesman deragliato, lo stato mentale che mi arrivava era quello: stare male, molto male, dentro qualche baracca gelida in nessun posto in particolare. Il resto sfumature.

Poi è arrivato il momento in cui un dettaglio del quadro generale è entrato a gamba tesa nel vissuto personale penetrando dall’esterno, mi ha invaso. All’improvviso e per sempre è diventata una questione privata; uno slittamento di piani ha dato un preciso significato, un peso specifico, una consistenza a tutti i giorni e anni precedenti vissuti nell’attesa del momento ora raggiunto, il momento del crollo. La colonna sonora più appropriata girava già dentro di me, da anni.

Closer è uscito trentacinque anni fa. Francesco me l’ha ricordato. Mai celebrato l’anniversario, sempre ignorato mese e giorno. Contrappasso definitivo, ironia suprema: dopo decenni a tenermi compagnia, miliardi di ore spese a scandagliarne ogni piega alla ricerca di nuovi elementi che rafforzassero un legame comunque fin dal giorno uno profondo più dell’oceano, del tutto ininfluente la mole di film, libri, contributi di ogni provenienza e natura sull’argomento (scansati di default o entrati da un orecchio e usciti dall’altro), a sopravvivere più a lungo nella memoria e nelle budella niente e nessuno dei suddetti, in molti sensi la nemesi assoluta. Una cover.

Le cover sono croce senza delizia il più delle volte. Con i Joy Division poi la possibilità di fallire miseramente diventa invariabile certezza – oltre che spietato indicatore del grado di assoluta incoscienza e straordinaria presunzione degli autori dello scempio – senza passare dal via, matematico. A parte un paio passabili (Nine Inch Nails, Dead souls; Codeine, Atmosphere) riconosco una sola eccezione: Transmission rifatta dai Nomeansno, in qualsiasi forma, esibizione e contesto. Mai smesso di ascoltarla, mai ascoltata troppo. La preferisco all’originale. Non saprei spiegare perché, ancora oggi per me non esiste nient’altro che anche solo le si avvicini. Un detonatore. Appena parte il giro di basso le lacrime rotolano giù (come dicevano i Tears For Fears), è incontrollabile. Mi ricordano che sono ancora vivo, non importa per quanto, non finché i fratelli Wright si sgolano ripetendo ossessivamente dance dance dance dance dance to the radio come fosse la sola cosa sensata da urlare con quanto fiato un corpo possa contenere, fino al collasso; di colpo ogni casualità acquista un senso mentre le torsioni di Ian mi rimbalzano nel cervello come un flash maligno, innescando cortocircuiti seri.

The Broken Man.

 

Esistono infiniti modi di stare male, infinite declinazioni ma il dolore è uno solo e quando c’è vorresti solo che sparisse. È democratico il dolore: non risparmia nessuno, nessuno ne è immune, come la morte opera seguendo disegni imperscrutabili e come la morte è presenza costante, connaturata alla vita. In pochi hanno la forza di affrontarlo da soli, e ancora meno gli strumenti per sviscerarlo, spiegarlo, dargli una forma che possa contenerlo e sublimarlo rendendolo così anche solo minimamente più sopportabile.
Matt Elliott è uno specialista del dolore. Un luminare del dolore. Il suo diploma se l’è conquistato sul campo, i suoi dischi le tesi di laurea, ognuno a suo modo imprescindibile per chiunque stia soffrendo come un cane per qualcuno o qualcosa, ognuno un luogo oscuro dove rifugiarsi con la certezza di essere compresi sempre, perché come diceva Wittgenstein Solo chi è molto infelice ha il diritto di compatire un altro, e sembra che Matt Elliott sia clinicamente incapace di smettere di essere infelice.
Ogni suo disco è un colpo al cuore, ma questa volta è speciale. The Broken Man è lo strappo senza ritorno, la resa finale. Esaurita la speranza in un domani migliore da conquistare col sangue e la lotta armata, estinta la curiosità verso le cose del mondo e con essa la capacità e la voglia di indignarsi ad ogni nuova ingiustizia nel mondo, abbandonata ogni fede in utopie di sorta, quel che resta è solo dolore che mangia l’anima, un dolore individuale che diventa assoluto, inconsolabile, un torpore universale che unisce tutti gli afflitti di questa terra nel tormento e nella solitudine crudele e nel silenzio. Oggi Matt Elliott siede alla destra di Hank Williams, di Townes Van Zandt, di quei pochissimi altri che hanno saputo dare un suono alla sofferenza. Se siete vivi e state male The Broken Man è indispensabile.

