Magik Markers – Surrender to the Fantasy

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Un tempo i Magik Markers suonavano la musica più eccitante in circolazione e nella serata buona sapevano essere la migliore live band del mondo; ora sembrano la brutta copia della brutta copia della brutta copia della brutta copia della brutta copia dei Times New Viking – o di qualche altro gruppetto con tipa alla voce parimenti innocuo e inerte di cui ti scordi dopo sette secondi – a cui un orangutang sbronzo abbia appena praticato una lobotomia frontale. Devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo.

STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes

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La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.

L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.

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È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.

E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.

*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.

Pagare la musica #1

Sulla mensola in sala, a tenere fermi i miei 19 vinili (di cui 3 del mio gruppo), c’è la scatola in legno del Big Muff.

Big Muff versione americana, quello grigio alluminio.
Il Big Muff è un pedale per la chitarra.
Un pedale per la chitarra è un aggeggio dove entra un jack e ne esce un altro e cambia il suono che la tua chitarra avrebbe se entrasse diretta col jack nell’amplificatore.
Il jack è un cavo che trasporta il segnale dai microfoni che ci sono nella chitarra a qualcos’altra che chitarra non è.
L’amplificatore, in questo caso, è quel qualcosa che chitarra non è.
Nella scatola del Big Muff sulla mensola ci teniamo i preservativi.
Sotto alle due scatole di preservativi (una delle due è vuota, ora la getto nella stufa) c’è uno scontrino.
Intestazione: Muzik Station SNC – via 1° Maggio 17 – Correggio RE
Data: 23.12.2002
Importo: 143€
Asterischi *** 1€=LIRE 1936,27 *** Altri asterischi.

Quello scontrino è lì dal giorno che ho comprato quel pedale.
Il giorno, come si evince dalla data, era un giorno sotto Natale di 10 anni fa.
Con tutta probabilità mi ero fatto un regalo. Il verbo evincere è sempre un gran lusso.
Di tutte le cose che nella mia vita ho usato per suonare, solo una mi è stata regalata: una chitarra acustica amplificabile, marca Tanglewood, anch’essa fu un regalo di Natale (o di Santa Lucia, dalle mie parti va un casino), e tutt’oggi fa bella mostra di sé su un poggia chitarra di fianco alla porta del bagno.
Tutto il resto l’ho comprato. Quando ancora non avevo un lavoro mettevo da parte soldi della paghetta mensile mese dopo mese, si andava in scooter in negozi di musica a Reggio o a Modena a rompere i coglioni ai commessi per ore. Quel genere di clienti che odierei fortissimo. Come contrappasso ci facevamo fregare almeno la metà delle volte.
La mia prima chitarra elettrica fu una Fender Strat. Si chiamava proprio così: Strat, una chitarra che palesava la propria inferiorità fin dal nome, misera apocope di Stratocaster.
La comprai usata, pagandola circa 700.000£.
Aveva la leva al ponte, cioè aveva una leva là dove le corde entrano nel corpo di legno, giusto dietro i pick-up (che sono i microfoni), per fare quell’effetto che di ondulazione del suono tipo “Uaun-uaun”. Ogni volta che facevi Uaun-uaun con la leva, tutta l’accordatura andava a rane. In genere l’accordatura della mia Fender Strat andava a rane dopo un’ora che suonavi – indipendentemente dalla leva. Accordare una chitarra del genere era faticosissimo. Per me, almeno. Spiego. Quando c’è una leva, di solito, c’è un ponte Floyd Rose. Ovvero un ponte per le corde (si chiamerà così perché le corde ci passano sopra, desumo) che le fissa attraverso 6 dadi, uno ciascuna, per dosare l’accordatura fine – lì dove c’è la leva; e le fissa però anche a capotasto, ovvero dall’altra estremità della chitarra, poco prima che le corde si avvolgano nelle meccaniche in quella parte chiamata paletta, cioè alla fine del manico. Dio mio, difficilissimo. Questo tipo di ponte si chiama così perché lo inventò Floyd D. Rose, che suonava la chitarra nei Q5. Mai sentiti. Metti che una delle corde si scordi, cioè non suoni più la nota per cui è stata creata dal dio delle chitarre: allora provi a girare il dado per riportarla alla sua nota. Metti caso che la stonatura sia troppa, e il filetto della vite di questo dannatissimo dado finisca prima che tu raggiunga il tuo obiettivo, allora significa che devi svitare tutte le viti a brugola sulla paletta, risistemare l’accordatura alle meccaniche, riavvitare, risettare i dadi sul Floyd Rose e aspettarti che da lì a 4 minuti un’altra corda ti faccia mandare in culo le prove perché si scorda di nuovo.
Ammetto che questa cosa di accordare le chitarre e capire come funzionano non era esattamente nelle mie corde (ahahaha!)(cretino), e non lo è tuttora.
Vendetti la Fender Strat e comprai un’imitazione della diavoletto Gibson, in quella simpatica sottomarca che è la Epiphone. Una diavoletto rossa: 400.000£. Suonava da merda.
La terza chitarra che comprai fu una Fender Telecaster. È quella che uso ancora oggi. Una decina d’anni dovrebbe averli. Indicativamente la pagai 1.000€, o un milione di lire, ora non ricordo. Voi vi ricordate quando l’euro è entrato in vigore? Ve lo dico io: 2002.