 

Acquista The Broken Man

 

Matt Elliott italian tour 2012

 

Tanto se ribeccamo: CODEINE


Il problema è che alla gente è piaciuto il disco sbagliato. Non capita sempre così d’altronde? Ma stavolta è diverso, questa volta è una questione personale. Di Frigid Stars non me ne è mai fregato un cazzo, non ha mai fatto parte della mia vita, non mi ha mai detto niente della mia vita. Viceversa, The White Birch mi tiene compagnia da più tempo di quanto sia disposto ad ammettere; è un porto sicuro a cui tornare ogni volta che la situazione non migliora, quando stare male non è più un’opzione, è come un amico che c’è sempre, come un cane che non muore. Non risolve niente, non è compito di un disco del resto, ma è taumaturgico almeno quanto una carezza o una pacca sulla spalla o le parole giuste al momento giusto, e quelle parole non smettono di fare lo stesso effetto – non su di me almeno.
Soltanto in un secondo momento subentra la consapevolezza che musicalmente era e resta anni luce distante (non indietro o avanti) da qualsiasi altra cosa sia mai stata e sarà mai registrata, un suono più vicino a un’idea, a uno stato della mente, un inverno perenne dove l’aria gelida è quasi sempre immobile e il sole non sorge mai, le esplosioni di chitarra un grido muto nella tormenta, la sola presenza mortale in un deserto di ghiaccio a meno ottanta gradi sottozero, lontano da ogni insediamento umano, lontano da tutto. Era il 1994 ma sono quei casi in cui il tempo perde di significato, comunque hanno aperto una strada che nessuno poi ha percorso – tantomeno la congrega di allegroni slowcore del periodo (probabilmente la scena più insensata e peregrina di sempre). Quando si sciolgono li piangono in pochi. Non ricordo le ragioni alla base dello split, lette tra le righe di una delle rare interviste postume e immediatamente dimenticate, ma ho sempre pensato che sia stato giusto così: oltre The White Birch era – è – impossibile spingersi.
Che i Codeine vengano ricordati soprattutto per Frigid Stars è solo un’altra delle infinite ingiustizie perpetrate quotidianamente nel mondo, sia pure in buona fede. Nessun problema finché il loro nome resta confinato nel limbo dei ricordi, fantasma di un passato ormai sempre più lontano, al massimo tirato fuori come sofisticato gimmick per svoltare nelle conversazioni scacciafiga (“te li ricordi quelli lì? quelli là?” – inserire nomi di gruppi dimenticati a caso, meglio se sconosciuti); diventa una beffa crudele quando li scopri riformati e ritornanti senza un perché come dei Refused qualsiasi. Per ora si limitano a scorrazzare per i festival ma se mai torneranno in tour che dolore sarà, ragazzi: ignorarli o prendere parte al karaoke? Quale che sia la scelta, una cosa è certa: sarà sbagliata.

una per Keith Caputo che sta cambiando sesso.

Keith Caputo 2011

 

 

I Life Of Agony erano un luogo della mente dove mi rifugiavo ogni volta che stavo male e sapevo e sentivo che nell’immediato futuro sarebbe andata ancora peggio. Non so cosa avesse fatto scattare l’empatia (il fatto che condividessero il batterista con i Type O Negative probabilmente ha aiutato), ma quei quattro italiani bruttissimi capitanati da uno gnomo che assomigliava tanto a un galoppino mafioso preso male erano entrati nella mia vita come una coltellata nella pancia, e non ne sarebbero mai più usciti. Musicalmente erano un incrocio tra hardcore, metal, dark e sludge mai sentito prima né tantomeno poi; nei momenti veloci pareva di essere finiti in mezzo al pogo più violento e cattivo del mondo con la certezza che il soffitto sarebbe crollato da un momento all’altro, in quelli lenti era come farsi succhiare via il sangue da un’aspirapolvere mentre un rullo compressore ci sbriciolava gli ossicini. Il primo disco, River Runs Red (1993), è un concept sul suicidio; gli interludi Monday e Thursday sono registrazioni di messaggi dalla segreteria telefonica del protagonista, viene lasciato dalla ragazza e licenziato dal lavoro, in Friday – la traccia conclusiva – si ammazza. Nel mezzo alcuni tra i pezzi più dolorosi di sempre, indipendentemente da generi musicali e gusti personali di sorta; in pratica è l’esorcismo privato del bassista e paroliere Alan Robert, figlio di divorziati, il padre alcolizzato violento che gli menava. Al microfono c’è lo gnomo triste di cui sopra, Keith Caputo, un altro che quanto a infanzia disastrata non scherza manco per il cazzo (orfano a un anno, madre morta di overdose, padre mai conosciuto): la sua voce, un lamento carico di rabbia o l’urlo più triste del mondo a seconda di come consideriate il bicchiere (che comunque è sempre mezzo pieno ma di lacrime, per citare il poeta), è quel che rimane impresso più di ogni altra cosa, più ancora della musica, che è quanto di meglio il gruppo scriverà mai. Per il successivo Ugly (1995) la stesura dei testi viene divisa 70/30 tra Robert e Caputo, i tipi sì che ne hanno viste: i primi cinque pezzi in blocco sono roba da stendere un elefante. Seasons, I Regret, Lost at 22, Other Side of the River, Let’s Pretend (primo dei sei miliardi di pezzi di Caputo dedicati alla madre morta) toglierebbero la voglia di vivere anche al più arrogante fottuto pornodivo miliardario sulla faccia della Terra. Rapidi colpi di rasoio sulla carne viva come diceva Tamburini, impossibile azzardare un paragone che non implichi il concetto di soffrire gratis come cani senza alcuna speranza di riscatto. Il resto del disco non è altrettanto buono, ci sono anzi un sacco di filler orrendi (inclusa una cover al di là del bene e del male di Don’t You (Forget About Me) posta in chiusura) ma sticazzi, i Life Of Agony la loro storia l’hanno già scritta, marchiata a fuoco per sempre nei cuori dei deboli e degli umiliati. Soul Searching Sun (1997) è UNA MERDA. Spazzatura alternative rock (erano gli ani novanta, questa definizione aveva un senso) da far vergognare la più infima delle band da classifica generalista di allora e di sempre, un susseguirsi inesorabile di pezzi insulsi il cui vuoto pneumatico emerge in maniera anche perturbante; l’ansia di non avere un cazzo da dire. Unici momenti da salvare Weeds (comunque una cosetta rispetto alla roba vecchia) e le bonus tracks incluse nella versione digipack (a spiccare una rendition triphopeggiante di Let’s Pretend che in piena notte con un cannone gargantuesco è la morte sua). Nel mezzo del tour però Caputo lascia adducendo scuse, e il gruppo momentaneamente si sfalda; dovevano venire anche a Bologna, al Covo, a fine ottobre ’97, un trauma dell’abbandono che non ho mai superato. Rientrano in pista l’anno dopo con il sostituto più improbabile che si potesse immaginare: l’abbronzato Whitfield Crane dei relitti “divertenti” Ugly Kid Joe. Tempo un paio di tour e fortunatamente capiscono che non è cosa. Nel frattempo esce la raccolta di demo e B-sides 1989-1999, che contiene probabilmente il pezzo migliore mai scritto dai Life Of Agony, Coffee Break: cercate di procurarvelo a ogni costo, fosse anche l’unico loro brano che ascolterete mai. (Continua a leggere)