Queste chitarre funzionano così: infili le corde dal retro attraverso un buco, queste si bloccano nel legno grazie a una pallina di metallo che non passa dal buco, porti l’altra estremità della corda alle meccaniche e accordi. Senza dover avere con te un kit da elettrauto. Tutto è più lineare, intuitivo. Il Floyd Rose è come lo spazzolino elettrico, o le macchine con cambio automatico: è innaturale – con tutto il rispetto per Mr. Rose, che spero campi ancora vent’anni lui, il suo gruppo e le sue chitarre di merda.

Il discorso che volevo fare comunque era: da quanto mi risolsi nella decisione che spendere soldi per truccare il motorino era un’attività che aveva concluso il suo tempo, e il dentista lo pagava ancora mia madre, tutto quello che mettevo da parte l’ho sempre usato per comprarmi roba per suonare.
Prendi la Telecaster di cui sopra. La ditta Fender ne produceva due tipi: una fatta negli U.S.A. e una fatta in Messico. La prima costava il doppio. Quando al Muzik Station provarono a spiegarmi le differenze tra le due cominciarono ad entrare nomi di alberi, nomi di ingegneri, nomi di pick up e altre cose che non avrei potuto capire. Chiesi di provarle. Prima una e poi l’altra. Ma non l’avrei fatto io. Io sarei rimasto di spalle, e avrei scelto quella il cui suono mi avrebbe convinto di più. Scelsi la messicana.
Questa storia delle chitarre ascoltate di spalle sono sicuro che sia vera, ma non ricordo se l’ho inventata io o me l’hanno raccontata.

In genere per il capitolo “acquisti di robe per suonare” adotto il medesimo principio in uso per il capitolo “acquisti in generale”, ovvero: non compro nulla solo perché c’è qualcosa di nuovo da poter comprare; non compro nulla nemmeno se c’è qualcosa di meglio da poter comprare. Compro qualcosa quando ciò che possiedo di vecchio non mi soddisfa più.
Su un singolo sottocapitolo però, lungo tutta la mia carriera di acquirente, ho sempre transatto: i pedali per chitarra, diminutivamente chiamati pedalini. Ci tengo a precisare che non ho mai usato il participio passato di transigere in vita mia a parte nell’ultima proposizione.

Da quando ho cominciato a suonare ho comprato circa 50 pedalini, di cui me ne restano circa 30, sparsi tra sale prova, pedaliera, amici, soffitta, davanzali. Uno ricordo di averlo visto sotto la barchessa fuori un paio di settimane fa mentre sistemavo la legna. Ora lo vado a recuperare. In numero sono superati solo dalle magliette dei gruppi – Agnese un mese fa ne ha contate 48 (di cui 7 del mio gruppo). Al conto se ne sono aggiunte altre 4 nelle ultime 2 settimane.
Questo pezzo, per la noia che mi sta elargendo nel rileggerlo, direi sia già lungo a sufficienza.

Capra

DISCONE: PIL – This is PIL

È da qualche tempo che non riesco più a leggere o sentire la parola PUNK senza provare un moto di fastidio, ed è abbastanza bizzarro se pensi che tuttora non riesco a non ammettere che  Fresh Fruit for Rotting Vegetables è il mio disco preferito. È che semplicemente da qualche anno i discorsi sul PUNK hanno perso completamente la brocca: non è mai stato chiaro cosa significasse come definizione, ma credo che fino a una quindicina/ventina d’anni fa tutti fossero d’accordo che PUNK supponesse una situazione in cui qualcosa rompeva vistosamente delle regole culturali esistenti e formalmente rispettate. Poi il termine è tornato di moda, e poi rompere le regole era diventata una specie di regola fissa ed oggi siamo arrivati al punto in cui se un disco non è immesso sul mercato in una forma inusuale (download, streaming gratuito, nameyourprice, applicazione iPad, video interattivo, esecuzione dal vivo in mezzo a un cerchio del grano etc etc etc) finisce a vendere duecento copie tra i tuoi parenti e non è detto che non ci finisca comunque, e quindi essere punk è la regola anche per Rihanna e secondo l’interpretazione corrente del termine è possibile considerare punk un normalissimo disco folk registrato da un ex artista non-folk, sulla base che –semplicemente- non è una cosa a cui l’artista in questione è avvezzo.