True believers: Mauro Berchi

 
A 16 anni stavo messo male
Vent’anni dopo: messo uguale
(Kaos, Dr. K)

Contro.luce è il sesto album dei Canaan. Il primo, Blue Fire, è del 1996; io ero già entrato nel gorgo, solo che ancora non lo sapevo. L’anno precedente soprattutto due dischi mi avevano sconvolto la vita: In Absentia Christi dei MonumentuM e Oneiricon – The White Hypnotic dei Ras Algethi, entrambe micidiali declinazioni dark doom tra le più estreme, cupe e disperanti di sempre, roba pericolosissima allora come oggi, domani, dopodomani eccetera. Ero al primo anno delle superiori e odiavo il mondo (credo ricambiato), dappertutto aria gelida e aspettare, faceva freddo la mattina ed era sempre buio, con quei dischi ci ho svoltato l’inverno. Non avevo idea che i Ras Algethi si fossero sciolti di lì a poco e che il leader Mauro Berchi (voce, chitarra e tastiere) avesse poi avviato un nuovo progetto – Canaan appunto – in parallelo a un’etichetta discografica che presto sarebbe diventata un punto di riferimento, una specie di Cold Meat Industry di casa nostra ma con dischi che non contenevano soltanto fischi vento soffi e fruscii, del resto la cura maniacale nell’artwork e nel packaging (custodie in digipack con libretti di gran pregio) e l’estrema selezione nella scelta del catalogo erano le stesse. Complice un’intervista rivelatrice su Psycho! nell’inverno del 1997 ricollego finalmente nomi e intenti, e da lì è la fine, l’appuntamento con un nuovo album dei Canaan diventa qualcosa con cui fare regolarmente i conti, ogni volta scoprirsi sempre uguali, sempre a rantolare nel fango: gli altri stanno ancora ridendo… e noi qui, a guardarci dentro, come direbbe qualcuno molto più saggio ed estremamente più sintetico del sottoscritto. Sotto il profilo dei testi quei dischi erano chiodi arrugginiti piantati a forza nella carne viva; musicalmente, una versione infinitamente più oscura e presa male dei Cure di Disintegration, chitarre sanguinanti, tastiere più soffocanti di una tonnellata di bitume e tutto il resto, con in più terminali inserti dark-ambient da far scappare via piangendo Lustmord. Dal terzo Brand New Babylon in poi la cosa si evolve seguendo traiettorie sempre più personali e irraggiungibili, sempre più nere della pece più nera, fino al punto di non ritorno di A Calling to Weakness (2002), capolavoro assoluto nonché tra i dischi da evitare ad ogni costo se state anche solo vagamente considerando l’ipotesi di farla finita anzitempo. Assieme a A Calling to Weakness, Contro.luce rappresenta lo state of art dello stare male, tra i pochissimi dischi degni di sedere alla destra di pilastri conclamati del soffrire peggio dei cani tipo White Light from the Mouth of Infinity (non a caso gli Swans sono il gruppo preferito di Mauro), Live at the Old Quarter, The Pernicious Enigma o qualche pezzo a caso dall’opera omnia del buon vecchio Gigi Tenco. Quella che segue è un’intervista a Mauro; le domande sul nuovo album sono di Reje, le foto le ho prese dal sito dei Canaan, gli errori sono miei. (Continua a leggere)