Da questo punto di vista non stupisce (anche se irrita) il fatto che John Lydon, cioè uno dei principali modelli a cui si pensa nell’usare il lemma in questione, si prenda la briga di esistere giostrandosi in contemporanea tre identità in palese conflitto l’una con l’altra: cantante dei Pistols riuniti ormai su base triennale, comprimario di lusso in programmi TV spazzatura ed artefice unico di un progetto PIL rimesso in strada dopo vent’anni di inattività. La reunion dei Public Image Limited era già stata fastidiosa al tempo dell’annuncio, quando diventò chiaro che non era altro che un ripescaggio del moniker con un turnista delle Spice Girls al posto di Jah Wobble e Keith Levene dimenticato da qualche parte all’inizio degli anni ottanta. D’altra parte il terreno era favorevole all’Uomo: per prima cosa i PIL sono la sega mentale di John Lydon dal terzo disco in poi, e –soprattutto- la fanbase dell’Uomo consta perlopiù di una serie di post-rockers avvinazzati e propensi a considerare puro genio qualsiasi cosa esca dal suo cilindro, ivi compreso farsi dilaniare in diretta TV da un branco di struzzi. Nei tempi che viviamo è molto difficile trovare qualcuno il cui impatto culturale resista così tanto a fronte di così poco sforzo.

L’Uomo, dal canto suo, ha sempre avuto un’invidiabile nonchalance nel prestarsi alle peggiori pantomime a cui possa prestarsi una rockstar dismessa, e di certo gli va riconosciuto un talento naturale di equilibrista delle situazioni (o situazionista dell’equilibrio), almeno fin dai tempi della prima reunion dei Pistols, con quel bizzarro aplomb stile sto facendo una cosa specifica in questo momento e questa cosa che faccio non mi sta definendo come persona che a conti fatti gli ha evitato di esser preso sul ridere o sul serio in un sacco di momenti chiave e di diventare un’icona pop contemporanea qualunque fosse il periodo a cui il termine contemporaneo si riferisse. La cosa ha un suo senso soprattutto se consideriamo appunto lo svilirsi sostanziale del termine punk, una specie di limbo ideologico secondo cui avanguardia è una dimensione musicale introdotta tra la fine del ’77 e il ’79 e riprodotta per filo e per segno nei trent’anni successivi facendo attenzione a non sgarrare mai.

Il paradosso finale è che una delle più coinvolgenti critiche a questo stato mentale venga proprio dal disco nuovo a firma PIL, specie se anticipato da un singolino calligrafico ed evanescente come One Drop. Rimasto solo al comando e privo di qualsiasi obbligo morale, John Lydon esce allo scoperto con una dozzina di deliranti proclami millelire che se non stessimo parlando di un manigoldo verrebbe da paragonarle a Dujang Prang di Alan Vega. This is PIL si fonda sulla stessa idea estenuante di minalismo applicato al pop e lo rappresenta in modo molto più crudo e impressionante delle più rosee aspettative in merito, per esplodere in capolavori di nu-disco mongoloide alla Lollipop Opera che solleticano la voglia di evasione dell’ascoltatore prima di risbatterlo in mezzo a una strada. Non fosse per le occasionali (e brutali) rimpatriate dei Martin Rev e/o Mark Stewart e/o Robert Hood del caso, probabilmente non sarebbe possibile trovare tracce della musica contenuta in This is PIL in quasi niente di quello che sta in commercio. Lo stesso appeal da lavoretto a cottimo minimo sindacale dell’opera (che a conti fatti potrebbe essere riprodotta con gli stessi risultati in una decina di altri titoli da qui alla fine dell’anno) ne aumenta il fascino. Non so dire quanto durerà, ma al momento (e contro ogni aspettativa) l’ultimo disco dei PIL mi sembra la cosa più giusta da ascoltare in questi giorni.

PS: INTERNATIONAL DAY OF SLAYER. Fatevi sotto.

Quella volta che i Talk Talk

Mi piacerebbe poter dire di quella volta che ero in pasta con i Talk Talk di It’s My Life e The Colour of Spring e poi è uscito quel disco che non suonava di niente ma in modo fighettissimo e da quel momento è partito il post rock, ma ne ho solo letto e perlopiù erano articoli del cazzo scritti da gente che palesemente non ha mai dovuto spalare un metro di neve, o forse sì e hanno i calli su per il culo a forza di dare di badile, CHE NE SO. I Talk Talk mi piacevano anche prima, nel senso che li ho conosciuti quando già Mark Hollis aveva fatto uscire il disco solista e i loro dischi mi piacciono tutti più o meno allo stesso modo, ma riesco a capire perchè la seconda parte della loro carriera eserciti così tanto fascino sugli introdotti. L’idea di avere una cosa dentro che è diversa da tutte le altre cose e di portarla avanti a costo di suicidarti scientificamente sul mercato discografico e tutte quelle robe lì, insomma, son vent’anni che rompiamo i coglioni ai nostri amici e alle nostre fidanzate con i dischi e i film e i libri, un eroe ogni tanto ce lo meritiamo pure noi.  Questa settimana ho dovuto spalare il mio primo metro di neve, ma ho potuto farlo con Laughing Stock nelle cuffie.

Il nuovo disco degli Earth è la parte due di Angels of Darkness, Demons of Light. Ho sentito un paio di pezzi sul tubo e non ci sto dentro. in qualche modo le due cose sono legate, ma non capisco bene come.

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